Ogni tanto mi pare opportuno riportare in primo piano, qui, il mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego), visto che è ancora disponibile, non ha perso (e come potrebbe?) la sua attualità e la sua rilevanza intrinseca e si avvicinano le festività natalizie. Tutte queste circostanze non sono necessariamenrte collegate tra loro, ma potrebbero esserlo, per i più volenterosi. I fatti salienti restano questi: 1038 pagine, oltre 3000 film.
Con l’occasione, dato che non credo d’averlo fatto in precedenza, segnalo alcune delle voci che sono state oggetto di revisione e cioè che erano presenti nella prima edizione, ma che nella seconda - quella attualmente in distribuzione - sono state modificate. Non le elenco tutte, anche se potrei farlo, perché un po’ di indeterminatezza qualche volta non guasta. Comunque, alcune delle (circa 50) schede modificate sono queste (a parte quella de La settima tomba, cui ho dedicato un apposito post): Blood Frenzy - Frenesia sanguinaria; La camera della tortura; Il culto del cobra; Fear of Clowns; The Hideous Sun Demon; L’isola del dottor Frankenstein; Il manichino assassino; I misteri della magia nera; La morte viene in sogno; Né mare né sabbia; Un’ombra nell’ombra; Panic; Il pozzo di Satana; Prima che mi impicchino; Quella notte in casa Coogan; Rottweiler - Cani assassini; Spettri 2.
domenica 23 dicembre 2012
domenica 25 novembre 2012
Flani (15): Occhi di Laura Mars
Come diceva Criswell, il veggente amico di Ed Wood, il futuro ci interessa perché è là che tutti ci stiamo dirigendo, ma, potrei aggiungere, il passato può interessarci ancora di più perché è là che molti di noi vorrebbero tornare. E perciò, in questa piccola macchina del tempo rappresentata dagli orpelli di ciò che fu, ecco un altro flano nella galleria che un po’ alla volta si va formando in questo blog.
La scelta questa volta è caduta su Occhi di Laura Mars di Irvin Kershner, un thriller non proprio indimenticabile che però all’epoca ebbe un certo riscontro. Ne è protagonista l’algida Faye Dunaway assieme a un Tommy Lee Jones ancora lontano dai suoi fasti da Man in Black. Secondo i miei appunti il flano dovrebbe risalire al 1° dicembre 1978.
Il richiamo al fatto che gli spettatori non potevano entrare negli ultimi 15 minuti probabilmente era riferito al fatto che, altrimenti, avrebbero potuto svegliare quelli già in sala dall’inizio (lo so, il film non è così brutto, ma non è neanche Psyco...). Unico rammarico, comunque, quello di non aver partecipato al concorso: un concorso, pensate, in cui non si dice nemmeno quali saranno in premi (“ricchi”, certo, ma quali? Solo il bando di concorso - da ritirare rigorosamente alla cassa - avrebbe potuto dircelo) e ormai è troppo tardi per assumere informazioni al riguardo.
La scelta questa volta è caduta su Occhi di Laura Mars di Irvin Kershner, un thriller non proprio indimenticabile che però all’epoca ebbe un certo riscontro. Ne è protagonista l’algida Faye Dunaway assieme a un Tommy Lee Jones ancora lontano dai suoi fasti da Man in Black. Secondo i miei appunti il flano dovrebbe risalire al 1° dicembre 1978.
Il richiamo al fatto che gli spettatori non potevano entrare negli ultimi 15 minuti probabilmente era riferito al fatto che, altrimenti, avrebbero potuto svegliare quelli già in sala dall’inizio (lo so, il film non è così brutto, ma non è neanche Psyco...). Unico rammarico, comunque, quello di non aver partecipato al concorso: un concorso, pensate, in cui non si dice nemmeno quali saranno in premi (“ricchi”, certo, ma quali? Solo il bando di concorso - da ritirare rigorosamente alla cassa - avrebbe potuto dircelo) e ormai è troppo tardi per assumere informazioni al riguardo.
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martedì 20 novembre 2012
L'Uomo Ragno al cinema
L'anno scorso era successo con i Fantastici Quattro di cui il considerevole sito fumettistico Lo Spazio Bianco celebrava il cinquantenario, quest'anno capita con L'Uomo Ragno, di cui ugualmente Lo Spazio Bianco celebra il fatidico cinquantenario. Per i Fantastici Quattro avevo contribuito con un articolo sulle loro avventure al cinema e, su gentile richiesta del sempre prode Davide Occhicone, non mi sono potuto esimere dal fare lo stesso anche per quello che comunemente viene chiamato il tessiragnatele. L'articolo lo trovate qui.
Ma, naturalmente, sullo Spazio Bianco è tutto un florilegio di articoli e iniziative su Spider-Man: chi è interessato all'argomento ha molto da leggere ed è invitato a non trascurare l'occasione. Per parte mia, segnalo un articolo molto interessante scritto da Giuseppe Guidi su Steve Ditko, uno dei miei disegnatori preferiti e sicuramente il migliore ad aver disegnato l'Uomo Ragno (oltre al fatto non trascurabile di averlo inventato, graficamente e non solo). La prima parte dell'articolo la trovate qui, per la seconda date un'occhiata al sito perché dovrebbe essere pubblicata tra breve.
Qui sopra alcune immagini da L'Uomo Ragno colpisce ancora, in omaggio a JoAnna Cameron.
Ma, naturalmente, sullo Spazio Bianco è tutto un florilegio di articoli e iniziative su Spider-Man: chi è interessato all'argomento ha molto da leggere ed è invitato a non trascurare l'occasione. Per parte mia, segnalo un articolo molto interessante scritto da Giuseppe Guidi su Steve Ditko, uno dei miei disegnatori preferiti e sicuramente il migliore ad aver disegnato l'Uomo Ragno (oltre al fatto non trascurabile di averlo inventato, graficamente e non solo). La prima parte dell'articolo la trovate qui, per la seconda date un'occhiata al sito perché dovrebbe essere pubblicata tra breve.
Qui sopra alcune immagini da L'Uomo Ragno colpisce ancora, in omaggio a JoAnna Cameron.
mercoledì 24 ottobre 2012
Red Krokodil di Domiziano Cristopharo
All’inizio, una lunga e dettagliata didascalia introduttiva ci spiega cos’è il “krokodil”, una nuova droga sintetica a base di codeina e vari altri ingredienti. L’origine, ci viene spiegato, è localizzata in Russia, ma la droga sta ormai colpendo anche l’Europa occidentale. Gli effetti sull’organismo sono devastanti: è una droga dall’alta dipendenza e chi la usa difficilmente sopravvive più di due o tre anni. Il suo nome deriva dalla particolare alterazione della pelle che si produce nell’area in cui si sono praticate le iniezioni. Insomma, roba tosta. Da evitare come la peste. Il protagonista di questo film - Red Krokodil, la nuova opera di Domiziano Cristopharo - la pensa invece diversamente.
Cherepovets, Russia. Una persona vive nel più completo degrado, completamente focalizzato sulla droga. La sua voce fuori campo spiega come memoria e senso della realtà siano andate perdendosi nel vortice di una dipendenza a cui non riesce a sottrarsi. Giorno dopo giorno, iniezione dopo iniezione, la droga altera le sue sensazioni, devasta e trasforma il suo mondo, verso un abisso senza fondo.
Questa volta - dopo la visionarietà e il surrealismo di House of Flesh Mannequins e Museum of Wonders - Cristopharo cambia decisamente registro e punta alla sgradevolezza come mezzo per descrivere senza remore l’autodistruzione di una persona. Un solo personaggio in scena per tutto il film, una fotografia (dello stesso Cristopharo) nitida sino all’iperrealismo, un mondo tutto chiuso in se stesso, in un delirio che non lascia spazio a incursioni esterne, se non nella forma di luci improvvise, rumori, colpi senza spiegazione o significato per il protagonista, perso nella propria confusa irrealtà. Con il tempo, gli squarci si fanno più ampi e le allucinazioni sempre più vivide e terribili, si intrecciano ai ricordi d’infanzia. L’attaccarsi patetico del protagonista al piccolo coccodrillo di peluche che gli fu regalato dalla mamma è un tocco di approfondimento psicologico, ma è soprattutto l’amara simbologia di un illusorio salvagente che fa acqua.
Interamente ambientato nell’appartamento del protagonista, il film si apre però improvvisamente in qualche squarcio onirico dove la riconquista della natura ha il sapore di una scoperta tardiva e meravigliosa, ricordo di un mondo perduto, rivisitato anche e soprattutto attraverso sensazioni tattili. L’uso a più riprese della voce fuori campo per spiegare lo stato d’animo del protagonista è un espediente che fa chiarezza (e a volte è necessario), ma è forse abusato e sembra quasi segnalare una mancanza di fiducia nella forza espressiva delle immagini, che, da sole, spiegano più di quanto dicano le parole.
Non si può dire che sia un film pro o contro la droga: sicuramente, la visione di Red Krokodil ne sconsiglia vivamente l’uso mostrandone crudamente le terribili conseguenze, ma la sensazione è che non sia questo (o solo questo) lo scopo per cui è stato realizzato. è piuttosto la descrizione di un annichilimento, della distruzione di un essere umano da parte di se stesso, incurante di ogni e qualsiasi senso possa avere la vita. L’abnorme e devastato sviluppo del mondo interiore ha generato mostri. Le porte che si aprono, per lui, non sono quelle della percezione, o lo sono solo ingannevolmente, con le allucinazioni sull’occhio in cui si guarda e che lo guarda o gli incontri con un altro se stesso. Quelle che si aprono sono le porte dell’annientamento, dell’annullamento, con il desiderio, espresso dal protagonista, di essere qualunque cosa tranne se stesso. L’insignificanza dell’esistenza e la spinta a una trasfigurazione su un piano diverso, impossibile.
Non è un film facile da sopportare, soprattutto per la crudezza esplicita delle immagini e della tematica, ma talvolta anche per la dilatazione dei tempi, in relazione alla forza del racconto e alla limitatezza degli ambienti. Però è un’altra testimonianza della sensibilità di Cristopharo - che si conferma uno dei più interessanti autori del cinema indipendente - e della sua inquieta autorialità, rivolta all’esplorazione di recessi lasciati dai più nell’oscurità. Il suo percorso sembra indirizzato a un progressivo abbandono di ogni piacevolezza - anche e soprattutto di quelle di tipo exploitativo che fornivano un elemento, quello erotico, consistente in House of Flesh Mannequins - per abbracciare un’austerità severa, rotta solo da qualche ritorno visionario (gli incubi, l’uomo con la maschera da coniglio, le delirianti simbologie religiose) sempre caratterizzato da una nitidezza allucinata e da un rigore inconsueto. Prova coraggiosa e valida del protagonista Brock Madson. Notevole e appropriata la musica di Alexander Cimini.
L’ultimo fotogramma, con una visione serena del bosco, è micidiale nel segnalare l’assenza.
Cherepovets, Russia. Una persona vive nel più completo degrado, completamente focalizzato sulla droga. La sua voce fuori campo spiega come memoria e senso della realtà siano andate perdendosi nel vortice di una dipendenza a cui non riesce a sottrarsi. Giorno dopo giorno, iniezione dopo iniezione, la droga altera le sue sensazioni, devasta e trasforma il suo mondo, verso un abisso senza fondo.
Questa volta - dopo la visionarietà e il surrealismo di House of Flesh Mannequins e Museum of Wonders - Cristopharo cambia decisamente registro e punta alla sgradevolezza come mezzo per descrivere senza remore l’autodistruzione di una persona. Un solo personaggio in scena per tutto il film, una fotografia (dello stesso Cristopharo) nitida sino all’iperrealismo, un mondo tutto chiuso in se stesso, in un delirio che non lascia spazio a incursioni esterne, se non nella forma di luci improvvise, rumori, colpi senza spiegazione o significato per il protagonista, perso nella propria confusa irrealtà. Con il tempo, gli squarci si fanno più ampi e le allucinazioni sempre più vivide e terribili, si intrecciano ai ricordi d’infanzia. L’attaccarsi patetico del protagonista al piccolo coccodrillo di peluche che gli fu regalato dalla mamma è un tocco di approfondimento psicologico, ma è soprattutto l’amara simbologia di un illusorio salvagente che fa acqua.
Interamente ambientato nell’appartamento del protagonista, il film si apre però improvvisamente in qualche squarcio onirico dove la riconquista della natura ha il sapore di una scoperta tardiva e meravigliosa, ricordo di un mondo perduto, rivisitato anche e soprattutto attraverso sensazioni tattili. L’uso a più riprese della voce fuori campo per spiegare lo stato d’animo del protagonista è un espediente che fa chiarezza (e a volte è necessario), ma è forse abusato e sembra quasi segnalare una mancanza di fiducia nella forza espressiva delle immagini, che, da sole, spiegano più di quanto dicano le parole.
Non si può dire che sia un film pro o contro la droga: sicuramente, la visione di Red Krokodil ne sconsiglia vivamente l’uso mostrandone crudamente le terribili conseguenze, ma la sensazione è che non sia questo (o solo questo) lo scopo per cui è stato realizzato. è piuttosto la descrizione di un annichilimento, della distruzione di un essere umano da parte di se stesso, incurante di ogni e qualsiasi senso possa avere la vita. L’abnorme e devastato sviluppo del mondo interiore ha generato mostri. Le porte che si aprono, per lui, non sono quelle della percezione, o lo sono solo ingannevolmente, con le allucinazioni sull’occhio in cui si guarda e che lo guarda o gli incontri con un altro se stesso. Quelle che si aprono sono le porte dell’annientamento, dell’annullamento, con il desiderio, espresso dal protagonista, di essere qualunque cosa tranne se stesso. L’insignificanza dell’esistenza e la spinta a una trasfigurazione su un piano diverso, impossibile.
