venerdì 31 marzo 2017

It

In attesa che finalmente, dopo anni di development hell, veda la luce la prima versione cinematografica del capolavoro di Stephen King (vale a dire It: lo dico per chi non lo abbia già intuito leggendo il titolo di questo post), ho scritto un pezzo di presentazione per MYmovies che potete leggere cliccando qui e andando quindi sul sito di MYmovies.

Regista è quell'Andres Muschietti che tanto bene aveva impressionato con La madre, perciò le speranze di una buona riuscita ci sono tutte.

Quando ho letto It (e l'ho fatto nell'estate del 1990) ero nel pieno del mio periodo kinghiano (come lettore, cioè) e, benche impressionato soprattutto dalla mole del malloppone che un po' intimidiva (tendo a preferire i libri corti, così come in via di approccio preliminare non amo i film che superano i 90'), una volta iniziata la lettura non ho potuto che rendermi conto che il peso delle pagine era assai lieve e la lettura molto avvincente. Se volessimo ridurre in poche righe la trama del libro, ci renderemmo conto che in fondo si tratta di una storia persino banale, ma ciò che la rende interessante è il modo in cui è raccontata e i personaggi che la popolano, con le loro storie personali. Purtroppo, quando si operano le riduzioni per lo schermo, proprio di riduzioni si tratta e quindi molte delle cose che rendono bello un libro voluminoso come It vengono tralasciate sull'altare della semplificazione. Per questo nel caso della prima trasposizione per il piccolo schermo (quello televisivo) è stata scelta la forma della miniserie. Per avere cioè più tempo. Il risultato qualitativo però è stato solo parzialmente raggiunto, per tanti motivi. E in fondo la durata totale (poco più di tre ore) non era comunque sufficiente a rendere la complessità narrativa del libro. Questa volta vedremo: lo schermo è quello grande e tali sono anche le aspettative.
 

La Banda nel Messaggero dei Ragazzi n. 1011

Nel n. 1011 del Messaggero dei Ragazzi - è il numero di aprile, attualmente in distribuzione - torna La Banda con la sua ottava avventura, intitolata La grande quercia.

La Banda, come ormai dovrebbe sapere chi frequenta questo blog, è la serie a fumetti che scrivo per il Messaggero dei Ragazzi. L'ideatore grafico è il grande Luca Salvagno che ha disegnato le prime storie e altre ne disegnerà ancora, ma è coadiuvato da un gruppo di bravissimi disegnatori che si alternano negli altri episodi. 

La grande quercia è disegnata - molto bene - da Isacco Saccoman, che già se l'era cavata molto bene nel sesto episodio, Halloween. In questo caso l'ambientazione prevalentemente silvestre ben si presta ai giochi di colore e a una scenografia ricca e variata nella creazione della quale Isacco si è fatto valere. La storia vuole rappresentare un percorso verso la comprensione reciproca dopo che si è lasciato, per vari motivi, spazio all'incomprensione e anche al rancore.

Qui sopra alcune vignette esemplari (e boschive). E come sempre buona lettura a chi vorrà leggere questa storia.

lunedì 27 marzo 2017

Bob Dylan, le cover e Golden Vanity

Tra pochi giorni uscirà il nuovo disco di Bob Dylan. Si tratta di Triplicate, un altro disco di covers dopo quelli già usciti negli anni scorsi, Shadows in the Night e Fallen Angels. È un disco triplo che quindi sembra una sorta di sfida a chi, magari sottovoce, aveva cominciato a dire che due dischi di cover potevano essere abbastanza. Ma naturalmente Dylan non lancerebbe mai sfide del genere: in realtà, sta semplicemente continuando a fare quello che ha sempre fatto, ciò che vuole.

Peraltro, Dylan ha spesso fatto cover: già il suo primo disco ne aveva parecchie. Poi nel corso degli anni, in maggiore o minore misura, ne ha continuate a fare con punte quantitative in dischi come Self Portrait o Down in the Groove. Per non parlare del dittico acustico dei primi anni ‘90, interamente composto di versioni di canzoni altrui, tradizionali e no. E anche dal vivo, soprattutto con l’inizio del Never Ending Tour (o comunque lo si sia voluto chiamare nel corso dei decenni) nel 1988, le cover non sono mancate.

Quindi, niente di strano. Apparentemente. In realtà qualcosa di strano c’è. Un aspetto ricorrente delle cover dylaniane dall’inizio sino quasi ai nostri giorni è che le canzoni venivano del tutto dylanizzate, non erano per niente simili ai pezzi originali e spesso potevano invece sembrare canzoni di Dylan. Dylan, infatti, le faceva proprie con la sua interpretazione, diventavano cosa sua. Gli esempi sono molteplici. Uno dei più eclatanti è la gershwiniana Soon, fatta in solitario con chitarra e armonica durante un concerto in onore di Gershwin nel 1987 (la ripresa televisiva dell’avvenimento è facile trovarla su youtube): da ascoltare per credere. Un altro esempio potrebbe essere The Lady Came from Baltimore scritta da Ty Hardin, ma ce ne sono davvero tanti.

