mercoledì 24 febbraio 2010

Flani (4): Il gatto e il topo


Questo flano risale al settembre 1974 ed è curioso perché dimostra la disperata inventiva dei creatori di slogan. “Un morboso piacere lo assaliva al momento del delitto”: roba forte. “Come il gatto con il topo giocava sadicamente con le sue vittime”: ancora di più. A leggere queste frasi di lancio sembra che non possano che riferirsi a un trucido e perverso orroraccio di quelli tosti.


La realtà è ben diversa. Già il fatto che il protagonista sia un attore come Kirk Douglas - divo hollywoodiano poco incline all’horror e se vogliamo anche al thriller - mette sull’avviso e mi chiedo come si siano sentiti gli spettatori dell’epoca andando a vedere il film, aspettandosi uno spettacolo stile Non aprite quella porta e trovandosi un giallo per famiglie. Il film infatti - titolo originale Mousey - è prodotto per la televisione americana, diretto con sobrietà da Daniel Petrie e, per quanto per nulla disprezzabile, non è certo ad alta tensione. Ovvero, mai fidarsi delle frasi di lancio. C’è da chiedersi invece come mai sia stato vietato, sia pure solo ai minori di 14 anni.


Da segnalare la presenza di Jean Seberg, l'indimenticabile protagonista di Fino all'ultimo respiro di Godard. Attrice dal fascino particolare, ha avuto una vita sfortunata e breve - è morta a 40 anni - ma ha lasciato, per quel che vale, una traccia indelebile nella celluloide e nella memoria di molti.

lunedì 22 febbraio 2010

Bob Dylan a fumetti (1)



In un precedente post ho cominciato a parlare di quando ho citato Bob Dylan nei miei fumetti, ma adesso non tratterò di questo. Né intendo trattare dei fumetti - ne è uscito uno anche recentemente - che si occupano delle canzoni di Dylan.

Intendo invece parlare di una miniserie nella quale Bob Dylan è diventato un personaggio a fumetti. Forse non tutti sanno che - per citare l'intramontabile Settimana Enigmistica - infatti qualcuno tempo fa ha pensato di raccontare a fumetti la vita di Bob Dylan. La miniserie di tre comic-books è uscita all’interno di una collana intitolata Rock’n’Roll Comics pubblicata dalla Revolutionary Comics. Gli albi su Bob Dylan occupano i numeri 50, 51 e 52 della collana e sono usciti nel 1992 (agosto, settembre, ottobre). Il formato è quello classico dei comic-books americani e le pagine sono quindi 32 + le copertine per ciascun numero. Per gli appassionati di rock a fumetti (ma ne esistono?) posso rivelare che i numeri precedenti della collana erano stati dedicati a Guns N’ Roses, Metallica, Bon Jovi, Motley Crue, Def Leppard, Rolling Stones, The Who, Skid Row, Kiss, Whitesnake, Aerosmith, New Kids on the Block, Led Zeppelin, Sex Pistols, Poison, Van Halen, Madonna, Alice Cooper, The Cure, Grateful Dead, Michael Jackson, Doors, ZZ Top, Ozzy Osbourne/Black Sabbath e molti altri ancora, ma mi sono piuttosto stufato di trascriverli. Ignoro se la collana esista ancora: se è così, probabile che sia arrivata anche ai Pooh e all’Equipe 84.

Tornando a Dylan, segnalo che se la copertina è a colori gli interni sono in bianco e nero, in austero contrasto con la tendenza dei comic-books americani. I testi sono di Todd Loren (che non a caso è anche il Presidente della Revolutionary Comics), i disegni sono di Blackwell e il lettering di Mabel Wong.

Il primo albo è intitolato Kingdom Come (1941-1965) e come i più astuti tra voi potranno intuire tratta del periodo dalla nascita di Bob Dylan (1941) alla svolta elettrica (1965).