Non è un film facile da sopportare, soprattutto per la crudezza esplicita delle immagini e della tematica, ma talvolta anche per la dilatazione dei tempi, in relazione alla forza del racconto e alla limitatezza degli ambienti. Però è un’altra testimonianza della sensibilità di Cristopharo - che si conferma uno dei più interessanti autori del cinema indipendente - e della sua inquieta autorialità, rivolta all’esplorazione di recessi lasciati dai più nell’oscurità. Il suo percorso sembra indirizzato a un progressivo abbandono di ogni piacevolezza - anche e soprattutto di quelle di tipo exploitativo che fornivano un elemento, quello erotico, consistente in House of Flesh Mannequins - per abbracciare un’austerità severa, rotta solo da qualche ritorno visionario (gli incubi, l’uomo con la maschera da coniglio, le delirianti simbologie religiose) sempre caratterizzato da una nitidezza allucinata e da un rigore inconsueto. Prova coraggiosa e valida del protagonista Brock Madson. Notevole e appropriata la musica di Alexander Cimini.
L’ultimo fotogramma, con una visione serena del bosco, è micidiale nel segnalare l’assenza.
mercoledì 10 ottobre 2012
I mercoledì di Pippo
Segnalo, per pura vanità, questo interessante articolo - Gli pseudobiblia di Pippo - a firma Lucius Etruscus, che ha avuto la bontà di parlare, su thrillermagazine.it, dei Mercoledì di Pippo, la serie che, ere fa, ho creato: della serie e della sua genesi - grazie a Lino Gorlero - ho già scritto qualcosa in questa sede (per esempio qui e qui). L'articolo di Lucius Etruscus, invece, lo potete trovare qui.
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giovedì 27 settembre 2012
I maggiori incassi horror della stagione cinematografica 2011/2012
Come due anni fa e l’anno scorso, ecco la classifica degli incassi cinematografici dei film horror che sono comparsi nella Top 100 che potete trovare nella sua interezza qui, nel sito di MyMovies. La posizione tra parentesi è appunto quella che i singoli film occupano nella classifica generale, mentre quella non tra parentesi - come i più intuitivi possono immaginare anche senza che lo dica - è la posizione nella classifica che riguarda solo gli horror. La classifica riguarda la stagione cinematografica appena finita, iniziata nell’agosto 2011 e terminata nel luglio 2012:
1 (6) The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1 15.706.206
2 (24) Dark Shadows 6.714.212
3 (76) Underworld - Il risveglio 3D 2.133.495
4 (77) Insidious 2.097.613
5 (81) L’altra faccia del diavolo 2.057.225
6 (87) Final Destination 5 1.847.524
7 (92) La leggenda del cacciatore di vampiri 1.650.170
In una progressiva rarefazione dei titoli horror, questa volta ne compaiono solo sette nei primi cento incassi, una percentuale al minimo sindacale e anche la composizione non è di quelle che fa ben sperare per la salute del genere. Il primo posto va all’ennesimo episodio di una saga di successo che ha l’horror solo come componente, ma che vede come elemento attrattivo il sentimentalismo, il romance, come dicono gli americani. Che piaccia o no, è questo che passa il convento e attira molti. Dark Shadows è l’ennesima rielaborazione burtoniana di qualcosa di preesistente, in questo caso una soap opera horror vampiresca (ma c’era anche un licantropo, dei fantasmi e così via) che ebbe un buon successo negli anni Sessanta e lanciò (non saprei dire dove, però) soprattutto il bravo Jonathan Frid (recentemente scomparso) nella parte del vampiro Barnabas Collins. Dalla soap opera vennero tratti anche due film: il primo, La casa dei vampiri, vedeva Frid/Barnabas in grande spolvero come protagonista assoluto (e aveva anche una trama interessante e innovativa per l’epoca), mentre il secondo, La casa delle ombre maledette, era assolutamente Barnabas-free e anche un tantino noiosetto (di entrambi ho scritto nel Dizionario dei film horror, ovviamente). La soap opera ebbe poi un revival negli anni Novanta con nientemeno che Barbara Steele tra i protagonisti, ma il successo non arrise all’iniziativa. Al film di Burton non è andata molto bene complessivamente al box office (in relazione al budget sontuoso di 150 milioni di dollari), ma in Italia se l’è cavata. Poi ci sono i consueti episodi di franchise che hanno già tentato in passato o quest’anno l’ormai sfiatata carta del 3-D, il consueto esorcistico e una rivisitazione della ghost story che prometteva un miglior esito, non solo dal punto di vista commerciale. La sola relativa novità, per l’impiego distonico di un famoso personaggio della storia, è il film su Abramo Lincoln: un po’ poco per poter parlare di un rinnovamento dell’horror.
Ma come al solito, il meglio non va in classifica e, spesso, non viene neanche distribuito nelle sale.
1 (6) The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1 15.706.206
2 (24) Dark Shadows 6.714.212
3 (76) Underworld - Il risveglio 3D 2.133.495
4 (77) Insidious 2.097.613
5 (81) L’altra faccia del diavolo 2.057.225
6 (87) Final Destination 5 1.847.524
7 (92) La leggenda del cacciatore di vampiri 1.650.170
In una progressiva rarefazione dei titoli horror, questa volta ne compaiono solo sette nei primi cento incassi, una percentuale al minimo sindacale e anche la composizione non è di quelle che fa ben sperare per la salute del genere. Il primo posto va all’ennesimo episodio di una saga di successo che ha l’horror solo come componente, ma che vede come elemento attrattivo il sentimentalismo, il romance, come dicono gli americani. Che piaccia o no, è questo che passa il convento e attira molti. Dark Shadows è l’ennesima rielaborazione burtoniana di qualcosa di preesistente, in questo caso una soap opera horror vampiresca (ma c’era anche un licantropo, dei fantasmi e così via) che ebbe un buon successo negli anni Sessanta e lanciò (non saprei dire dove, però) soprattutto il bravo Jonathan Frid (recentemente scomparso) nella parte del vampiro Barnabas Collins. Dalla soap opera vennero tratti anche due film: il primo, La casa dei vampiri, vedeva Frid/Barnabas in grande spolvero come protagonista assoluto (e aveva anche una trama interessante e innovativa per l’epoca), mentre il secondo, La casa delle ombre maledette, era assolutamente Barnabas-free e anche un tantino noiosetto (di entrambi ho scritto nel Dizionario dei film horror, ovviamente). La soap opera ebbe poi un revival negli anni Novanta con nientemeno che Barbara Steele tra i protagonisti, ma il successo non arrise all’iniziativa. Al film di Burton non è andata molto bene complessivamente al box office (in relazione al budget sontuoso di 150 milioni di dollari), ma in Italia se l’è cavata. Poi ci sono i consueti episodi di franchise che hanno già tentato in passato o quest’anno l’ormai sfiatata carta del 3-D, il consueto esorcistico e una rivisitazione della ghost story che prometteva un miglior esito, non solo dal punto di vista commerciale. La sola relativa novità, per l’impiego distonico di un famoso personaggio della storia, è il film su Abramo Lincoln: un po’ poco per poter parlare di un rinnovamento dell’horror.
Ma come al solito, il meglio non va in classifica e, spesso, non viene neanche distribuito nelle sale.
venerdì 21 settembre 2012
Bob Dylan - Tempest. Una recensione.
Se c’è qualcosa che colpisce in modo particolare nella nuova fase della carriera di Bob Dylan, quella che è partita con l’album di uno dei suoi vari “ritorni” (Time Out of Mind), è che, diversamente da altre reliquie (qualcuno direbbe relitti) del cosiddetto rock, Dylan ha prodotto delle opere modernamente antiche, pienamente aderenti all’età di chi le ha scritte e realizzate senza aver paura di invecchiare, ma anzi traendone spunto per nuove riflessioni, non sempre, bisogna dirlo, ottimistiche. Ma del resto, come ho sentito dire da un tizio al mercato della frutta qualche giorno fa, “la vecchiaia non è per niente bella, ma l’alternativa è peggiore”. Però, dopo Time Out of Mind, che oggettivamente è un album amaramente introspettivo che affronta (anche) proprio il tema dell'invecchiare, il tono dei successivi si era prevalentemente alleggerito e Dylan era sembrato in qualche modo pacificato con se stesso, capace di una saggezza relativamente serena che traspariva anche da canzoni fortemente critiche come Workingman's Blues # 2 o Mississippi. Capace di un album quasi leggero come Together Through Life e di un altro addirittura bonario come Christmas in the Heart. Poco lasciava prevedere un disco come Tempest, addirittura spietato, cupo, tremendo nelle sue visioni, difficile da accettare, ma anche per questo tra i migliori di Dylan. Inutile fare classifiche, ma la desolata visione del mondo che traspare da Tempest è ricca di umori, di frasi memorabili, di carne e sangue e appartiene al Dylan capace di incidere chirurgicamente nella realtà di una società così ingiusta da essere al di là di ogni redenzione che non sia individuale. Questo disco è oltre il pessimismo, contiene la rabbia di chi sente montare la violenza nell’ambiente che lo circonda e se ne sente già contagiato. Da qualche parte sul web ho letto che qualcuno ha paragonato l’ambiente nel quale "vivono" le canzoni di questo disco a quello che Dylan aveva immaginato per Masked & Anonymous, il film del 2003 cui ho dedicato un capitolo del mio libro Il cinema di Bob Dylan. Trovo che sia un’osservazione giusta: anche in quel film c’è lo sconcerto di chi osserva una società che non è più possibile capire, in cui nulla funziona più e in cui non ci sono valori salvifici, se mai ce ne sono stati. Proprio come nell’immaginaria Scarlet Town (ogni riferimento a Barbara Allen, Sweet William compreso, è naturalmente del tutto voluto), cupissima cittadina i nomi delle cui strade nessuno può pronunciare.
Come a fare da tramite tra i dischi che l’hanno preceduto e ciò che, con una forte soluzione di continuità, è contenuto in questo, Tempest si apre con Duquesne Whistle, un brano - forse l’unico - brillante e ritmato, deliziosamente rétro, che avrebbe potuto far parte di "Love & Theft" o di Together Through Life, ma che è stato accompagnato da un video - ne ho parlato qui - che invece raffigura il tipo di ambiente che compare nelle canzoni successive. La progressione verso gli inferi è leggera e la successiva Soon After Midnight appare come una deliziosa canzone d’amore in cui però si parla marginalmente di cadaveri nel fango e di pranzi nel sangue. Ma questa canzone è anche utile per trattare l’argomento - sempre più spinoso - della voce di Dylan. Questo è forse il primo disco in studio dove la voce appare stracciata e gracchiante proprio come nei concerti, a testimonianza di un deterioramento che procede spedito come il Duquesne. Ma in Soon After Midnight, la voce riesce ancora a essere quasi integra, carezzevole come si conviene, a dimostrazione che non tutto è perduto. Dylan comunque conosce lo stato della sua voce e agisce di conseguenza. Detto questo la domanda che sorge spontanea è: come è la voce all’ascolto? Perfettamente adatta al materiale, direi. La sofferenza e l’amara cattiveria, la world-weariness che i testi trasmettono, sono ben serviti e amplificati dalla voce rotta e usurata. Usurata come tutto ciò che c’era di buono.
Narrow Way è fluviale, bluesata, con la sua ammirevole quota di versi memorabili, da “This is hard country to stay alive in/Blades are everywhere, and they’re breaking my skin” a “Your father left you, your mother too/Even death has washed its hands of you”. Ma è con Long and Wasted Years che entriamo nel territorio dei capolavori assoluti. Contrariamente alle canzoni di questo disco, è breve, sintetica, ma ricchissima di significati e spunti. Appartiene alla categoria di canzoni d’amore che solo Dylan è stato capace di creare. Meglio, più che canzoni d’amore, canzoni sulla relazione di coppia. Il modo di cantarla richiama alla mente il parlato/cantato di Brownsville Girl, anche questo un marchio di fabbrica dylaniano. E che cosa si può dire di una canzone che termina così: “So much for tears/So much for these long and wasted years”? La melodia è accattivante e straziante al tempo stesso, perfettamente in linea con il contenuto dei versi.
Con Pay in Blood scendiamo in pieno negli inferi di un mondo violento, descritto con partecipazione, sarcasmo e la sana cattiveria di chi ha capito come vanno le cose e non cerca più di contrastarle (ancora, qualcuno ricorda il finale di Masked & Anonymous?). Pago col sangue, ma non col mio: si può immaginare una frase più hard-boiled? Da Hammett a Mickey Spillane, attraverso la lente dylaniana che tutto trasfigura: una delle canzoni simbolo di questo album.
Scarlet Town è un’altra delle vette assolute di questo album. Sulfurea rivisitazione della tradizione folk e, come ho ricordato sopra, in particolare di Barbara Allen, più volte cantata da Dylan in concerto, è però tutt’altra cosa: è la descrizione di un altro tipo di inferno, un inferno nel quale tutti viviamo, dove - ed è significativo - “Help comes, but it comes too late”. Troppo tardi, è sempre troppo tardi. L’andamento mesto e la melodia avvolgente sono ipnotici, mentre le parole si srotolano in una metafora dell’esistenza: “In Scarlet town, the end is near”.
Early Roman Kings, uno dei brani che si era potuto sentire con un largo anticipo, è ben poco rappresentativo dell’album nel suo complesso, ma ci sta bene al suo interno, con i suoi testi taglienti e spavaldi, su una base blues che sarà anche, come dicono molti (ma su questo si legga l’intervista che Dylan ha rilasciato a Rolling Stone: intervista, aggiungo, nella quale parla anche di Masked & Anonymous!), basata sul riff di I’m a Man o Mannish Boy, ma che si rifà anche e soprattutto a un format blues strausato e largamente tradizionale.