Tra questi mi preme segnalare Golden Vanity. Si tratta di una canzone tradizionale di qualche secolo fa e ne esiste una miriade di versioni. Saltabeccando su youtube ne troverete a vagoni, ce n’è una di Pete Seeger, ma ce ne sono anche di gruppi moderni. Chi la fa vivace, chi la fa lenta, chi la fa ipermelodica. Poi c’è la versione di Bob Dylan. Dylan l’ha eseguita in concerto sette volte, ma la versione che si sente più facilmente è anche la migliore, quella eseguita a Waikiki nelle Hawaii il 24 aprile 1992 (annata di particolare interesse, molto hit or miss, per la parte acustica dei concerti dylaniani). Su youtube la trovate facilmente. Ascoltatela, magari dopo o prima d’aver ascoltato qualcuna delle altre versioni. Non era un periodo facile per Dylan, quello. Il pubblico gli chiedeva le sue canzoni famose, quelle di protesta. E Dylan rispose, acuto e caustico: “This one’s got all that stuff in it. You’ll see. It’s got all that and more”. Poi attacca la canzone e dimostra che quello che aveva detto era vero, non solo e non tanto per la canzone, quanto per l’interpretazione. Struggente, tragica, esemplificativa della cattiveria e dell’ingiustizia umane, capace di rendere il senso assolutamente individuale del riscatto, è una canzone che contiene davvero molto. L’interpretazione di Dylan è straziata, pienamente “dentro” ogni singola parola, anche di quelle parole che gli mancano, che si mastica e dimentica, anche con ciò dando il senso della disperazione e della mancanza di riconoscenza e gratitudine.

Oggi, invece, Dylan in queste sue nuove cover cerca di entrare nello spirito delle vecchie canzoni che interpreta, dei tempi che le hanno espresse. Un approccio completamente diverse. Invece di dylanizzare le canzoni, forse il contrario. Forse. Perché forse ci vorrà del tempo anche per capire questo.

domenica 12 marzo 2017

Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 9 José Mojica Marins

Il nono e ultimo capitolo del mio libro Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac edizioni) è dedicato a José Mojica Marins ed è stato scritto appositamente per questo libro. L’ho voluto aggiungere perché mi sembrava che un regista come Marins fosse una presenza imprescindibile: in sostanza, non poteva mancare.

Regista, ma non solo perché di gran parte dei suoi film Marins è anche una presenza “necessaria” come attore. Pochi autori - nel bene e nel male - sono più caratteristici e caratterizzanti la propria opera. E pochi autori hanno realizzato film più strani, più wierd (per dirla all’inglese). Naturalmente, il personaggio che più esemplifica il lavoro di marins è quello di Zé do Caixao (tradotto dagli americani in Coffin Joe), il lugubre becchino filosofo con manie di grandezza che gli ha dato la fama e che in sostanza Marins non ha mai cessato di interpretare anche nelle sue apparizioni pubbliche. Ma ripercorrendo la carriera di questo regista - come ho fatto nel mio libro - ci si sorprende nel vedere invece in fondo quanto poche siano le volte che Zé compare, effettivamente, nei film di Marins. Al punto che quando Marins lo riprende in modo ufficiale con il mirabile Encarnaçao do demonio nel 2008 sono in realtà trascorsi oltre 40 anni dal film “legittimamente” precedente (non contando, con ciò, le diverse finte o parziali riapparizioni di un personaggio che percorre comunque in modo periferico o anche solo come pura citazione la filmografia di Marins).

Ma ripercorrere la tumultuosa carriera di Marins consente anche di evidenziare come si sia trattato di un autore - ancora in attività, peraltro - davvero sui generis, che ha lottato per imporre il suo punto di vista in un contesto ostile come pochi, perché non solo la cinematografia brasiliana era sostanzialmente aliena dall’horror o dall’exploitation, ma la mancanza degli aspetti basilari di un’industria produttiva gli ha reso tutto difficile e avventuroso. Che sia riuscito a fare così tanti film è un miracolo e una testimonianza alla sua pervicacia, oltre che alla sua capacità di superare ogni ostacolo.

Com’è ovvio, i suoi film risentono di queste difficoltà e anche, magari, della mancanza di qualcuno dei talenti specifici che servono a far coagulare la formula del “bel film”, ma, nonostante alcuni di essi siano oggettivamente carenti e anche talvolta brutti, rimane sempre l’originalità dello sguardo, che in fondo è ciò che caratterizza un autore.

Unghie chilometriche e sproloqui filosofici possono essere gli aspetti che restano più impressi nel suo cinema, ma Marins, a chi lo guarda senza pregiudizi (e forse anche senza aspettative particolari) ha molto da offrire. A partire dai titoli dei film, per esempio: Questa notte mi incarnerò nel tuo cadavere, dove lo si può trovare un titolo tanto tonitruante se non nel suo cinema? E, si badi, il film stesso è del tutto all’altezza della bizzarra enfasi del suo titolo.

Tra gli alti e bassi del successo e dell’insuccesso commerciale, Marins è riuscito a perseverare, producendosi in un’andata e ritorno dagli inferi del porno (come altri registi di exploitation della sua epoca) per poi trovare la possibilità di un ritorno in grande stile con Encarnaçao do demonio, riuscendo a sopravvivere al suo mito e approfittando di esso per poter finanziare questo ritorno. Non è una cosa da poco. Mi piace molto quando un artista riesce a durare e a tornare contro ogni probabilità. Non tutti ci riescono. Quasi nessuno, anzi.





Qui sopra, un’immagine di José Mojica Marins nei panni di Zé do Caixao in Encarnaçao do demonio.

giovedì 9 marzo 2017

The Ring 3 - link alla recensione

E dopo l'overview di presentazione, arriva puntuale, in anticipo di qualche giorno rispetto all'uscita in sala, la mia recensione di The Ring 3 su MYmovies: chi vuole leggerla deve solo cliccare qui.

Non mi dilungo in questa sede - l'ho fatto appunto su MYmovies - e segnalo solo che la foto qui sopra riguarda la protagonista del film, la brava Matilda Lutz che abbiamo imparato a conoscere proprio nel cinema italiano.