I testi sono piuttosto informati e fanno ampi riferimenti alla realtà dei fatti. La pagina è strutturata in modo da avere di lato una colonna che riporta giornalisticamente una cronologia degli avvenimenti dylaniani per dare il contesto storico preciso a quanto viene raccontato nel fumetto. L’effetto dell’insieme è un po’ didascalico, ma se uno vuole conoscere in modo abbastanza lieve l’avventura dylaniana può non trovare troppo tediosa la lettura. Purtroppo i disegni non sono all’altezza della situazione e, se il Dylan della copertina è somigliante, quello del fumetto non sembra neanche un suo lontano cugino. Fortunatamente i testi ci aiutano a capire chi è Dylan e chi non lo è.

Per dare un esempio, qui sopra ho inserito una vignetta che dà conto delle prime motivazioni della svolta elettrica di Bob Dylan e cioè l’effetto che aveva fatto su di lui la versione elettrica di House of the Rising Sun degli Animals, ripresa da quella acustica di Dylan (che a sua volta l’aveva ripresa, dicendoglielo solo dopo, da quella di Dave Van Ronk). Con lui sono - perché ce lo dice la didascalia - i Beatles, anche loro non troppo somiglianti, a parte John Lennon, alla cui identificazione sono di molto aiuto gli occhialetti.

Insomma, un tentativo simpatico e volenteroso, niente di più. Non so se si tratti di albi rari, ma spero proprio di sì (visto che ce li ho). A futuri post la presentazione degli altri due albi.

mercoledì 17 febbraio 2010

Horror Frames: Wrong Turn 3


La rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies stavolta tratta dell'orrore seriale e quale film potrebbe meglio rappresentarlo se non Wrong Turn 3? Be', sì, va bene, anche molti altri, ma è Wrong Turn 3 che sta per uscire in dvd e va ottimamente anche per quello. In ogni caso, se volete leggere cosa ho scritto, andate qui.

Nella foto sopra, Janet Alexander in - guarda caso - proprio
Wrong Turn 3, diretto da Declan O'Brien, l'uomo che già ci aveva donato Monster Ark - La profezia (e non ditemi che non l'avete visto!).

venerdì 12 febbraio 2010

Rosco e Sonny e il prigioniero del ruolo


Nel numero 7 di Il Giornalino, in edicola questa settimana, c'è un nuovo episodio delle indagini di Rosco e Sonny, la coppia di poliziotti creata da Claudio Nizzi e sceneggiata da me per i disegni di Rodolfo Torti.

L'episodio di questa settimana si intitola Prigioniero del ruolo e riguarda il problema di un attore di Hollywood famoso per interpretare sempre ruoli di gangster. Il problema non è quello, ma è che alcuni veri gangster vogliono da lui un peculiare risarcimento per aver avuto successo facendo finta di essere un criminale.

Qui sopra una vignetta della storia, disegnata come al solito ottimamente da Torti.

Bob Dylan alla Casa Bianca


(Ma solo per suonare: per la Presidenza vedremo).

Bob Dylan ha preso parte a un concerto alla Casa Bianca tenuto per celebrare, alla presenza di Barack Obama, il movimento dei diritti civili. Dylan aveva suonato anche nel 1963 alla marcia su Washington quando a capo del movimento c’era Martin Luther King. Qualcuno ha ritenuto inopportuno che Dylan abbia suonato alla Casa Bianca, presidio del potere capitalista. Ma siamo in tanti e c’è sempre qualcuno che pensa qualunque cosa. Non si capisce bene perché Dylan non avrebbe dovuto suonare per celebrare un movimento di cui, in fondo, aveva fatto parte. Non si capisce inoltre perché non avrebbe dovuto suonare per Obama visto che aveva già suonato (una grande e bizzarra versione di Chimes of Freedom) quando si era insediato Bill Clinton. Se avesse suonato per George W. sarebbe stato un altro discorso, ma temo che avrei potuto metabolizzare anche quello.