Tin Angel è il curioso tentativo di scrivere un murder ballad moderna, raccontando un funereo triangolo amoroso nel quale tutti perdono, non solo la vita. Come capita a praticamente tutti i brani di questo disco, la musica è un tappeto sonoro quasi monolitico, accattivante ma ripetitivo, che serve a supportare un fiume di parole che cattura e trasporta, lasciando ritrovare a Dylan una vena narrativa che sembrava perduta.
La stessa vena narrativa è predominante in Tempest, la canzone sul Titanic di cui si è favoleggiato a lungo. Il gradevolissimo andamento a valzerone richiama Sad-Eyed Lady of the Lowlands (che però musicalmente era assai più ricca), mentre la folla di personaggi che si agita nel cuore del disastro non può che ricordare Desolation Row. Qui Dylan ritrova il modo di narrare che gli è proprio: per dettagli, a formare un quadro generale sfuggente, che sfugge sempre più maggiori sono i dettagli che vengono forniti. Come avveniva in Brownsville Girl o in diverse canzoni di Blood on the Tracks (e diversamente da come avveniva in Desire, dove la collaborazione di Jacques Levy dava una coerenza più tradizionale al racconto). Considerare l’affondamento del Titanic una metafora del disastro dell’ambizione umana è persino banale e Dylan sfugge a questa semplificazione. Caotico e devastante, Tempest è il ritratto di una moltitudine di fronte alla morte, dei diversi modi di morire e della sostanziale indifferenza del fato di fronte ai diversi comportamenti, ma dell’importanza che essi rivestono nei confronti dei singoli che li hanno adottati. Sullo sfondo di questo riscatto o mancato riscatto individuale sta l’incapacità di comprendere le ragioni del nostro destino: “They waited at the landing/And they tried to understand/But there is no understanding/For the judgement of God’s hand”.
L’ultimo brano è Roll On John, dedicato a John Lennon. Certo che quando Dylan scrive qualcosa su qualcuno che è morto ce ne mette di tempo, viene da pensare. Per Lenny Bruce ci sono voluti 15 anni, per Lennon addirittura 32. Questo dà il senso del tempo di Dylan e del fatto che non fa mai le cose che ti aspetti che faccia. Alzi la mano chi pensava che avrebbe scritto qualcosa su Lennon dopo tutti questi anni. Detto questo, per quanto sia un buon brano, è forse tra i meno significativi del disco, immerso in una sincera agiografia che deriva senz’altro dall'amicizia e ammirazione reciproca, ma pur evocando immagini inquiete e affascinanti, ha qualche caduta nel banale. Nel testo non mancano citazioni da Lennon e a questo proposito e alle polemiche che ci sono state negli ultimi anni per l’uso da parte di Dylan di frasi di altri autori nelle sue canzoni c’è da rilevare che, dato che tutti conoscono le canzoni dei Beatles, nessuno ha pensato che Dylan avesse voluto appropriarsene, mentre l’atteggiamento era stato diverso con - per fare un nome - Henry Timrod. Questo significa solo - come ha notato qualcuno - che Dylan ha letture molto più sofisticate delle nostre...
In conclusione, è un disco imperdibile e inaspettato perché ancora una volta Dylan ha saputo rinnovarsi e non ripetersi, riuscendo a cavare dal cappello un coniglio nuovo e stupefacente.
Per chi è riuscito ad arrivare sin qui, segnalo un’altra recensione che ho trovato molto interessante e che vi invito a leggere: è quella di Alessandro Carrera e la potete leggere qui (scorrendo sino al 19 settembre), sull’ottimo sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm.
La foto qui sopra è tratta dal foglietto interno del disco, mentre segnalo che nell'edizione deluxe è contenuto un notebook con la riproduzione di parecchie copertine dedicate a Dylan dai periodici di svariati paesi negli anni Sessanta e Settanta: tra queste anche un paio di copertine di Ciao Amici, per chi si ricorda di questa rivista "giovane" (io sì).
Come a fare da tramite tra i dischi che l’hanno preceduto e ciò che, con una forte soluzione di continuità, è contenuto in questo, Tempest si apre con Duquesne Whistle, un brano - forse l’unico - brillante e ritmato, deliziosamente rétro, che avrebbe potuto far parte di "Love & Theft" o di Together Through Life, ma che è stato accompagnato da un video - ne ho parlato qui - che invece raffigura il tipo di ambiente che compare nelle canzoni successive. La progressione verso gli inferi è leggera e la successiva Soon After Midnight appare come una deliziosa canzone d’amore in cui però si parla marginalmente di cadaveri nel fango e di pranzi nel sangue. Ma questa canzone è anche utile per trattare l’argomento - sempre più spinoso - della voce di Dylan. Questo è forse il primo disco in studio dove la voce appare stracciata e gracchiante proprio come nei concerti, a testimonianza di un deterioramento che procede spedito come il Duquesne. Ma in Soon After Midnight, la voce riesce ancora a essere quasi integra, carezzevole come si conviene, a dimostrazione che non tutto è perduto. Dylan comunque conosce lo stato della sua voce e agisce di conseguenza. Detto questo la domanda che sorge spontanea è: come è la voce all’ascolto? Perfettamente adatta al materiale, direi. La sofferenza e l’amara cattiveria, la world-weariness che i testi trasmettono, sono ben serviti e amplificati dalla voce rotta e usurata. Usurata come tutto ciò che c’era di buono.
Narrow Way è fluviale, bluesata, con la sua ammirevole quota di versi memorabili, da “This is hard country to stay alive in/Blades are everywhere, and they’re breaking my skin” a “Your father left you, your mother too/Even death has washed its hands of you”. Ma è con Long and Wasted Years che entriamo nel territorio dei capolavori assoluti. Contrariamente alle canzoni di questo disco, è breve, sintetica, ma ricchissima di significati e spunti. Appartiene alla categoria di canzoni d’amore che solo Dylan è stato capace di creare. Meglio, più che canzoni d’amore, canzoni sulla relazione di coppia. Il modo di cantarla richiama alla mente il parlato/cantato di Brownsville Girl, anche questo un marchio di fabbrica dylaniano. E che cosa si può dire di una canzone che termina così: “So much for tears/So much for these long and wasted years”? La melodia è accattivante e straziante al tempo stesso, perfettamente in linea con il contenuto dei versi.
Con Pay in Blood scendiamo in pieno negli inferi di un mondo violento, descritto con partecipazione, sarcasmo e la sana cattiveria di chi ha capito come vanno le cose e non cerca più di contrastarle (ancora, qualcuno ricorda il finale di Masked & Anonymous?). Pago col sangue, ma non col mio: si può immaginare una frase più hard-boiled? Da Hammett a Mickey Spillane, attraverso la lente dylaniana che tutto trasfigura: una delle canzoni simbolo di questo album.
Scarlet Town è un’altra delle vette assolute di questo album. Sulfurea rivisitazione della tradizione folk e, come ho ricordato sopra, in particolare di Barbara Allen, più volte cantata da Dylan in concerto, è però tutt’altra cosa: è la descrizione di un altro tipo di inferno, un inferno nel quale tutti viviamo, dove - ed è significativo - “Help comes, but it comes too late”. Troppo tardi, è sempre troppo tardi. L’andamento mesto e la melodia avvolgente sono ipnotici, mentre le parole si srotolano in una metafora dell’esistenza: “In Scarlet town, the end is near”.
Early Roman Kings, uno dei brani che si era potuto sentire con un largo anticipo, è ben poco rappresentativo dell’album nel suo complesso, ma ci sta bene al suo interno, con i suoi testi taglienti e spavaldi, su una base blues che sarà anche, come dicono molti (ma su questo si legga l’intervista che Dylan ha rilasciato a Rolling Stone: intervista, aggiungo, nella quale parla anche di Masked & Anonymous!), basata sul riff di I’m a Man o Mannish Boy, ma che si rifà anche e soprattutto a un format blues strausato e largamente tradizionale.
Tin Angel è il curioso tentativo di scrivere un murder ballad moderna, raccontando un funereo triangolo amoroso nel quale tutti perdono, non solo la vita. Come capita a praticamente tutti i brani di questo disco, la musica è un tappeto sonoro quasi monolitico, accattivante ma ripetitivo, che serve a supportare un fiume di parole che cattura e trasporta, lasciando ritrovare a Dylan una vena narrativa che sembrava perduta.
La stessa vena narrativa è predominante in Tempest, la canzone sul Titanic di cui si è favoleggiato a lungo. Il gradevolissimo andamento a valzerone richiama Sad-Eyed Lady of the Lowlands (che però musicalmente era assai più ricca), mentre la folla di personaggi che si agita nel cuore del disastro non può che ricordare Desolation Row. Qui Dylan ritrova il modo di narrare che gli è proprio: per dettagli, a formare un quadro generale sfuggente, che sfugge sempre più maggiori sono i dettagli che vengono forniti. Come avveniva in Brownsville Girl o in diverse canzoni di Blood on the Tracks (e diversamente da come avveniva in Desire, dove la collaborazione di Jacques Levy dava una coerenza più tradizionale al racconto). Considerare l’affondamento del Titanic una metafora del disastro dell’ambizione umana è persino banale e Dylan sfugge a questa semplificazione. Caotico e devastante, Tempest è il ritratto di una moltitudine di fronte alla morte, dei diversi modi di morire e della sostanziale indifferenza del fato di fronte ai diversi comportamenti, ma dell’importanza che essi rivestono nei confronti dei singoli che li hanno adottati. Sullo sfondo di questo riscatto o mancato riscatto individuale sta l’incapacità di comprendere le ragioni del nostro destino: “They waited at the landing/And they tried to understand/But there is no understanding/For the judgement of God’s hand”.
L’ultimo brano è Roll On John, dedicato a John Lennon. Certo che quando Dylan scrive qualcosa su qualcuno che è morto ce ne mette di tempo, viene da pensare. Per Lenny Bruce ci sono voluti 15 anni, per Lennon addirittura 32. Questo dà il senso del tempo di Dylan e del fatto che non fa mai le cose che ti aspetti che faccia. Alzi la mano chi pensava che avrebbe scritto qualcosa su Lennon dopo tutti questi anni. Detto questo, per quanto sia un buon brano, è forse tra i meno significativi del disco, immerso in una sincera agiografia che deriva senz’altro dall'amicizia e ammirazione reciproca, ma pur evocando immagini inquiete e affascinanti, ha qualche caduta nel banale. Nel testo non mancano citazioni da Lennon e a questo proposito e alle polemiche che ci sono state negli ultimi anni per l’uso da parte di Dylan di frasi di altri autori nelle sue canzoni c’è da rilevare che, dato che tutti conoscono le canzoni dei Beatles, nessuno ha pensato che Dylan avesse voluto appropriarsene, mentre l’atteggiamento era stato diverso con - per fare un nome - Henry Timrod. Questo significa solo - come ha notato qualcuno - che Dylan ha letture molto più sofisticate delle nostre...
In conclusione, è un disco imperdibile e inaspettato perché ancora una volta Dylan ha saputo rinnovarsi e non ripetersi, riuscendo a cavare dal cappello un coniglio nuovo e stupefacente.
Per chi è riuscito ad arrivare sin qui, segnalo un’altra recensione che ho trovato molto interessante e che vi invito a leggere: è quella di Alessandro Carrera e la potete leggere qui (scorrendo sino al 19 settembre), sull’ottimo sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm.
La foto qui sopra è tratta dal foglietto interno del disco, mentre segnalo che nell'edizione deluxe è contenuto un notebook con la riproduzione di parecchie copertine dedicate a Dylan dai periodici di svariati paesi negli anni Sessanta e Settanta: tra queste anche un paio di copertine di Ciao Amici, per chi si ricorda di questa rivista "giovane" (io sì).
sabato 8 settembre 2012
Dead Snow
I nazi-zombie del norvegese Tommy Wirkola sono quello che ci vuole per un divertimento sano e spensierato per gente che non si preoccupa se gli vengono versate addosso secchiate di splatter e di violenza iper realistica e quasi comica. Il film è Dead Snow e ne ho scritto la recensione per MyMovies: la trovate qui. Anche in questo caso buona lettura.
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La casa muta
Negli ultimi tempi - ma anche prima (basti pensare a film come Daughter of Horror a.k.a. Dementia) - ci sono sempre più spesso film horror che basano la loro stessa esistenza su qualche ricerca stilistica particolare e si differenziano proprio per quella, ricevendo attenzione di conseguenza. Possono essere film belli o brutti, ma è la loro modalità stilistica a caratterizzarli in modo assoluto. I reality horror alla Paranormal Activity (per citare un solo titolo tra i tanti) sono tra questi. In un modo diverso, anche La casa muta, film uruguaiano di Gustavo Hernandez, si distingue per la scelta narrativa e di messa in scena. Ne ho scritto la recensione per MyMovies e la trovate qui. Buona lettura.
Qui sopra Florencia Colucci in una scena dal film.
Qui sopra Florencia Colucci in una scena dal film.
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giovedì 6 settembre 2012
George A. Romero su Segnocinema 177
Nel numero 177 (settembre-ottobre 2012) di Segnocinema attualmente in distribuzione nelle librerie c'è il mio consueto articolone annuale che, com'è avvenuto l'anno scorso con Terence Fisher, si occupa dei film cosiddetti "minori" di uno dei miei registi preferiti, in questo caso George A. Romero.
Più che di film minori, in effetti, meglio è definirli semplicemente "altri", cioè diversi da quelli che costituiscono il canone romeriano più comunemente celebrato e criticamente studiato, vale a dire i film con i nostri cari morti viventi.
Diversamente da Fisher, alcuni dei film che ho preso in esame hanno una loro notorietà e sono circolati con buona distribuzione (Creepshow, per esempio, ma anche Monkey Shines e altri ancora), ma comunque hanno incontrato un destino commerciale generalmente avverso e non sono stati sufficientemente compresi.
