mercoledì 22 aprile 2015

Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 2 Jean Rollin

Proseguo nell’opera di presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni). Dopo il primo capitolo dedicato a Pete Walker, qualche parola sul secondo capitolo, dedicato al regista francese Jean Rollin.

Se c’è un regista cui i confini comunque larghi dell’exploitation andavano stretti questi era proprio Jean Rollin, costretto dagli eventi talvolta a introdurre nei suoi film elementi che non lo interessavano troppo - la violenza, per esempio - ma (quasi) sempre capace di imprimere la sua personalissima impronta a quello che girava. Sperimentatore alla ricerca dell’equilibrio tra la “poesia” cui ambiva e le esigenze della narrazione si è sempre trovato meglio nelle sequenze mute, raccontate solo dalle immagini, spesso caricate di simbolismi fin troppo evidenti ma comunque sempre ricercati e mai buttati là. Difficile trovare in Rollin la sciatteria spavalda del Franco più corrivo. Difficile pensare a registi più diversi anche se il destino li ha qualche volta accomunati.

I personaggi simbolo di Rollin sono stati i vampiri. Anzi, le vampire. Vampire esangui, di una carnalità rarefatta ma prorompente, stilizzate ed eleganti, pur se titoli italiani come l'esilarante Violenza a una vergine nella terra dei morti viventi ("traduzione" di Le frisson des vampires: qui sotto il manifesto originale realizzato dal grande fumettista Philippe Druillet) cercavano di commercializzarle in modo più terra terra. Rollin le ha declinate in versioni svariate, da quelle pop di La vampira nuda a quelle mascherate da zombie ma pur sempre vampiresche di La morte vivante a quelle feuilletonesche di L’amante di Dracula. Per non parlare della coppia di vampire Les deux orpheline vampires in cui Rollin epitomizza il suo cinema e sublima la sua fascinazione per il “doppio”. Ma è stato capace di realizzare anche un feroce film di zombie come Les raisins de la mort e uno struggente fantamelodramma come La nuit des traquées, non riuscito per motivi di budget ma folgorante nelle intuizioni.

 



Anche in questo caso all’origine c’è il mio articolo rolliniano per la serie Kings of Exploitation, pubblicato su Segnocinema 14 anni fa. Ma in questo frattempo molte cose sono successe. Tra le cose brutte, è successo che Rollin è morto. Ma tra le cose belle c’è che è riuscito a realizzare diversi film prima di morire, tra cui una sorta di testamento spirituale come La nuit des horloges che riprende e amplifica un altro film testamentario da lui realizzato anni prima, Perdues dans New York. Di tutto questo e anche di altri film che al tempo non ero riuscito a vedere - per esempio il simpatico Jeunes filles impudiques e il paradigmatico La rose de fer, una vera pietra miliare della filmografia rolliniana -  il mio nuovo libro dà conto con dovizia.

Il capitolo ripercorre la carriera di Rollin ed è un viaggio che parte dalla spavalderia sperimentale giovanile di Le viol du vampire per arrivare via via sempre più verso un classicismo che precisa le tematiche, le approfondisce per sviluppare una poetica che talvolta presta il fianco a giuste critiche di coerenza narrativa e di eccesso di simbolismi anche facili, ma è sempre l’espressione di una personalità tenace, più che irrequieta, nel voler esprimersi anche contro ogni possibilità.

mercoledì 8 aprile 2015

Gli scacchi della vita di Stefano Simone

Investito da un’auto e perciò ricoverato in ospedale per cure e rieducazione, l’indaffarato architetto Massimo coglie l’occasione per leggere in anteprima il romanzo scritto dalla moglie, ancora in forma di manoscritto. Il titolo del romanzo è Gli scacchi della vita e racconta di una vita decisa da una partita a scacchi. Senza sapere come, Massimo si ritrova in un non-luogo e in un non-tempo, intento a giocare una partita a scacchi con uno sconcertante personaggio che gli ha promesso che alla fine della partita avrà tutte le risposte che cerca. E che però a ogni pedina mangiata dovrà rispondere a una domanda, potendo comunque fare altrettanto. Incuriosito e in ogni caso senza scelta, Massimo accetta e comincia la partita, rivivendo nell’occasione i momenti salienti e dolorosi della propria vita. E un terribile segreto che aveva cercato di dimenticare.

Dopo una serie di prove in crescendo (culminate con Weekend tra amici), per il suo nuovo film, Gli scacchi della vita, tratto da un racconto di Gordiano Lupi, il giovane regista Stefano Simone cambia registro narrativo e si addentra in una riflessione metafisica sul senso della vita e, probabilmente, sulla possibilità di riscatto e resipiscenza che ognuno, qualunque siano le sue colpe, mantiene. La materia è quindi di quelle complesse, difficile da affrontare e, soprattutto, da rendere senza incorrere nello scontato e nel già visto: il viaggio metafisico nell’esistenza e la partita a scacchi come simbolo del rapporto tra la vita e la morte in un gioco surreale dove qua e là trapela qualche indiretta eco bergmaniana e qualche rimando, forse, al Tornatore di Una pura formalità.