Comunque, il punto è un altro. Come ha suonato? Potete vederlo da voi facilmente andando su Expecting Rain o Maggie’s Farm o direttamente su YouTube. Per me è stata un’ottima interpretazione ed è stata un’altra dimostrazione di come le sue canzoni possano cambiare significato a seconda del modo di interpretarle. La canzone che Dylan ha scelto di cantare è The Times They Are A-Changin’, una delle canzoni più legate ai tempi in cui l’ha scritta. Contenuta nell’album omonimo (1964) era all’epoca una sorta di inno al cambiamento, forse la canzone più “politica” di un album e di un periodo “politico”. Oggi sappiamo che quel cambiamento non c’è stato e probabilmente non ci sarà mai. Lo sa anche Bob Dylan e forse lo sapeva anche allora, ma, come tutti, ci sperava. Da inno positivo, quindi, la canzone si è trasformata, in questa versione rallentata e soffusa di tristezza, in una sorta di requiem, quasi un lamento funebre al cambiamento mancato, dove la speranza di un miglioramento sociale e politico è riaffermata, ma senza alcuna illusione. Il mutamento di significato (e di umore) è nel modo in cui le parole vengono cantate dalla voce ormai mirabilmente rotta di Bob Dylan (anche se decisamente più melodica di quella che si sente nei concerti degli ultimi anni). Ed è anche nell’arrangiamento acustico (ma era acustica, ovviamente, anche la versione originale) e ricco di atmosfera.


La foto qui sopra l'ho trovata su internet ed è accreditata come "Official White House Photo by Pete Souza": se metterla in questo umile blog infrange qualche copyright sono disposto a toglierla immantinente sostituendola con una mia interpretazione astratta dell’evento (ma speriamo di no).

giovedì 11 febbraio 2010

I miei fumetti e Bob Dylan (1)


Ho scritto Il cinema di Bob Dylan perché mi interessano molto entrambi (il cinema e Bob Dylan). Però sono anche in qualche modo uno sceneggiatore di fumetti e quindi anche nei miei fumetti più di qualche volta mi è piaciuto citare Dylan, in modi diversi.

Parlo di citazioni in senso stretto, non come le si intende adesso. Adesso si chiamano citazioni anche delle disinvolte appropriazioni di svolte narrative appartenenti a opere altrui, oppure dei riferimenti edonistici che servono più a definire letture e ascolti di chi le fa per dargli spessore culturale che non a richiamare l’attenzione sull’opera o sull’autore citato. Spero di essere stato abbastanza criptico, ma magari posso fare di meglio in futuro.

In ogni modo, in questo e in prossimi post (non necessariamente molto prossimi) segnalerò qualcuna delle molte citazioni dylaniane che ho messo nei miei fumetti. Molte delle citazioni (non solo dylaniane) che ho inserito nelle mie sceneggiature sono così poco evidenti che spesso solo io mi accorgo di averle fatte (e talvolta nemmeno io) perché ho sempre pensato che il gioco delle citazioni sia bello se non sia evidente.

In questo caso, invece, la cosa è piuttosto evidente. Il fumetto in questione si intitola Come una pietra che rotola e non ci vuole molto per capire che il riferimento del titolo è a Like a Rolling Stone, forse la canzone più perfetta di Bob Dylan. Contenuta nell’album Highway 61 Revisited (1965) è un lucido torrente di livore che ha per bersaglio una socialite decaduta e costretta a condividere il destino dei disperati. Non è solo questo naturalmente, ma è anche questo. Il fumetto - disegnato da mio fratello Gianni e pubblicato sul Mera 2 (la costola “rivoluzionaria” del Messaggero dei Ragazzi) n. 3 del 1995 - non ha nulla a che vedere con la canzone, ma in un certo modo ne trae ispirazione, raccontando di un cattivo maestro che si trova a confrontarsi con le persone di cui raccomanda il disprezzo.