Altri, comunque, sono rimasti delle vere e proprie oscurità. Mi riferisco in particolare a There's Always Vanilla di cui, forse per primo, ho trattato diffusamente nel mio ormai stagionato articolo romeriano su Amarcord n. 17-18 (novembre 1999), quando ancora qui in Italia lo si dava generalmente come un film "perduto". E ancora, in ogni caso, attende una distribuzione italiano, almeno in dvd. Oppure Knightriders, film di assoluto interesse e di assoluta importanza per chiunque voglia comprendere la poetica di Romero.
Di tutto questo - e di altro ancora - scrivo nell'articolo in questione, che mi ha permesso di occuparmi di nuovo del buon vecchio George, in attesa, magari chissà, di dedicargli un bel librone e nella speranza che il mio articolo possa essere di spunto per qualcuno per andare a vedersi i film, scoprendo, se già non la conosce, l'altra faccia di questo poliedrico regista curiosamente conosciuto soprattutto per una sola parte della sua opera.
Oltre al mio articolo - che per sua stessa natura è imperdibile - in questo numero di Segnocinema c'è il consueto e ancor più imperdibile speciale con tutti i film dell'anno catalogati e recensiti (ho già detto che è da non perdere? Be', come dicono gli americani... don't dare to miss it! Non osate perderlo!).
Più che di film minori, in effetti, meglio è definirli semplicemente "altri", cioè diversi da quelli che costituiscono il canone romeriano più comunemente celebrato e criticamente studiato, vale a dire i film con i nostri cari morti viventi.
Diversamente da Fisher, alcuni dei film che ho preso in esame hanno una loro notorietà e sono circolati con buona distribuzione (Creepshow, per esempio, ma anche Monkey Shines e altri ancora), ma comunque hanno incontrato un destino commerciale generalmente avverso e non sono stati sufficientemente compresi.
Altri, comunque, sono rimasti delle vere e proprie oscurità. Mi riferisco in particolare a There's Always Vanilla di cui, forse per primo, ho trattato diffusamente nel mio ormai stagionato articolo romeriano su Amarcord n. 17-18 (novembre 1999), quando ancora qui in Italia lo si dava generalmente come un film "perduto". E ancora, in ogni caso, attende una distribuzione italiano, almeno in dvd. Oppure Knightriders, film di assoluto interesse e di assoluta importanza per chiunque voglia comprendere la poetica di Romero.
Di tutto questo - e di altro ancora - scrivo nell'articolo in questione, che mi ha permesso di occuparmi di nuovo del buon vecchio George, in attesa, magari chissà, di dedicargli un bel librone e nella speranza che il mio articolo possa essere di spunto per qualcuno per andare a vedersi i film, scoprendo, se già non la conosce, l'altra faccia di questo poliedrico regista curiosamente conosciuto soprattutto per una sola parte della sua opera.
Oltre al mio articolo - che per sua stessa natura è imperdibile - in questo numero di Segnocinema c'è il consueto e ancor più imperdibile speciale con tutti i film dell'anno catalogati e recensiti (ho già detto che è da non perdere? Be', come dicono gli americani... don't dare to miss it! Non osate perderlo!).
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mercoledì 5 settembre 2012
Storia del cinema horror italiano vol. 3 di Gordiano Lupi
Prosegue speditamente l’opera di sistematico riordino dell’horror italiano scritta da Gordiano Lupi: è difatti da poco uscito il terzo volume (Storia del cinema horror italiano - Da Mario Bava a Stefano Simone, Vol. 3 - Joe D'Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie, pagg. 234, Edizioni Il Foglio, 15 €), che mantiene intatto l’approccio prettamente divulgativo e si conferma perciò utile a chi voglia un quadro veloce ma sufficientemente completo del panorama orrorifico del nostro paese.
In questo volume, i protagonisti sono quattro registi assai diversi tra loro, ma tutti di rilievo: Joe D’Amato, il re dell’horror porno-erotico; Pupi Avati, noto per tutt’altro genere di film ma capace, con solo poche opere, di caratterizzare in modo indelebile l’horror italiano; Ruggero Deodato, regista di grande abilità passato alla storia dell’horror soprattutto con i suoi horror cannibalistici (Cannibal Holocaust, per quanto di sicuramente opinabile ci sia in alcune immagini di violenza sugli animali, resta un film di soprendente qualità); Umberto Lenzi, antesignano dei cannibal movies e capace di spaziare con immutata qualità nei più svariati generi (da Sandokan ai film bellici).
Le caratteristiche editoriali, pregevoli e azzeccate, restano le stesse dei volumi precedenti. La prefazione è stavolta di Roger A. Fratter, esponente di spicco della scena indie italiana.
In questo volume, i protagonisti sono quattro registi assai diversi tra loro, ma tutti di rilievo: Joe D’Amato, il re dell’horror porno-erotico; Pupi Avati, noto per tutt’altro genere di film ma capace, con solo poche opere, di caratterizzare in modo indelebile l’horror italiano; Ruggero Deodato, regista di grande abilità passato alla storia dell’horror soprattutto con i suoi horror cannibalistici (Cannibal Holocaust, per quanto di sicuramente opinabile ci sia in alcune immagini di violenza sugli animali, resta un film di soprendente qualità); Umberto Lenzi, antesignano dei cannibal movies e capace di spaziare con immutata qualità nei più svariati generi (da Sandokan ai film bellici).
Le caratteristiche editoriali, pregevoli e azzeccate, restano le stesse dei volumi precedenti. La prefazione è stavolta di Roger A. Fratter, esponente di spicco della scena indie italiana.
mercoledì 29 agosto 2012
Duquesne Whistle, il nuovo video di Bob Dylan. Qualche considerazione.
E' possibile vedere il video per Duquesne Whistle, il brano di apertura del nuovo album di Bob Dylan, Tempest, che uscirà l’11 settembre. Il video è visibile sul sito del Guardian, qui.
Nel mio libro Il cinema di Bob Dylan mi sono diffusamente occupato dei video di Dylan, perciò mi pare il caso di spendere qualche parola anche per questo, diretto da quel Nash Edgerton responsabile, tra l’altro, per la concitata follia del video dylaniano Must Be Santa, dall’album natalizio di qualche anno fa.
Il brano di Dylan, scritto in collaborazione con Robert Hunter per i testi, è uno swingato motivetto cantato con gusto, orecchiabile e per nulla privo di fascino. Il video ne è un’interpretazione molto simpatica che rende in modo brillante la sua allegra cupezza. Edgerton ha scelto il format del video narrativo che, cioè, racconta una storia, diversamente dalla canzone che predilige la resa di un’atmosfera. L’atmosfera, però, si sposa benissimo con le immagini e, soprattutto, con la storia, piena di quella ribalda e spregiudicata saggezza che sembra il contributo che Dylan vuol dare - almeno in una parte della sua produzione - ai nostri giorni così tormentati. E se c’è - e c’è - una morale nella storia raccontata dal video è quella che in questi tempi di violenza e di sospetto anche i sentimenti più sinceri non possono che essere male interpretati e la reazione di chi passa (Dylan stesso, che cammina con passo da ‘pimp’- o da gang leader, se si vuole - accompagnato da una corte di personaggi dall’aria tra l’equivoco e lo sfrontato) non può essere che l’indifferenza. Nulla di soprendente quindi se la ragazza scambia per stalking una corte piena di quel romanticismo che in un film di cinquant’anni fa sarebbe stata vincente e che prendere una rosa da un fioraio conduca a seri guai. Come Singing in the Rain virato in noir con una violenza alla Scorsese urbano o, con i dovuti limiti, alla Stuart Gordon di King of the Ants.
Divertente. Diretto con gusto e abilità e interpretato con la giusta adesione. Capace di seguire il ritmo della canzone nei minimi dettagli, con una fluidità di riprese e montaggio che rende “naturale” e conseguente il corso degli avvenimenti, la cui perfida concatenazione ci dà perfettamente, con ironia e sarcasmo, il senso di “a world gone wrong”, dove non c’è posto per gli ingenui e i romantici e dove la violenza è la regola. Dategli un’occhiata. In attesa, naturalmente, dell’album.
Nel mio libro Il cinema di Bob Dylan mi sono diffusamente occupato dei video di Dylan, perciò mi pare il caso di spendere qualche parola anche per questo, diretto da quel Nash Edgerton responsabile, tra l’altro, per la concitata follia del video dylaniano Must Be Santa, dall’album natalizio di qualche anno fa.
Il brano di Dylan, scritto in collaborazione con Robert Hunter per i testi, è uno swingato motivetto cantato con gusto, orecchiabile e per nulla privo di fascino. Il video ne è un’interpretazione molto simpatica che rende in modo brillante la sua allegra cupezza. Edgerton ha scelto il format del video narrativo che, cioè, racconta una storia, diversamente dalla canzone che predilige la resa di un’atmosfera. L’atmosfera, però, si sposa benissimo con le immagini e, soprattutto, con la storia, piena di quella ribalda e spregiudicata saggezza che sembra il contributo che Dylan vuol dare - almeno in una parte della sua produzione - ai nostri giorni così tormentati. E se c’è - e c’è - una morale nella storia raccontata dal video è quella che in questi tempi di violenza e di sospetto anche i sentimenti più sinceri non possono che essere male interpretati e la reazione di chi passa (Dylan stesso, che cammina con passo da ‘pimp’- o da gang leader, se si vuole - accompagnato da una corte di personaggi dall’aria tra l’equivoco e lo sfrontato) non può essere che l’indifferenza. Nulla di soprendente quindi se la ragazza scambia per stalking una corte piena di quel romanticismo che in un film di cinquant’anni fa sarebbe stata vincente e che prendere una rosa da un fioraio conduca a seri guai. Come Singing in the Rain virato in noir con una violenza alla Scorsese urbano o, con i dovuti limiti, alla Stuart Gordon di King of the Ants.
Divertente. Diretto con gusto e abilità e interpretato con la giusta adesione. Capace di seguire il ritmo della canzone nei minimi dettagli, con una fluidità di riprese e montaggio che rende “naturale” e conseguente il corso degli avvenimenti, la cui perfida concatenazione ci dà perfettamente, con ironia e sarcasmo, il senso di “a world gone wrong”, dove non c’è posto per gli ingenui e i romantici e dove la violenza è la regola. Dategli un’occhiata. In attesa, naturalmente, dell’album.
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sabato 28 luglio 2012
Noul Val - Il nuovo cinema romeno 1989-2009
Il cinema romeno è largamente un territorio inesplorato dalla critica e, soprattutto, dal pubblico italiano. Eppure, esiste e presenta notevoli motivi di interesse.
Diversamente da altre cinematografie dell’ex blocco sovietico non era però riuscito a imporre figure di rilievo internazionale durante gli anni della guerra fredda. Non ci sono stati i Wajda (o, se si vuole, i Polanski, per quanto la sua attività polacca sia stata numericamente limitata) della Polonia o gli Jancso dell’Ungheria. Da noi i film romeni arrivavano sporadicamente e senza enfasi. E magari non i prodotti migliori, come, per fare un titolo, Caldi amori a zero gradi (1964). A memoria, il film che più ricordo aver destato interesse nella critica era stato Reconstituirea (1968) di Lucian Pintilie che, negli anni della contestazione, si era fatto notare per la sua struttura narrativa particolare e la sua originalità di fondo.
Con la caduta di Ceausescu e il tormentato percorso alla ricerca di una normalità istituzionale e democratica, le cose, cinematograficamente parlando, non sono cambiate molto, dal punto di vista dell’impatto sul pubblico italiano. è invece cambiato in modo sostanziale il panorama produttivo che, se è rimasto vincolato ai limiti di un’industria che stenta a decollare, si è popolato di figure nuove e di personalità non trascurabili, che si sono aggiunte a quelle che, sopravvissute alle difficoltà artistiche sotto il vecchio regime, hanno (ri)cominciato il loro percorso autoriale. Lucian Pintilie, in questo senso, è il trait d’union tra vecchio e nuovo e il suo film più famoso dell’ultimo ventennio, Terminus Paradis (1998), ha avuto discreta risonanza anche da noi. Di più ancora ne ha avuto Train de vie - Un treno per vivere (1998) di Radu Mihaileanu (coproduzione internazionale) anche per i collegamenti tematici - per quanto ampiamente diversi siano i due film - che sono stati tracciati, magari arbitrariamente, con La vita è bella di Benigni. Non molto altro è però arrivato e la ricerca di film romeni da parte dello spettatore italiano passa necessariamente attraverso festival e eventuali supporti home video, soprattutto internazionali. (A margine, è da notare come, insieme ad altre repubbliche dell’est europeo, la Romania, cinematograficamente parlando, è stata, dopo la caduta del blocco sovietico, considerata terreno fertile per delocalizzazioni produttive che hanno portato alla realizzazione in loco di molti film “occidentali” con conseguenti abbattimenti di budget. In molte di queste operazioni, la Romania è stata coinvolta anche produttivamente diventando così almeno nominalmente produttrice di pellicole low budget di genere come Anaconda 3 e 4, Blessed - Il seme del male, un paio di Hellraiser e così via: operazioni queste che nulla hanno a che vedere con lo sviluppo di una cinematografia genuinamente nazionale, ma fanno riflettere sugli effetti della globalizzazione, anche nei film).
A fungere ora da bussola e stimolo a questa ricerca è il libro che Francesco Saverio Marzaduri ha meritoriamente dedicato all’argomento (Noul Val - Il nuovo cinema romeno 1989-2009, Archetipolibri, Bologna 2012, 300 pagine + 20 pagine di inserto fotografico, € 19). Marzaduri prende in esame il cinema romeno dalla “liberazione” in poi, ma giustamente non trascura le coordinate del periodo precedente per evidenziarne l’evoluzione e le difficoltà.