Di sicuro è un film ambizioso, per i temi trattati e per il fatto d’averli voluti trattare. Si tratta di argomenti di spessore, spesso affrontati con difficoltà dal cinema e solo talvolta con efficacia. Il risultato, diversamente da quanto era successo con il precedente film di Simone, non è all’altezza delle ambizioni, ma anche le ambizioni sono in questo caso maggiori. Pur confermando buone qualità nella messa in scena e nella scelta delle immagini, Simone non riesce a evitare le secche di una certa schematicità e prevedibilità (il sottofinale, per fare un esempio, è piuttosto telefonato, anche se sicuramente in linea con lo sviluppo e le intenzioni della storia).


I ricordi giovanili del personaggio - con il trauma di essere figlio di una prostituta - sono un po’ troppo monocordi e insistiti nel ribadire il concetto dell’isolamento del personaggio. Lo sviluppo della situazione riesce comunque a delineare efficacemente le motivazioni all’origine delle scelte da lui compiute e alcune svolte hanno un apprezzabile effetto drammatico. Alcune lungaggini nella narrazione rallentano però un po’ troppo il procedere della storia, forse perché non c’è abbastanza materia narrativa per sostenere un lungometraggio.


Nonostante la tematica, il film rifugge le tenebre e privilegia atmosfere assolate, contrastate e quasi iperrealistiche, anche nella scelta dei colori. La scelta di privilegiare, nelle ambientazioni, contorni periferici, dismessi o capannoni industriali deserti è azzeccata e rende il senso del degrado e dell’abbandono.


La recitazione è un po’ diseguale negli esiti se non nell’impegno. Per la misura e la naturalezza dell’interpretazione, nel cast si segnala soprattutto Michael Segal, la cui esperienza recitativa (vanta già un buon numero di film al suo attivo, tra cui, in campo horror, alcuni diretti da Ivan Zuccon) si fa sentire nell’efficacia dei risultati. Buona anche la prova di Antonio Potito nel ruolo di un barbone amante degli scacchi che cerca senza troppa fortuna di consigliare per il meglio il protagonista da giovane. Filippo Totaro, alle prese con il ruolo probabilmente più difficile, tende talvolta ad andare un po’ sopra le righe, ma nel complesso riesce a rendere con sufficiente abilità la cruciale ambiguità del suo personaggio. Libero Troiano, nel ruolo di Massimo giovane, alterna momenti di efficacia ad altri di minore resa drammatica, probabilmente per inesperienza.


In generale, parte del cast risente forse della difficoltà dei ruoli. Talvolta la materia è troppo impegnativa e insidiosa e, per una buona resa drammatica, avrebbe richiesto una recitazione più professionale. O magari un uso diverso del montaggio e delle inquadrature per ovviare al problema e cercare di minimizzarlo. Difetti di esperienza. Infatti le sequenze migliori sono quelle, soprattutto nella seconda parte del film, in cui la narrazione è lasciata all’interazione tra le immagini e la colonna sonora, generalmente efficace nel rendere il respiro drammatico della storia.

venerdì 3 aprile 2015

Bob Dylan - Shadows in the Night

A Bob Dylan è sempre piaciuto interpretare canzoni altrui. Se all’inizio della carriera - con le scorpacciate di blues, root songs, folk, Woody Guthrie e via discorrendo - poteva essere una necessità in attesa di rimpinguare un repertorio proprio, negli anni seguenti è stata una scelta ponderata con cui ritrovare l’ispirazione, ripercorrere la storia del proprio paese, rendere imaggio ad artisti più o meno o per niente famosi. In certi casi le cover sono state poco riuscite (Self Portrait e Dylan presentano alcuni esempi in questo senso, ma anche Knocked Out Loaded non scherza), più spesso sono state notevoli.

Una caratteristica degli esempi migliori è che, interpretandole, Dylan trasforma quelle canzoni facendole sue, rendendole qualcosa di diverso. Anche nei casi in cui l’originale sembrava lontano quantomeno dal suo stile se non dalla sua sensibilità. Superba ed evidente in questo senso è la sua versione di Soon di Gershwin, suonata da solo, chitarra e armonica, nel 1987 al Gershwin Gala di fronte a un pubblico dapprima sbigottito e poi conquistato. Parliamo di Gershwin, che di solito è eseguito da un’orchestra e che normalmente uno non avrebbe mai pensato potesse essere tra i musicisti nell’ambito di interesse di Dylan.