Il fumetto sarà molto difficile che qualcuno di voi possa ormai leggerlo, però se volete un suggerimento ascoltatevi Like a Rolling Stone. Nella versione originale con la chitarra di Mike Bloomfield e l’organo di Al Kooper in evidenza, nella tumultuosa versione del tour 1966 trainata dalla furibonda batteria di Mickey Jones (la trovate nel volume 4 della Bootleg Series), nella trascinante versione live di Before the Flood con la Band, nell’ottima versione semiacustica di Unplugged, in quella scatenata di Jimi Hendrix, in quella curiosa degli Articolo 31 (Come una pietra scalciata) che Dylan ha inserito nella colonna sonora di Masked & Anonymous o nelle innumerevoli altre che Dylan ha suonato nel corso degli anni. Resta sempre una canzone incredibilmente ricca e complessa, tragicamente sempre attuale. La rivista Rolling Stone (che alcuni dicono abbia preso il nome proprio da quella canzone) l’ha incoronata come la canzone rock numero 1. Non che ce ne fosse bisogno.

giovedì 4 febbraio 2010

La carriera interrotta di Pamela Franklin



Ieri Pamela Franklin ha compiuto sessant’anni. Difficile immaginarla anziana, dato che è scomparsa dagli schermi quando ne aveva poco più di trenta, dopo aver passato gli ultimi anni della sua carriera in partecipazioni episodiche a serie televisive. Eppure, è stata un’attrice importante e a suo modo unica, sin da bambina.


Del tutto priva della leziosità tipica degli altri attori bambini, si è sin dall’inizio specializzata in parti difficili e spesso controverse, di alto contenuto drammatico, oltre che frequentemente all’interno del genere horror. Il suo esordio avviene nella parte di Flora, una dei due bambini presumibilmente segnati dal cattivo esempio del defunto giardiniere Quint in Suspense (1961), capolavoro d’elegante ambiguità che Jack Clayton ha tratto dall’indimenticabile Giro di vite di Henry James, una particolarissima ghost story nella quale si dubita di tutto, anche della presenza dei fantasmi. Già in questo esordio, a soli undici anni, Pamela Franklin dimostra capacità recitative insolite e mature.


Successivamente, per restare ai ruoli più interessanti, è la protagonista di Il terzo segreto (1964) di Charles Crichton, uno psycho-thriller ormai dimenticato, ma piuttosto teso e riuscito. Pamela Franklin vi interpreta una ragazzina fragile e turbata, scossa dalla morte del padre, famoso psichiatra: tutti dicono che si sia suicidato, ma lei non ci crede e vuole sapere la verità. La aiuta un giornalista con diverse turbe di suo, interpretato con bravura da Stephen Boyd, al quale lo lega un rapporto che vuole essere vicario di quello del padre, ma tende - con sottintesi tipicamente britannici - al morboso. L’anno successivo, ha un significativo ruolo di supporto in Nanny la governante (1965), un altro psycho-thriller prodotto dalla Hammer e diretto da Seth Holt. Di fronte a un mostro sacro come Bette Davis, Pamela Franklin, che da bambina è diventata irrequieta adolescente, dimostra di saper variare con grande abilità i registri interpretativi. Per nulla trascurabile anche il suo apporto a Tutte le sere alle nove (1967), nel quale ritrova l’elegante regia di Jack Clayton. Curiosissimo e plumbeo film ai confini dello psycho-thriller, racconta di un gruppo di fratellini che cerca di superare la morte della mamma facendo finta che non sia avvenuta ed evitando così d’essere mandati all’orfanotrofio. Poi, di punto in bianco, arriva il padre separato, interpretato con malefica disinvoltura da Dirk Bogarde e le cose si complicano. Qui Pamela Franklin divide il proscenio con altri bravi attori giovani e giovanissimi, ma, ormai ragazza, sa dare profondità particolare al suo personaggio: la sua espressione turbata, fiera e decisa disvela con una sola improvvisa e subitanea occhiata la sottintesa morbosità dell’atteggiamento del padre durante un innocente gioco in famiglia ed è così repentina nel cambiamento espressivo e d’umore da generare - nel film - disagio persino al genitore (o presunto tale). Un singolo momento di grande bravura attoriale.