Il libro è sostanzialmente articolato in tre parti: nella prima viene presentata ed esaminata l’evoluzione del cinema romeno dopo Ceausescu attraverso i principali film che l’hanno punteggiata, cercando di mantenere, a fini correttamente sistematici, un ordine cronologico-autoriale ed evidenziando caratteristiche e peculiarità dei principali registi che con le loro opere hanno caratterizzato il tormentato cammino di questa cinematografia; nella seconda viene analizzata in profondità l’opera di un singolo autore identificato come simbolo ed emblema del cinema romeno: la scelta è caduta su Corneliu Porumboiu, ma, come giustamente segnala Marzaduri, anche altri avrebbero meritato un simile trattamento; la terza infine individua i principali argomenti e le tematiche più significative del cinema romeno nel suo insieme per identificarne le comunanze e le differenze, senza trascurare un’analisi delle prospettive future.
Una guida e una bussola, quindi, ma soprattutto uno stimolo ad approfondire la conoscenza di questo cinema e a recuperarne i film: la scrittura chiara e l’analisi approfondita riescono nell’intento di stimolare l’interesse del lettore e questo è un pregio che non tutti i saggi (soprattutto quelli sul cinema) riescono a conseguire. Puntuale nei riferimenti e lucido nell’enucleare le caratteristiche dei singoli film e dei singoli autori, nel cogliere paralleli e riferimenti nell’ambito di un percorso comune ma molto differenziato, il libro si fa quindi leggere con interesse anche da chi non conosce tutti i film e si lascia inevitabilmente coinvolgere nel dipanarsi di una cinematografia ancora in divenire, ma già capace di vette che non possono lasciare indifferenti. Questo è il modo migliore per ampliare la propria cultura, scoprire mondi nuovi e non fossilizzarsi sulle proposte più banali o comunque più “facili”.
Diversamente da altre cinematografie dell’ex blocco sovietico non era però riuscito a imporre figure di rilievo internazionale durante gli anni della guerra fredda. Non ci sono stati i Wajda (o, se si vuole, i Polanski, per quanto la sua attività polacca sia stata numericamente limitata) della Polonia o gli Jancso dell’Ungheria. Da noi i film romeni arrivavano sporadicamente e senza enfasi. E magari non i prodotti migliori, come, per fare un titolo, Caldi amori a zero gradi (1964). A memoria, il film che più ricordo aver destato interesse nella critica era stato Reconstituirea (1968) di Lucian Pintilie che, negli anni della contestazione, si era fatto notare per la sua struttura narrativa particolare e la sua originalità di fondo.
Con la caduta di Ceausescu e il tormentato percorso alla ricerca di una normalità istituzionale e democratica, le cose, cinematograficamente parlando, non sono cambiate molto, dal punto di vista dell’impatto sul pubblico italiano. è invece cambiato in modo sostanziale il panorama produttivo che, se è rimasto vincolato ai limiti di un’industria che stenta a decollare, si è popolato di figure nuove e di personalità non trascurabili, che si sono aggiunte a quelle che, sopravvissute alle difficoltà artistiche sotto il vecchio regime, hanno (ri)cominciato il loro percorso autoriale. Lucian Pintilie, in questo senso, è il trait d’union tra vecchio e nuovo e il suo film più famoso dell’ultimo ventennio, Terminus Paradis (1998), ha avuto discreta risonanza anche da noi. Di più ancora ne ha avuto Train de vie - Un treno per vivere (1998) di Radu Mihaileanu (coproduzione internazionale) anche per i collegamenti tematici - per quanto ampiamente diversi siano i due film - che sono stati tracciati, magari arbitrariamente, con La vita è bella di Benigni. Non molto altro è però arrivato e la ricerca di film romeni da parte dello spettatore italiano passa necessariamente attraverso festival e eventuali supporti home video, soprattutto internazionali. (A margine, è da notare come, insieme ad altre repubbliche dell’est europeo, la Romania, cinematograficamente parlando, è stata, dopo la caduta del blocco sovietico, considerata terreno fertile per delocalizzazioni produttive che hanno portato alla realizzazione in loco di molti film “occidentali” con conseguenti abbattimenti di budget. In molte di queste operazioni, la Romania è stata coinvolta anche produttivamente diventando così almeno nominalmente produttrice di pellicole low budget di genere come Anaconda 3 e 4, Blessed - Il seme del male, un paio di Hellraiser e così via: operazioni queste che nulla hanno a che vedere con lo sviluppo di una cinematografia genuinamente nazionale, ma fanno riflettere sugli effetti della globalizzazione, anche nei film).
A fungere ora da bussola e stimolo a questa ricerca è il libro che Francesco Saverio Marzaduri ha meritoriamente dedicato all’argomento (Noul Val - Il nuovo cinema romeno 1989-2009, Archetipolibri, Bologna 2012, 300 pagine + 20 pagine di inserto fotografico, € 19). Marzaduri prende in esame il cinema romeno dalla “liberazione” in poi, ma giustamente non trascura le coordinate del periodo precedente per evidenziarne l’evoluzione e le difficoltà.
Il libro è sostanzialmente articolato in tre parti: nella prima viene presentata ed esaminata l’evoluzione del cinema romeno dopo Ceausescu attraverso i principali film che l’hanno punteggiata, cercando di mantenere, a fini correttamente sistematici, un ordine cronologico-autoriale ed evidenziando caratteristiche e peculiarità dei principali registi che con le loro opere hanno caratterizzato il tormentato cammino di questa cinematografia; nella seconda viene analizzata in profondità l’opera di un singolo autore identificato come simbolo ed emblema del cinema romeno: la scelta è caduta su Corneliu Porumboiu, ma, come giustamente segnala Marzaduri, anche altri avrebbero meritato un simile trattamento; la terza infine individua i principali argomenti e le tematiche più significative del cinema romeno nel suo insieme per identificarne le comunanze e le differenze, senza trascurare un’analisi delle prospettive future.
Una guida e una bussola, quindi, ma soprattutto uno stimolo ad approfondire la conoscenza di questo cinema e a recuperarne i film: la scrittura chiara e l’analisi approfondita riescono nell’intento di stimolare l’interesse del lettore e questo è un pregio che non tutti i saggi (soprattutto quelli sul cinema) riescono a conseguire. Puntuale nei riferimenti e lucido nell’enucleare le caratteristiche dei singoli film e dei singoli autori, nel cogliere paralleli e riferimenti nell’ambito di un percorso comune ma molto differenziato, il libro si fa quindi leggere con interesse anche da chi non conosce tutti i film e si lascia inevitabilmente coinvolgere nel dipanarsi di una cinematografia ancora in divenire, ma già capace di vette che non possono lasciare indifferenti. Questo è il modo migliore per ampliare la propria cultura, scoprire mondi nuovi e non fossilizzarsi sulle proposte più banali o comunque più “facili”.
mercoledì 20 giugno 2012
Peter Bogdanovich - Chi ha fatto quel film?
Nei primi anni ‘70, come quasi tutti i giovani che all’epoca si interessavano di cinema, ero infatuato dai registi della cosiddetta Nuova Hollywood: Bob Rafelson, Dennis Hopper, Hal Ashby, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e molti altri - alcuni dei quali oggi considerati giustamente molto marginali - nonché Peter Bogdanovich, di cui avevo molto apprezzato L’ultimo spettacolo, un film che consiglio tutt’oggi di guardare anche se non è che sia di quelli che ti tira su il morale (il film, non io).
Ero rimasto però perplesso perché avevo letto una dichiarazione di Bogdanovich che sminuiva i nuovi registi, del cui gruppo pensavo facesse parte, per lodare assai i grandi maestri del passato che, in quel periodo, erano quasi tutti ancora in attività benché magari ritenuti sorpassati: Hawks, Ford, Hitchcock, Dwan e così via. Non riuscivo a capire il perché di tanto disprezzo per i maestri del presente, così ricchi di “contenuti”, e di così tanta ammirazione per quelli che da molti venivano ritenuti al più degli abili artigiani, magari di lusso, ma pur sempre artigiani. Mi sembrava snobismo. Ovviamente, mi sbagliavo e aveva ragione lui, Bogdanovich, che, prima che regista, era stato critico e ancor prima appassionato spettatore e, soprattutto, aveva conosciuto e intervistato (e avrebbe, cosa ancora più incredibile, continuato a farlo anche una volta divenuto un famoso regista) molti di quei maestri, analizzandone gli stili e raccogliendone le confidenze e le memorie. Un po’ come, coincidenza non casuale, Truffaut con Hitchcock (ma con Hitchcock anche Bogdanovich ha parlato parecchio).
Il risultato di tanto acume e di tanta passione è un libro (Chi ha fatto quel film?, Fandango), un tomone di 1320 pagine (non è un errore di battitura, sono proprio 1320) che se lo leggi a letto, come ho fatto io, ti procura un notevole peso sullo stomaco o ti regala bicipiti (o qualunque altro muscolo deputato al sostegno) poderosi, ma anche una lettura di raffinato piacere.
Le interviste sono quasi tutte corpose e tutte molto interessanti, Quelle che mi hanno istantaneamente fatto decidere, con la loro presenza, che dovevo averlo sono quelle a Edgar Ulmer e a Joseph H. Lewis, due maestri sin troppo poco lodati per quello che hanno fatto. Detour e La sanguinaria sono film che da soli garantiscono loro l’Olimpo dei registi, ma oltre a quelli ne hanno fatti molti altri di assoluto valore. Anzi, basterebbe, per Lewis, la sola sequenza della rapina in La sanguinaria per dargli la patente di genio, per l’inventiva e la brillantezza mostrata. Leggere in questo libro perché ha deciso di fare quella sequenza in quel modo è un tributo alla sua genialità perché nulla è dovuto al caso.
Oltre a loro sono intervistati (e in alcuni casi sono interviste che da sole potrebbero essere un volume): Robert Aldrich, George Cukor, Allan Dwan, Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Chuck Jones, Fritz Lang, Sidney Lumet, Leo McCarey, Otto Preminger, Don Siegel, Josef von Sternberg, Frank Tashlin, Raoul Walsh. E scusate se è poco. Spesso al tramonto, talvolta in momenti di difficoltà per salute o guai finanziari, ma comunque capaci di comunicare anche con poche parole la singolarità della loro arte. Destini diversi uniti dalla passione per il loro lavoro.
Chi è interessato di cinema non può non leggere questo libro. E dopo averlo fatto dovrebbe leggere Chi c’è in quel film?, libro gemello dedicato agli attori, scritto da Bogdanovich e sempre edito, qui in Italia, da Fandango. Oppure se vuole può cominciare da quello e poi passare a questo. O magari leggerli alternativamente. Ma non contemporaneamente.
La risposta che non si trova in questi libri è però come mai Bogdanovich che di certo aveva preso le lezioni giuste ed era partito alla grande (con Bersagli e L’ultimo spettacolo) non sia poi riuscito a dare continuità qualitativa alla sua carriera. Cose che succedono.
Ero rimasto però perplesso perché avevo letto una dichiarazione di Bogdanovich che sminuiva i nuovi registi, del cui gruppo pensavo facesse parte, per lodare assai i grandi maestri del passato che, in quel periodo, erano quasi tutti ancora in attività benché magari ritenuti sorpassati: Hawks, Ford, Hitchcock, Dwan e così via. Non riuscivo a capire il perché di tanto disprezzo per i maestri del presente, così ricchi di “contenuti”, e di così tanta ammirazione per quelli che da molti venivano ritenuti al più degli abili artigiani, magari di lusso, ma pur sempre artigiani. Mi sembrava snobismo. Ovviamente, mi sbagliavo e aveva ragione lui, Bogdanovich, che, prima che regista, era stato critico e ancor prima appassionato spettatore e, soprattutto, aveva conosciuto e intervistato (e avrebbe, cosa ancora più incredibile, continuato a farlo anche una volta divenuto un famoso regista) molti di quei maestri, analizzandone gli stili e raccogliendone le confidenze e le memorie. Un po’ come, coincidenza non casuale, Truffaut con Hitchcock (ma con Hitchcock anche Bogdanovich ha parlato parecchio).
Il risultato di tanto acume e di tanta passione è un libro (Chi ha fatto quel film?, Fandango), un tomone di 1320 pagine (non è un errore di battitura, sono proprio 1320) che se lo leggi a letto, come ho fatto io, ti procura un notevole peso sullo stomaco o ti regala bicipiti (o qualunque altro muscolo deputato al sostegno) poderosi, ma anche una lettura di raffinato piacere.
Le interviste sono quasi tutte corpose e tutte molto interessanti, Quelle che mi hanno istantaneamente fatto decidere, con la loro presenza, che dovevo averlo sono quelle a Edgar Ulmer e a Joseph H. Lewis, due maestri sin troppo poco lodati per quello che hanno fatto. Detour e La sanguinaria sono film che da soli garantiscono loro l’Olimpo dei registi, ma oltre a quelli ne hanno fatti molti altri di assoluto valore. Anzi, basterebbe, per Lewis, la sola sequenza della rapina in La sanguinaria per dargli la patente di genio, per l’inventiva e la brillantezza mostrata. Leggere in questo libro perché ha deciso di fare quella sequenza in quel modo è un tributo alla sua genialità perché nulla è dovuto al caso.
Oltre a loro sono intervistati (e in alcuni casi sono interviste che da sole potrebbero essere un volume): Robert Aldrich, George Cukor, Allan Dwan, Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Chuck Jones, Fritz Lang, Sidney Lumet, Leo McCarey, Otto Preminger, Don Siegel, Josef von Sternberg, Frank Tashlin, Raoul Walsh. E scusate se è poco. Spesso al tramonto, talvolta in momenti di difficoltà per salute o guai finanziari, ma comunque capaci di comunicare anche con poche parole la singolarità della loro arte. Destini diversi uniti dalla passione per il loro lavoro.
Chi è interessato di cinema non può non leggere questo libro. E dopo averlo fatto dovrebbe leggere Chi c’è in quel film?, libro gemello dedicato agli attori, scritto da Bogdanovich e sempre edito, qui in Italia, da Fandango. Oppure se vuole può cominciare da quello e poi passare a questo. O magari leggerli alternativamente. Ma non contemporaneamente.