Ma che i gusti di Dylan siano molto più ampi di quelli della maggior parte dei suoi ammiratori è divenuto evidente nel periodo in cui Dylan ha, per così dire, fatto il dj con il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, una miniera di scoperte e riscoperte musicali a ruota libera e ampio raggio. Chi ha ascoltato quel programma non si è stupito che Dylan abbia deciso di realizzare un album di cover di canzoni associate a Frank Sinatra perché da lui cantate nelle varie fasi della sua lunga carriera. Né va dimenticato che Dylan ha suonato per Frank Sinatra nel concerto omaggio per i suoi 80 anni, dimostrando così la sua ammirazione per lui. Che stima e ammirazione fossero reciproci lo dimostra ancor più il fatto che Dylan fu l’unico in quella occasione a suonare una propria canzone invece che una cover sinatriana, su richiesta dello stesso Sinatra che gli chiese di cantare Restless Farewell (canzone che Dylan non eseguiva praticamente mai dal vivo) probabilmente perché ha una tematica che il vecchio crooner sentiva affine: potremmo infatti definirla la My Way di Bob Dylan.

Shadows in the Night, il nuovo album, contiene forse anche la canzone che Dylan avrebbe potuto o voluto cantare in quel concerto. Chissà. In ogni caso, è stato registrato praticamente live con la band con cui Dylan gira il mondo in questi anni, con arrangiamenti rispettosi dell’essenza delle canzoni; non rivoluzionari quindi nella sostanza, ma forse rivoluzionari nella forma perché fanno a meno del respiro orchestrale. Non siamo quindi dalle parti della rivisitazione demolitrice alla Sid Vicious di My Way. Dylan, come lui stesso ha riconosciuto, ha in sostanza contribuito a demolire quel mondo per davvero, rivoluzionando la musica e rendendo all’improvviso obsoleto un certo modo di farla. Il rispetto e l’ammirazione che invece lui prova per quella musica e quegli artisti - non tutti, ovvio, basta leggere il magistrale e geniale, anche nelle sue cattiverie che poteva in qualche caso risparmiarsi, tenuto improvvisamente e quasi a sorpresa al MusiCares qualche tempo fa per rendersene conto (trovate la traduzione integrale nel meritorio sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm - lo dimostra proprio un disco come questo.

Dylan non cerca, diversamente da quella versione di Soon, di rendere dylaniano Sinatra e nemmeno prova a rendere sinatriano se stesso, sapendo che non sarebbe possibile. Va però all’essenza delle canzoni e le interpreta al meglio delle sue attuali possibilità, con sorprendenti modulazioni vocali che la voce di questi anni sembrava impedirgli (ma nell’ultimo paio d’anni la voce, anche per una più sapiente scelta del tipo di musica, è nettamente migliorata anche nei concerti).

Non sono un esperto di Frank Sinatra, ma I’m a Fool to Want You, la canzone che apre l’album, la conoscevo bene e mi è sempre sembrata una delle migliori del repertorio di Sinatra per quel che ne potevo sapere. Notturna, cupa e amara. Dylan la ripercorre con grande sensibilità e vulnerabilità, dando verità a ogni parola: toccante e riflessiva, la canzone dà subito il tono giusto che l’album non perderà più.  Qualcuno ha scritto che, per questo suo mantenersi in uno stesso mood, è un album monotono. Direi invece che è un album che crea un’atmosfera e la mantiene. Mi sembra più un pregio che un difetto.

Tra gli highlights del disco ci sono sicuramente Autumn Leaves, che, spogliata da ogni sovrastruttura, è una canzone struggente e di sana malinconia, Full Moon and Empty Arms, soffusa e fumosa, e Some Enchanting Evening, che si fa apprezzare per la sua levità in un contesto tendente al cupo. Di The Night We Called It a Day, romantica e avvolgente, ormai ci restano impresse e si sovrappongono nella memoria le immagini del suggestivo video che le è stato dedicato. Ma la canzone che secondo me spicca in assoluto - in un contesto uniformemente buono - è l’unica che Dylan aveva già più volte interpretato e che qui ripropone in modo del tutto diverso rispetto alle sue passate interpretazioni. That Lucky Old Sun, infatti, era stata proposta ben 23 volte in concerto nel 1986 durante la tournée con Tom Petty e gli Heartbreakers e poi era sporadicamente tornata anche nel cosiddetto Neverending Tour. Quindi, non una novità per i dylaniani. Ma le versioni del 1986 erano piene di energia, quasi rabbiose, molto rock, più che country, mentre le versioni del Neverending Tour privilegiavano, in versione acustica, la variante folk della canzone. Questa volta la resa è del tutto diversa. E notevole. La world-weariness sottesa nel testo emerge sommessa e potente nell’arrangiamento lento e avvolgente, con la voce che rende davvero il senso della stanchezza di fronte alle ingiustizie e alle fatiche della vita e del desiderio di avere da Dio la possibilità di non fare nulla e di starsene tranquilli come il sole a osservare, se proprio se ne ha voglia, l’umanità che si danna nelle sue inutili e frenetiche attività.



Certo, un album di originali dylaniani è un'altra cosa e un altro Tempest sarebbe stato ben più interessante, ma nello spirito di assoluta libertà nei fini e nei mezzi che caratterizza da sempre Dylan questa aggunta al suo canone è affascinante e soprattutto tende a persistere nella memoria e a farsi ascoltare sempre con piacere.