Dopo una bella prova in un film sfortunato (La notte del giorno dopo, a fianco di Marlon Brando), la carriera di Pamela Franklin sembra prendere il volo con La strana voglia di Jean (1969), commedia drammatica diretta da Ronald Neame, un notevole successo di pubblico e di critica, anche se è la brava Maggie Smith a calamitare riconoscimenti, tra cui l’Oscar come migliore attrice protagonista.


A questo punto sembra che Pamela Franklin debba diventare una star, ma le cose non vanno così. Il flop di La forca può attendere (1969) di John Huston la rimanda nelle produzioni di genere, dove però continua a fornire buone interpretazioni. Pamela Franklin diviene ancor più una sorta di icona horror, forse controvoglia. È ancora comunque molto brava in Il mostro della strada di campagna (1970) di Robert Fuest (il regista di L’abominevole dr. Phibes), dove regge da protagonista assoluta il sottile gioco che Fuest dirige con sapienza e abilità: cicloturista inglese in vacanza in Francia, è coinvolta nelle malefatte di un serial killer e si ritrova in un ambiente ostile e alieno nel quale anche la lingua si rivela una barriera alla comprensione.


Cominciano le parti televisive, negli Stati Uniti e la naturale spontaneità interpretativa viene sostituita sempre più da un professionismo capace, ma meno significativo. I ruoli cinematografici si fanno più rari e meno premianti. Il potere di Satana (1972) di Bert I. Gordon ha rilievo solo per la presenza di Orson Welles, chiaramente in vacanza alimentare. Dopo la vita (1973) è un non memorabile horror tratto da un insolitamente non memorabile romanzo di Richard Matheson: Pamela Franklin spicca però in un ruolo morboso e complesso affrontato con partecipazione.


Nell’insieme, Pamela Franklin comincia a essere meno incisiva, in ruoli più qualunque. Satan’s School for Girls (1973) è un horror televisivo di David Lowell Rich con qualche motivo di interesse, ma non superiore alla media. Ormai è solo televisione, l’anticamera dell’irrilevanza. L’ultimo ruolo per il cinema è in Il cibo degli dei (1976), ancora di Bert I. Gordon: Pamela Franklin vi appare sostanzialmente disinteressata, inerte. Il film è modesto e lei recita come un’attrice qualunque. La magia è scomparsa. Nel 1981, a soli 31 anni, decide di chiudere la carriera di attrice: una cesura netta e volontaria, senza rimpianti. Dirà che recitare era una cosa che le hanno fatto fare sin da bambina, ma non le interessava più di tanto. Si dedica alla famiglia e alleva i suoi due figli. Notizie abbastanza recenti la danno come serena e felice della sua vita familiare, nonché occasionale collaboratrice del marito - Harvey Jason, anche lui ex attore - nella sua rinomata libreria di libri antichi e rari dalle parti di Hollywood.


Nella foto sopra, Pamela Franklin in Dopo la vita. In quella sotto, Pamela Franklin (a sinistra) è assieme a Maggie Smith in La strana voglia di Jean.

George A. Romero compie settant’anni.


E quindi mi sembra proprio il caso di fargli molti auguri di buon compleanno: cento di questi giorni e altrettanti film.
Non è il caso che mi dilunghi in questa occasione: George A. Romero è uno dei miei registi preferiti e l’ho detto e scritto più volte. Tutti i suoi film - anche quelli minori - sono testimonianza di una rara onestà intellettuale e di una integrità artistica decisamente non comune. Suggerisco a chi non li ha visti tutti di colmare al più presto ogni lacuna. Tra quelli meno noti vale la pena di riscoprire
Knightriders (che non è un horror ed è un film assolutamente unico nel suo genere, nel senso che appartiene a un genere che non esiste) e in fondo anche Martin del quale ormai circola anche nelle nostre Tv il director’s cut che finalmente fa giustizia della incredibile versione italiana dell’epoca (Wampyr).

Qui sopra una foto inedita del buon vecchio George scattata da Alberto Gerotto alla Mostra del cinema di Venezia nel settembre scorso, nell’occasione in cui Romero gentilmente autografò un
Dizionario dei film horror (chi vuole può andarsi a vedere la relativa foto nel post specifico di qualche mese fa).