La risposta che non si trova in questi libri è però come mai Bogdanovich che di certo aveva preso le lezioni giuste ed era partito alla grande (con Bersagli e L’ultimo spettacolo) non sia poi riuscito a dare continuità qualitativa alla sua carriera. Cose che succedono.
giovedì 24 maggio 2012
Positively Bob Dylan 71
Oggi Bob Dylan compie 71 anni e come consuetudine di questo blog si celebra questa ricorrenza, che fortunatamente per noi e per lui coglie il nostro bardo in grande forma e in piena attività. Come sempre, è in tournée e sta per ricevere l’ennesimo riconoscimento ufficiale. Da non molto - calcolo il tempo in ere geologiche, cosa volete che sia qualche mese - è uscito un disco che ha fortemente voluto, dedicato a uno dei suoi autori preferiti, Hank Williams, un autore segnato dal destino. The Lost Notebooks of Hank Williams racchiude canzoni di cui Williams aveva solo scritto i testi prima di morire e che sono state musicate da un gruppo di artisti di valore, tra cui in primo luogo ovviamente il nostro Bob e poi altri come Jack White, Norah Jones e, pace all’anima sua, Levon Helm. E anche Jakob Dylan, il figlio cantante che si è fatto un nome e una carriera senza bisogno di soccorsi paterni. Voce ricorrente sottolinea come questo disco sia il primo nel quale i due Dylan si ritrovano insieme, ma naturalmente non è vero: prima di questo c’era stato l’album alla memoria di Warren Zevon, Enjoy Every Sandwich, al quale Bob ha partecipato con una versione live di Mutineer e Jakob - con i suoi Wallflowers (non sottilizziamo sui nomi: sempre lui è) - con una versione di Lawyers, Guns and Money.
Ma a segnalare la frenetica attività del nostro c’è anche la notizia ormai trapelata ripetutamente di un nuovo album di inediti che sarebbe già pronto e potrebbe uscire dopo l’estate. Come sempre le voci anticipative più selvagge tracimano dalle speranze e dalle aspettative: l’ultima che ho letto l’ha data addirittura il dylanologo per eccellenza - Michael Gray - prospettando una canzone sul Titanic di ben quattordici minuti. Sarà vero? Probabilmente no. In ogni caso, qualsiasi cosa sarà, la sentirò di sicuro non appena sarà uscita. Come cantava Dylan di Gregory Peck in Brownsville Girl, sarò in coda per prendere qualunque cosa faccia.
Perciò adesso che ha fatto 71, già che c’è arrivi almeno a 100.
Ma a segnalare la frenetica attività del nostro c’è anche la notizia ormai trapelata ripetutamente di un nuovo album di inediti che sarebbe già pronto e potrebbe uscire dopo l’estate. Come sempre le voci anticipative più selvagge tracimano dalle speranze e dalle aspettative: l’ultima che ho letto l’ha data addirittura il dylanologo per eccellenza - Michael Gray - prospettando una canzone sul Titanic di ben quattordici minuti. Sarà vero? Probabilmente no. In ogni caso, qualsiasi cosa sarà, la sentirò di sicuro non appena sarà uscita. Come cantava Dylan di Gregory Peck in Brownsville Girl, sarò in coda per prendere qualunque cosa faccia.
Perciò adesso che ha fatto 71, già che c’è arrivi almeno a 100.
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sabato 12 maggio 2012
Flani (14): L'australiano
Il flano di questa volta è datato 25 agosto 1978 ed è relativo a L'australiano, un horror intellettuale e molto atipico di Jerzy Skolimovski, tratto da una novella di Robert Graves, autore da non trascurare. E neanche Skolimovski è un autore da trascurare. Basterebbe, per garantirne la grandezza, La ragazza del bagno pubblico, un capolavoro. O Il vergine, che vedeva quale protagonista l'impagabile Jean-Pierre Leaud.
Ma anche L'australiano fa parte delle sue opere più riuscite. Nel Dizionario dei film horror gli ho dato quattro stelle e non ne meritava certo di meno. La recensione di Morandini - non saprei dire da quale quotidiano è tratta - che ho archiviato assieme al flano gliene dava altrettante, condendole con elogi convinti. Il flano fa leva proprio sulla qualità del film per lanciarlo in grande pompa e senza dispendio di mezzi ("un grande spettacolo stereofonico": che tempi quando bastava la stereofonia a esaltare la visione). Ho visto il film all'epoca, ma non mi ricordo per niente del documentario sulla Pastoral Switzerland con la sesta sinfonia di Beethoven eseguita nientemeno che dalla Zurich Chamber Orchestra: facile che mi sia addormentato.
Mi pare di ricordare comunque che il titolo italiano del film, così diverso da quello originale, sia stato causato dal fatto che entrambe le possibili traduzioni letterali del titolo (The Shout) erano già il titolo di un famoso film italiano: Il grido di Antonioni e L'urlo di Brass. Sarà vero o l'avrò sognato mentre suonava l'orchestra da camera di Zurigo?
giovedì 3 maggio 2012
Rosco e Sonny (1981-2012)
Missione finale è una storia che non avrei mai voluto scrivere, ma che, una volta presa (non da me, naturalmente) la decisione di chiudere la serie, è stato necessario e opportuno che scrivessi per non lasciare il duo dinamico senza una degna conclusione.
31 anni non sono pochi per una serie a fumetti, soprattutto se all’interno di un settimanale come Il Giornalino, che deve rinnovare nel tempo i suoi protagonisti. Quindi, non c’è nulla di eccezionale nel fatto che Rosco e Sonny - con una storia non a caso intitolata Missione finale (Il Giornalino n° 19 del 6 maggio 2012, attualmente in edicola) - se ne vadano in pensione (da baby pensionati, peraltro, stando alle attuali regole pensionistiche). Mi sono permesso di chiudere il cerchio citando in questa avventura la prima storia dei due agenti (Lo scippo), scritta dal suo creatore Claudio Nizzi: un modo come un altro per riconoscere le origini e compiere una breve riflessione sulla fine. Tutto finisce, si sa, ma ogni volta che qualcosa finisce, per chi quel qualcosa stava facendo non può che esserci un momento di meditazione sulla finitezza in senso lato (e anche non proprio lato).
Ma la vita per il momento continua e quindi come sempre nei titoli di coda c’è spazio per i ringraziamenti: in primo luogo al maestro sceneggiatore Claudio Nizzi per aver inventato Rosco e Sonny (e per avermi fatto entrare al Giornalino nel 1987 accettando due mie storie fantascientifiche - La porta della salvezza e La smagliatura - negli ultimi mesi della sua gestione come responsabile dei fumetti prima di passare in pompa magna alla Bonelli), al compianto Gino D’Antonio (collaborare con lui è stato un privilegio e un piacere: una persona speciale in tutti i sensi) per avermi affidato Rosco e Sonny nel lontano novembre 1990 (la mia prima storia si chiamava Il patto), a Roberto Rinaldi per avermi confermato nel ruolo e aver seguito con discrezione e comprensione lo svilupparsi della serie e, naturalmente, al grande Rodolfo Torti, il disegnatore che ha disegnato magistralmente tutte le mie 184 storie (anche se di una - L’ultimo round del 1996 - non sono certo che sia stata disegnata perché non l’ho mai vista pubblicata) di Rosco e Sonny oltre a quasi tutte le precedenti, dopo i primi tempi in cui la serie era affidata a Giancarlo Alessandrini.
Come potrà notare chi leggerà la storia pubblicata in questo numero, c’è spazio per un ritorno dei due eroi, ma per il momento il sipario è calato. Nuovi interpreti reclamano il palco.
31 anni non sono pochi per una serie a fumetti, soprattutto se all’interno di un settimanale come Il Giornalino, che deve rinnovare nel tempo i suoi protagonisti. Quindi, non c’è nulla di eccezionale nel fatto che Rosco e Sonny - con una storia non a caso intitolata Missione finale (Il Giornalino n° 19 del 6 maggio 2012, attualmente in edicola) - se ne vadano in pensione (da baby pensionati, peraltro, stando alle attuali regole pensionistiche). Mi sono permesso di chiudere il cerchio citando in questa avventura la prima storia dei due agenti (Lo scippo), scritta dal suo creatore Claudio Nizzi: un modo come un altro per riconoscere le origini e compiere una breve riflessione sulla fine. Tutto finisce, si sa, ma ogni volta che qualcosa finisce, per chi quel qualcosa stava facendo non può che esserci un momento di meditazione sulla finitezza in senso lato (e anche non proprio lato).
Ma la vita per il momento continua e quindi come sempre nei titoli di coda c’è spazio per i ringraziamenti: in primo luogo al maestro sceneggiatore Claudio Nizzi per aver inventato Rosco e Sonny (e per avermi fatto entrare al Giornalino nel 1987 accettando due mie storie fantascientifiche - La porta della salvezza e La smagliatura - negli ultimi mesi della sua gestione come responsabile dei fumetti prima di passare in pompa magna alla Bonelli), al compianto Gino D’Antonio (collaborare con lui è stato un privilegio e un piacere: una persona speciale in tutti i sensi) per avermi affidato Rosco e Sonny nel lontano novembre 1990 (la mia prima storia si chiamava Il patto), a Roberto Rinaldi per avermi confermato nel ruolo e aver seguito con discrezione e comprensione lo svilupparsi della serie e, naturalmente, al grande Rodolfo Torti, il disegnatore che ha disegnato magistralmente tutte le mie 184 storie (anche se di una - L’ultimo round del 1996 - non sono certo che sia stata disegnata perché non l’ho mai vista pubblicata) di Rosco e Sonny oltre a quasi tutte le precedenti, dopo i primi tempi in cui la serie era affidata a Giancarlo Alessandrini.
Come potrà notare chi leggerà la storia pubblicata in questo numero, c’è spazio per un ritorno dei due eroi, ma per il momento il sipario è calato. Nuovi interpreti reclamano il palco.
sabato 28 aprile 2012
Rosco e Sonny e i pirati della piattaforma
Sul n° 18 del Giornalino - in edicola questa settimana - c’è una nuova avventura di Rosco e Sonny, scritta, com’è consuetudine di questi ultimi vent’anni, da me e disegnata da Rodolfo Torti. Il titolo è I pirati della piattaforma e, seguendo i principi di onestà che caratterizzano spesso il mio lavoro, posso assicurare che ci sono sia i pirati sia la piattaforma.
Nel prossimo numero del Giornalino ci sarà un’altra storia di Rosco e Sonny: sarà una storia un po’ particolare e mi ci soffermerò un po’ più del solito, quando sarà il momento.
Nel prossimo numero del Giornalino ci sarà un’altra storia di Rosco e Sonny: sarà una storia un po’ particolare e mi ci soffermerò un po’ più del solito, quando sarà il momento.
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giovedì 26 aprile 2012
Il Dizionario dei film horror e Ghost Story
Tra i film del passato recuperati e inseriti nella seconda edizione del mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego) - dell’argomento ho parlato qui - vorrei soffermarmi un momento su uno dei più elusivi, diretto da un regista la cui carriera è tutto fuorché lineare o prolifica.
Ghost Story, inedito in Italia, è uscito nel 1974, in un’epoca in cui l’horror britannico, cui appartiene produttivamente pur essendo stato girato in India (che funge da Inghilterra), era in fase calante, diretto verso una dissoluzione che presto sarebbe stata pressoché totale. Il regista è Stephen Weeks, all’epoca giovane e promettente (è del 1948): aveva esordito pochi anni prima con La vera storia del dottor Jekyll (anch’esso naturalmente compreso nel Dizionario, già dalla prima edizione), ennesima trasposizione cinematografica del romanzo breve di Stevenson. Un film non privo di pregi (e impreziosito da una grande interpretazione di Christopher Lee nel ruolo principale, oltre che da un sempre ottimo Peter Cushing in un ruolo di supporto), ma sostanzialmente irrisolto a causa degli insanabili contrasti tra Weeks e la produzione (la Amicus, la casa famosa per gli horror a episodi).
Autore assolutamente ostile all’omologazione, Weeks non ha avuto vita facile. Si era fatto notare soprattutto con il cortometraggio 1917 (1970), per il quale aveva avuto il supporto del mitico Tony Tenser (di Tenser ho parlato qui), ma dopo le vicissitudine di La vera storia del dottor Jekyll e quelle, non inferiori, di Gawain and the Green Knight (1973), aveva puntato tutto su Ghost Story, un horror del tutto atipico, appartenente a una tipologia sostanzialmente inesistente. Del film - che recupera in modo singolare la tradizione britannica delle storie di fantasmi - ho già scritto sul Dizionario, a cui rimando. Segnalo però la presenza di Marianne Faithfull - allora appena uscita dalla fase di icona rock e in un periodo assai problematico della sua vita.
È comunque da sottolineare che, dopo essere vissuto nel limbo per decenni, il film è da un paio d’ani disponibile, per il mercato inglese, in una ricca versione in doppio dvd (Nucleus Films) con parecchi extra interessanti: commento audio con Stephen Weeks, un documentario sul film di ben 72’, sequenze alternative e sette cortometraggi di Weeks tra cui, appunto, il celebrato 1917. Da non perdere.
Successivamente, Weeks ha diretto solo un altro film - Sword of the Valiant con Sean Connery, una sorta di remake di Gawain and the Green Knight - per poi dedicarsi ad altro che non aveva niente a che fare con il cinema, com’è avvenuto a un altro grande dell’horror inglese, Pete Walker.
Ghost Story, inedito in Italia, è uscito nel 1974, in un’epoca in cui l’horror britannico, cui appartiene produttivamente pur essendo stato girato in India (che funge da Inghilterra), era in fase calante, diretto verso una dissoluzione che presto sarebbe stata pressoché totale. Il regista è Stephen Weeks, all’epoca giovane e promettente (è del 1948): aveva esordito pochi anni prima con La vera storia del dottor Jekyll (anch’esso naturalmente compreso nel Dizionario, già dalla prima edizione), ennesima trasposizione cinematografica del romanzo breve di Stevenson. Un film non privo di pregi (e impreziosito da una grande interpretazione di Christopher Lee nel ruolo principale, oltre che da un sempre ottimo Peter Cushing in un ruolo di supporto), ma sostanzialmente irrisolto a causa degli insanabili contrasti tra Weeks e la produzione (la Amicus, la casa famosa per gli horror a episodi).
Autore assolutamente ostile all’omologazione, Weeks non ha avuto vita facile. Si era fatto notare soprattutto con il cortometraggio 1917 (1970), per il quale aveva avuto il supporto del mitico Tony Tenser (di Tenser ho parlato qui), ma dopo le vicissitudine di La vera storia del dottor Jekyll e quelle, non inferiori, di Gawain and the Green Knight (1973), aveva puntato tutto su Ghost Story, un horror del tutto atipico, appartenente a una tipologia sostanzialmente inesistente. Del film - che recupera in modo singolare la tradizione britannica delle storie di fantasmi - ho già scritto sul Dizionario, a cui rimando. Segnalo però la presenza di Marianne Faithfull - allora appena uscita dalla fase di icona rock e in un periodo assai problematico della sua vita.
È comunque da sottolineare che, dopo essere vissuto nel limbo per decenni, il film è da un paio d’ani disponibile, per il mercato inglese, in una ricca versione in doppio dvd (Nucleus Films) con parecchi extra interessanti: commento audio con Stephen Weeks, un documentario sul film di ben 72’, sequenze alternative e sette cortometraggi di Weeks tra cui, appunto, il celebrato 1917. Da non perdere.
Successivamente, Weeks ha diretto solo un altro film - Sword of the Valiant con Sean Connery, una sorta di remake di Gawain and the Green Knight - per poi dedicarsi ad altro che non aveva niente a che fare con il cinema, com’è avvenuto a un altro grande dell’horror inglese, Pete Walker.
giovedì 19 aprile 2012
Unrank di Alberto Lavoradori
A parte i Cheap Trick, una grande passione culturale di Alberto Lavoradori - sommo disegnatore disneyano e non - è sempre stata la fantascienza. Ho avuto il piacere di collaborare con lui diverse volte scrivendogli appositamente delle storie di fantascienza per Topolino. Me lo aveva chiesto lui perché voleva avere la possibilità di disegnare astronavi, lo spazio esterno e se capitava anche qualche mostro. I risultati sono stati Paperino e la nube cosmica, Zio Paperone e il planetoide misterioso e Paperino e il pianeta impossibile. Erano i primi anni ‘90. Poi, sempre in ambito fantascientifico, abbiamo collaborato alla miniserie dedicata a Rave (1998), il super eroe che faceva le pulizie (e non solo). Alberto si era dedicato con impegno e fantasia alla creazione degli alieni mostruosi che erano la nemesi dell’eroe e conservo ancora innumerevoli schizzi e bozzetti realizzati per l’occasione. Ma, oltre che disegnatore, Alberto ha, soprattutto da un certo momento in poi, manifestato quella che oggi verrebbe definita un’urgenza espressiva totalizzante, che si è manifestata, sempre in ambito fantascientifico, con Gommo, un inventivo fumetto cibernetico in cd-rom realizzato interamente da lui. Dopo altri progetti e realizzazioni sempre contrassegnate dal suo stile unico e innovativo, Lavoradori è arrivato infine a coronare la sua ascesi di narratore con un romanzo, Unrank (Edizioni Montag. 136 pagine, € 18).
La storia parte da una premessa al tempo stesso classica e interessante. Mike Summerford e Lisa Keller sono due cadetti dell’accademia aerospaziale che, al termine del biennio di addestramento, si ritrovano, a sorpresa, a essere esclusi dalla promozione completa. Sarebbero destinati a ben poco ambiziosi compiti a terra e dovrebbero rinunciare a quello per cui hanno lottato - e cioè pilotare razzi spaziali - se non accettassero una sorta di esame di riparazione che consiste nel sottoscrivere un misterioso contratto Unrank. La loro missione è recuperare tre tecnici da un laboratorio su un satellite di Urano, al quale arriveranno dopo un viaggio interminabile. Circostanza aggravante: i due non si sopportano e sono caratterialmente antitetici. Circostanza ulteriormente aggravante: la missione presenta numerosi lati oscuri. Ci sarebbero tutte le condizioni per un’epica avventura in cui un uomo e una donna riscoprono se stessi e si accorgono di provare attrazione l’uno per l’altra, ma nulla è ciò che sembra e l’imprevedibilità è una costante.
Con uno stile piano, diretto ed efficace, Lavoradori costruisce una storia avvincente giocando con accortezza le notevoli carte della vicenda. Cedendo uno strato dopo l’altro, il mistero si disvela suscitando una quieta tensione senza mai tradire lo spirito dei personaggi e la loro interazione. Come nei classici della fantascienza tremendista e sociologica, la verità giunge inaspettata, ma quasi ineluttabile, rivelando i contorni amari della finitezza umana. Il racconto è serrato: anche quando sembra che ci sia spazio per un traccheggio determinato dalla presunta ripetitività del viaggio, ci si accorge che tutto è calibrato perfettamente allo scopo di far procedere la trama. Il linguaggio è ricco di quei tecnicismi fantasiosamente scientifici che rendono la fantascienza (certa fantascienza) così credibile e astratta al tempo stesso. La conclusione presenta, come accennato, notevoli sorprese, ma, terminata la lettura, non ci si può che rendere conto che non poteva esserci fine più giusta. Ogni azione, ogni intuizione, ogni sbaglio compiuto dai protagonisti rivela la loro natura e le loro debolezze e non può che trasformarsi, narrativamente, che in qualcosa di conseguente. Un libro che consiglio di leggere: teso, schietto, inventivo, brillante e, soprattutto, sincero e a tratti anche struggente. Un esordio molto promettente.
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domenica 8 aprile 2012
Rodolfo Cimino (16 ottobre 1927-31 marzo 2012)
Sono stato via una settimana senza connessione internet e quindi ho appreso da poche ore la triste notizia della scomparsa di Rodolfo Cimino.
Di persona lo conoscevo poco. L’ho visto solo a diverse Convention Disney e ci ho scambiato poche parole: ieratico, ma appassionato, era circondato da un’aura suprema da “vecchio” - ma ancora attivissimo - saggio che lo proiettava automaticamente in una dimensione superiore, facendone un’icona vivente della disneyanità italiana. Poche parole, dicevo, ma sufficienti a cogliere la passione e la serietà con cui affrontava la sua professione.
Aveva uno stile personalissimo, il che è forse il massimo cui un autore possa aspirare. Le sue storie erano riconoscibilissime, dalla prima vignetta. La loro struttura consentiva variazioni infinite caratterizzate da un linguaggio che forse era la caratteristica più peculiare dello stile ciminiano. L’uso di termini insieme ricercati e fantasiosi lo rendeva unico, non solo in ambito disneyano. Nel corso di decenni e decenni di storie, moltissimi bambini hanno apprezzato le sfumature e l’ingegnosità del linguaggio ciminiano, cogliendone spesso spunto per un utile arricchimento lessicale.
Gli avevo reso omaggio una dozzina di anni fa con la storia Zio Paperone e le ciminiere narrative, nella quale avevo usato appositamente una struttura analoga a quella delle sue storie, richiamando tale collegamento nel titolo.
Se n’è andato un maestro della sceneggiatura, ma, come per tutti i maestri, le sue storie restano e le frequenti ristampe permetteranno alle nuove generazioni di venirne utilmente in contatto perpetuandone la lezione e la memoria.
Di persona lo conoscevo poco. L’ho visto solo a diverse Convention Disney e ci ho scambiato poche parole: ieratico, ma appassionato, era circondato da un’aura suprema da “vecchio” - ma ancora attivissimo - saggio che lo proiettava automaticamente in una dimensione superiore, facendone un’icona vivente della disneyanità italiana. Poche parole, dicevo, ma sufficienti a cogliere la passione e la serietà con cui affrontava la sua professione.
Aveva uno stile personalissimo, il che è forse il massimo cui un autore possa aspirare. Le sue storie erano riconoscibilissime, dalla prima vignetta. La loro struttura consentiva variazioni infinite caratterizzate da un linguaggio che forse era la caratteristica più peculiare dello stile ciminiano. L’uso di termini insieme ricercati e fantasiosi lo rendeva unico, non solo in ambito disneyano. Nel corso di decenni e decenni di storie, moltissimi bambini hanno apprezzato le sfumature e l’ingegnosità del linguaggio ciminiano, cogliendone spesso spunto per un utile arricchimento lessicale.
Gli avevo reso omaggio una dozzina di anni fa con la storia Zio Paperone e le ciminiere narrative, nella quale avevo usato appositamente una struttura analoga a quella delle sue storie, richiamando tale collegamento nel titolo.
Se n’è andato un maestro della sceneggiatura, ma, come per tutti i maestri, le sue storie restano e le frequenti ristampe permetteranno alle nuove generazioni di venirne utilmente in contatto perpetuandone la lezione e la memoria.
giovedì 22 marzo 2012
Robert Fuest (1927-21 marzo 2012)
Regista molto singolare, Robert Fuest, capace di innovare come pochi altri, ma in direzioni che quasi nessuno avrebbe poi preso. Mi era piaciuto molto da subito, quando era comparso sulla scena cinematografica (in Italia: il suo esordio dal titolo dylaniano, Just Like A Woman, mai arrivato da noi non l’ho purtroppo visto) con il mirabile horror Il mostro della strada di campagna, con una bravissima Pamela Franklin. Quello sì, a ripensarci, un film che è stato poi parecchio imitato e ha avuto recentemente anche un remake. Ma la più evidente singolarità Fuest l’aveva messa in mostra con il suo dittico sul dottor Phibes (L’abominevole Dr. Phibes e Frustrazione), connubio amabilmente crudele di orrore e commedia con vette di elegante stravaganza che lasciavano trasparire pienamente il suo spirito artistico. Mi era piaciuto molto anche Alpha Omega - Il principio della fine. Lo vidi per la seconda volta nel '79 a Londra proprio nel periodo in cui leggevo la tetralogia che Michael Moorcock aveva dedicato a Jerry Cornelius, un singolare personaggio-non-personaggio che aveva creato e messo a disposizione (Moebius, un altro grande che ci ha lasciato da poco, se ne sarebbe poi quasi impossessato). Il film di Fuest è tratto dal primo di quei romanzi e ne cattura lo spirito aggiungendo un ordinato delirio immaginifico che non soffre dei pochi mezzi a disposizione. Quello è stato forse l’ultimo film veramente innovativo di Fuest, la cui carriera avrebbe poi perso via via quell’intensità creativa, per motivi del tutto indipendenti da lui. Mi era comunque sembrato un regista così interessante che gli avevo dedicato - forse per la prima volta in Italia (o forse no, non sono così enciclopedico da saperlo) - un lungo articolo riepilogativo intitolato L’abominevole Dr. Fuest e pubblicato sul n. 3 di Aliens (gennaio 1980). Vecchi tempi e vecchie storie. Con Fuest se ne va uno degli ultimi pezzi di un particolarissimo (modo di fare) cinema.
Ho appena letto sul sito di Nocturno un bel ricordo di Fuest scritto da Mario Gerosa: questo è il link, vi consiglio di andare a leggerlo. Gerosa ha anche scritto un libro su Fuest: Robert Fuest e l’abominevole dottor Phibes (Falsopiano).
lunedì 19 marzo 2012
InHumane Resources
InHumane Resources è il nuovo cortometraggio di Michele Pastrello (del precedente, Ultracorpo, ho scritto qui) e segna una interessante deviazione nel suo percorso stilistico, allontanandosi ulteriormente - ma non del tutto - dal genere horror, anche se resta ancor più in primo piano il vero fulcro tematico centrale della sua opera, il commento socio-politico.
Una citazione di Orwell - da 1984 - apre, non casualmente, il film. Un uomo e una donna in camicia bianca e cravatta si affrontano selvaggiamente in una sorta di corridoio all’aperto, desolato e senza vita. L’arrivo di un terzo uomo e poi di un’altra donna, entrambi nelle medesime condizioni dei precedenti, alza il livello della lotta il cui scenario si amplia in una distesa post-industriale di capannoni abbandonati. I contorni dell’ambiente sono spesso soffusi e sfumati sino a quando i personaggi non si ritrovano in dettagliatissimi primi piani, come se provenissero dal nulla e guadagnassero individualità nello scontro all’ultimo sangue. La lotta è infatti senza quartiere, cruenta. Una delle donne si ricarica psicologicamente guardando le foto di una bambina - la sua, ci si immagina - sull’iPhone. Lotta anche per lei, probabilmente. Tutti, nonostante combattano crudelmente, hanno momenti di debolezza che tengono nascosti, lasciandoli uscire solo quando non sono visti, nelle pause di una battaglia che non prevede prigionieri.
L’atmosfera - più che orwelliana - è quella di certa fantascienza sociologica sarcastica e amara, tipica (per fare solo un nome) di Robert Sheckley, autore di molti racconti capaci di rendere in modo implacabile l’assurdità della società (in)umana (da uno di questi, Elio Petri trasse il film La decima vittima). Edifici abbandonati, desolati simulacri di una civiltà industriale ormai agli sgoccioli, perduta e non rimpianta, ma forse necessaria: sono lo scenario di un confronto nel quale l’uomo (e la donna) sono riportati alla bestialità delle origini. La storia, condotta con abilità usando pochissimi dialoghi, si regge sullo sviluppo di una singola situazione, ma il ritmo è abbastanza sostenuto e la buona interazione tra i personaggi permette un’adeguata varietà narrativa. Una piccola debolezza è che il film segue il suo teorema senza trovare una sorpresa assoluta, ma accontentandosi di una relativa.
Dal punto di vista formale, si notano l’eleganza delle immagini, grazie anche all’ottima fotografia di Mattia Gri, e soprattutto la padronanza del mezzo espressivo: la regia è sicura e vivace, ricca di inventiva e pienamente capace di raccontare nel modo migliore la storia. Com’è positiva consuetudine nel cinema di Pastello - che cortometraggio dopo cortometraggio ha formato un corpus autoriale di tutto rispetto, per tematiche e stile - la recitazione è buona. Gli interpreti si impegnano con risultati apprezzabili e si fa notare in modo particolare Mariasole Michielin che dispiega un registro espressivo ampio e convincente.
Ultimo aggiornamento: se volete vedere il film andate qui. Don't dare to miss it.
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venerdì 16 marzo 2012
Rosco e Sonny e la leggenda di Bigfoot
Una nuova avventura di Rosco e Sonny è in edicola ne Il Giornalino n. 12, quello di questa settimana. Il titolo è La leggenda di Bigfoot e, nella tradizionale onestà titolatrice che talvolta mi contraddistingue, ha a che fare con il misterioso ominide che popola le zone montuose e boschive del Nord America (o almeno ci piace pensare che le popoli). Per scrivere la storia non mi è servito aver visto diversi film su Bigfoot - noto anche come Sasquatch - ma li ho visti lo stesso volentieri (e di alcuni di loro ne ho dato conto nel mio Dizionario dei film horror). I disegni sono come sempre del bravissimo Rodolfo Torti.
sabato 10 marzo 2012
P.O.E. Poetry of Eerie
Edgar Allan Poe ha goduto delle attenzioni del cinema soprattutto negli anni ’60, quando Corman costruì un intero ciclo di pellicole sui suoi racconti, ma anche in altri periodi non sono mancati film ispirati alle sue opere, dai tempi de La caduta della casa Usher (1928) di Jean Epstein ai giorni nostri, con esempi come l’ineffabile Ligeia (2009) di Michael Staininger. Questa presenza massiccia, nonostante le difficoltà insite nella trasposizione cinematografica dei racconti tutt’altro che cinematografici di Poe, è un segno evidente del fascino che lo scrittore ha sempre esercitato.
Normalmente, dato che i racconti di Poe sono brevi e spesso più interiori che esteriori nella narrazione, il metodo per trarne dei film è quello di rimpolparli al punto che della materia originale rimane ben poco. Per ovviare a questo problema si è talvolta puntato su film a episodi invece che su lungometraggi tratti da un singolo racconto. Lo ha fatto Corman con I racconti del terrore e lo hanno fatto, tra gli altri, Dario Argento e George A. Romero con Due occhi diabolici. Ma anche quando si è scelta questa via, il materiale aggiunto si è spesso rivelato preponderante. Nel caso di questo nuovo film indipendente, P.O.E. Poetry of Eerie (2011), diretto da un gruppo di promettenti e giovani autori, la scelta è stata quella, ancora più radicale, di episodi molto brevi. Questa brevità avrebbe potuto consentire - se ciò effettivamente fosse possibile e, soprattutto, fosse stato l’obiettivo degli autori - di restare piuttosto fedeli a Poe. Ma invece, in prevalenza, si è preferito prendere spunto dai racconti per trattare d’altro. Dopo anni e anni di Poe al cinema non si può dire che la scelta sia astrattamente sbagliata. Il problema è che ciò può talvolta tradursi in una banalizzazione del materiale e nella difficoltà nel trovare il senso dell’operazione, di trovare cioè Poe all’interno delle nuove storie raccontate.
In questo e anche in altro, ogni episodio fa comunque storia a sé. Il complesso è quello che gli americani definiscono una mixed bag, con momenti riusciti che si alternano ad altri meno riusciti: il destino praticamente inevitabile dei film a episodi, soprattutto quando sono di autori diversi.
Il primo episodio è Silence, di Angelo e Giuseppe Capasso. Un uomo si sveglia ansimante, al suo fianco una donna sdraiata di lato che sembra dormire. Va in bagno, lo specchio ha un sussulto. Prende un caffè, gli casca la tazzina e si rompe. Chiama Annabel, come se pensasse fosse lei o il suo fantasma all’origine del suo turbamento. In bagno c’è del sangue nella vasca, assieme a frammenti di vetro. Ombre che passano, musica sinistra e avvolgente, camera sul personaggio, tensione sui dettagli: l’episodio è un classico esercizio di stile sulla paranoia e sull’ossessione, ben condotto, forse un po’ troppo debitore del cinema spettrale giapponese. Non c’è molta trama e nemmeno molto di nuovo, ma si lascia vedere con interesse. Stilisticamente promettente.
Il secondo episodio è The Sphinx di Alessandro Giordani. In uno squallido appartamento all’interno di un bunker in disfacimento, un uomo di una certa età studia degli insetti. Sua figlia cerca invano di lavarsi: non c’è acqua. Fuori invece c’è il mare. Ma anche una misteriosa pestilenza. La ragazza va fuori a prendere l’acqua anche se il padre gliel’aveva proibito per la possibile contaminazione. La ragazza nega che esista l’epidemia, vuole costringere il padre a bere l’acqua. Uno dei più curiosi e meno noti tra i racconti di Poe, che magnifica l’attenzione per il dettaglio che fa perdere di vista la realtà d’insieme (ne feci addirittura una versione a fumetti una quarantina di anni fa). Il contrasto tra le immagini cupe e claustrofobiche del bunker e quelle sognanti della spiaggia, di una luminosità soffusa, si accompagna a una musica dissonante e a dialoghi declamati fuori campo. L’effetto è interessante, straniante, ma non conduce a molto.
Il terzo episodio è Glasses di Matteo Corazza. Ginevra, una giornalista amante della mondanità, va con secondi fini a una festa invitata da un ex, Ruggero, che ha mollato. La ragazza è molto miope e alla festa gli occhiali le cadono e non li trova più. Ruggero si offre di cercarli e nel frattempo le presenta il fratello Riccardo di cui lei vede solo confusamente i lineamenti. Ne rimane comunque affascinata. Peggio per lei. Il racconto di Poe era in sostanza un’elaborata gag. Qui lo spunto degli occhiali è solo un pretesto all’interno di un quadro vendicativo di maniera che non presenta sorprese e si conclude in modo telefonato.
Il quarto episodio è Valdemar di Edo Tagliavini. Un medico, grazie all’aiuto di un esperto, mesmerizza Valdemar, un uomo affetto da tisi, quando sta per morire. L’esperimento riesce, ma il mesmerizzatore muore accidentalmente. Trovarne un altro si rivela impossibile, quindi il medico si trova in difficoltà, con Valdemar intrappolato tra la vita e la morte. Uno dei racconti di Poe più amati dal cinema - due le versioni di rilievo (Corman e Romero) - è stravolto a fini umoristici con esiti che si fanno apprezzare anche se talvolta più per lo spirito che per la pratica.
Il quinto episodio è The Tell-Tale Heart di Manuela Sica. Una donna visita una casa, mentre una voce legge la vicenda. Poi la donna stessa legge. Il racconto di Poe rimane nelle parole. Le immagini sembrano raccontare qualcos’altro. Ma non saprei dire cosa. Il collegamento più che negli occhi di chi guarda è in quelli di chi ha realizzato il film.
Il sesto episodio è Gordon Pym di Giovanni Pianigiani e Bruno Di Marcello. Gordon Pym, un marinaio, è imprigionato sotto coperta e costretto a mangiare scarafaggi per l’assenza di cibo. Un vecchio che lo chiama “padrone” cerca di ucciderlo, ma il marinaio, benché rimasto ferito, riesce a ucciderlo prima lui. Poi si nasconde ed è testimone di un pranzo cannibalesco. Ma i cannibali si accorgono di lui. L’unico romanzo di Poe diventa spunto per un raccontino claustrofobico con piccolo colpo di scena finale che vede la partecipazione di un giovane Poe alle prese con la sua creatura. La realizzazione privilegia le immagini alle parole - compendiando alcuni elementi del romanzo - ma non trova un colpo d’ala che renda quelle immagini capaci di vivere significativamente di luce propria.
Il settimo è The Black Cat di Paolo Gaudio. Forse il racconto di Poe più popolare al cinema, con svariate versioni molto significative, da Ulmer a Corman, a Dario Argento. Questa, realizzata in animazione, è simpatica, piuttosto burtoniana, ma con qualità sufficienti a garantirle un autonomo valore. Mettere Poe nel ruolo del protagonista di un suo racconto non è una novità, ma è decisamente appropriato. L’essenza del racconto è colta con bravura.
L’ottavo episodio è Ligeia di Simone Barbetti. Il ménage di una coppia è turbato dal ricordo di Ligeia, precedente e defunta moglie dell’uomo. Si turba ancora di più quando il ricordo si materializza in una figura fantasmatica. Corman aveva fatto di questo racconto un turgido e ambiguo melodramma gotico. Qui si resta alla sostanza dell’incubo per catturarne gli elementi più caratteristici, ma la passione per Ligeia resta un po’ troppo sulla carta, data per presupposta. Un tentativo comunque non banale, condotto con convinzione.
Il nono episodio è The Raven di Rosso Fiorentino. La poesia di Poe, è stata alla base - se così si può dire - di I maghi del terrore di Corman. Qui la lettura della poesia è illustrata, in modo alternativamente ossequioso e inquieto se non inquietante, da sequenze che restano sulla superficie della meditazione sulla morte.
Il decimo episodio è The Man of the Crowd di Paolo Fazzini. Un uomo osserva la folla e segue uno sconosciuto che ha attirato il suo interesse. L’attualizzazione all’odierno contesto urbano non è forzata, sembra quasi naturale, per la valenza extratemporale della tematica. La misteriosità della notte cittadina e l’inestricabile viluppo dei destini umani e della casualità che spesso li regola sono rese in modo sommario, ma efficace. Il finale tenta una sorpresa non del tutto conseguente: l’insieme è comunque inquieto e interessante.
L’undicesimo episodio è Berenice di Giuliano Giacomelli. Un uomo è affranto per la morte dell’amata moglie e la veglia. Ma lei, forse, non è morta. Tentativo di recuperare le atmosfere del gotico italiano dei tempi che furono, con un uso del colore e delle ambientazioni che si richiamano in parte a quella stagione, crea una discreta aura macabra seguendo l’esteriorità del racconto di Poe senza avere il tempo e forse la forza di catturare la sua ossessione.
Il dodicesimo episodio è Maelzel’s Chess Automaton di Domiziano Cristopharo ed è il migliore del lotto. Una partita a scacchi con un automa potrebbe essere l’occasione per rivalutare un’esistenza e Mr. Gray non vuole perderla. L’estetica dell’automa giocatore di scacchi è un elemento vincente che, con la sua aria rétro, si adatta molto bene - per contrasto - all’ambientazione luminosa e moderna. La partita a scacchi (e più in generale il gioco) vista come metafora della vita (e della morte) ha sempre il suo fascino e la sua validità, ma è il modo in cui è condotto il racconto a essere vincente. L’allucinata visione del predominio delle macchine sull’uomo è resa in modo elegante e visivamente raffinato ed efficace. L’assoluta (e vana, oltre che vacua) astrazione rappresentata dal gioco si evidenzia come il fine ultimo per un’umanità incapace di uscire dai propri limiti e difetti. Buona anche l’interpretazione di Luca Canonici e Angelo Campus.
Il tredicesimo episodio è Song di Yumiko “Sakura” Itou. In un’ambientazione giapponese, un’esecuzione rituale e uno spartito insanguinato. Direi che va un tantino sul criptico.
La durata complessiva è generosa (oltre un’ora e cinquanta) e l’impresa ambiziosa e nel complesso non priva di meriti, senz’altro da sostenere.
lunedì 5 marzo 2012
Segnocinema 174
Il nuovo numero di Segnocinema, il n° 174 (marzo-aprile 2012), è uscito e si presenta come sempre molto interessante. In particolare, è da segnalare lo speciale - come di consueto molto ampio e argomentato - che si intitola Trailer contro Trailer 2.0 e si occupa di uno dei fenomeni più suggestivi e singolari del mondo del cinema, quello di quei minifilm condensati che servono per spingere a vedere i film cui si riferiscono (ma spesso sortiscono l'effetto contrario, soprattutto quando raccontano così tanto del film che uno preferisce restarsene a casa). Mi corre luogo di segnalare anche che lo speciale - a cura di Mauro Antonini - contiene un mio micro-intervento, motivo già di per sé sufficiente per acquistare la rivista (almeno per i miei familiari e amici). A parte gli scherzi, già che ci sono, segnalo anche un paio di articoli che mi sembrano di particolare interesse, accomunati da un argomento catastrofico-cinematografico che di questi tempi mi attira molto: il primo si intitola The End (sulla fine del mondo cinematografica) ed è scritto da Mauro Caron, mentre l'altro si intitola A prova di orrore (sul cinema atomico), scritto da Roberto Lasagna.
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venerdì 24 febbraio 2012
Rosco e Sonny e la corsa all'oro
Nuova avventura di Rosco e Sonny, i dinamici agenti per i quali scrivo le storie. Questa è la centottantaduesima che ho scritto e si intitola Come ai tempi della corsa all'oro. L'ambientazione è infatti il Klondike di oggi addobbato per essere come quello di ieri, ma naturalmente il problema per i protagonisti non è quello e, in una cornice per loro insolita, si troveranno di fronte pericolo e azione. I disegni sono sempre di Rodolfo Torti, dinamico nel segno almeno quanto Rosco e Sonny.
La storia compare nel numero del Giornalino in edicola in questi giorni (il n° 9). Mi fa piacere ricordare ancora una volta che Rosco e Sonny sono stati creati da Claudio Nizzi e da Giancarlo Alessandrini.
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