martedì 29 giugno 2010

I vampiri nel cinema


In attesa di postare qualcosa di più specifico e sostanzioso appena avrò il tempo di scriverlo, segnalo un'altra cosa che chi vuole può leggere su MyMovies e cioè un excursus sul cinema dei vampiri. Lo trovate, come al solito, qui.

Oggi, come si sa, i vampiri sono tornati molto di moda, oltre che come soprannome di qualche ministro con delega alle imposte anche per i loro impegni sentimentali e romantici. A parte Twilight basta andare in una libreria per vedere caterve di romanzoni rosa al sangue. Come diceva Kurt Vonnegut, così va il mondo. D'accordo, non lo diceva solo lui, ma è sempre un piacere citarlo.

Qui sopra, Lam Ching-Ying nel consigliatissimo Mr. Vampire.

martedì 22 giugno 2010

Horror Frames: The Stepfather


Un'altra puntata della rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies: l'oggetto è oggi il remake di The Stepfather - Il patrigno, un piccolo capolavoro dell'horror diretto un paio di decenni da fa dal bravo Joseph Ruben, scritto dall'emerito giallista Donald Westlake e interpretato dal bravissimo Terry O'Quinn.

Il remake, da poco uscito in dvd qui da noi, si intitola Il segreto di David - The Stepfather, dove il David del titolo è proprio lui, il patrigno, che in effetti un piccolo segretuccio ce l'ha. Per leggere il mio articolo basta come sempre seguire questo link.

Senza anticipare nulla della mia opinione, posso però dire che l'aspetto migliore del film è quello di Amber Heard, qui sopra in una foto di scena.

mercoledì 16 giugno 2010

Bob Dylan ieri 15 giugno 2010 in concerto a Padova

Avrei voluto aprire questo post con una bonaria reprimenda dell’approssimazione dei media che parlavano quasi tutti del concerto di Bob Dylan a Padova anche se in effetti era a Piazzola sul Brenta, ridente cittadina nei pressi di Padova e dotata di una sua precisa identità e autonomia (era successo del resto - ed era ancora più grave - qualche anno fa con il concerto di Strà). E invece cos’è successo? Che causa maltempo il concerto è stato spostato veramente a Padova, al cosiddetto Palafabris. Per me di una comodità assoluta: di meglio avrebbe potuto esserci solo un concerto in Prato della Valle o nel salotto di casa mia.

Inoltre, ero in una posizione invidiabile, centrale, in quarta fila, a pochissimi metri dal palco e con una visibilità perfetta. Una situazione quasi analoga, ma leggermente più lontana, mi era capitata solo nel secondo concerto all’Arena di Verona nel lontano 1984.

Il palazzetto era, per usare un’espressione tipica del giornalismo calcistico, “gremito in ogni ordine di posti” e conseguentemente ho capito come ci si sente dentro un forno a microonde in funzione: decisamente accaldati.

E il concerto? Ottimo, direi. Uno dei migliori a cui ho assistito negli ultimi anni. Bob Dylan era in grande forma, vispo, capace di farsi più di qualche risata, anche grassa, e incline a una ironica teatralità gestuale. Più volte ha lasciato il suo organetto e ha preso il centro del palco per cantare e suonare l’armonica. In quasi quattro canzoni ha anche imbracciato la chitarra (mai, purtroppo, quella acustica: il set acustico, che era generalmente il mio preferito, è ormai scomparso dal palinsesto dei concerti dylaniani) producendosi in qualcuno dei suoi curiosi e personalissimi assoli anticinetici. Se Dylan è stato mobile e vivace, Tony Garnier è invece rimasto seduto per tutto il concerto... spero per scelta tecnica e non per motivi di salute.

La scaletta non è stata ricca di sorpresa, ma solida e ben strutturata. La prima canzone è stata Leopard-Skin Pill-Box Hat, più che altro per riscaldare l’ambiente (che, come ho detto, in realtà non ne aveva bisogno). A seguire una delle vette del concerto, un’intensa It’s All Over Now, Baby Blue e una I’ll Be Your Baby Tonight nella norma.

Tangled Up In Blue ha goduto grandemente del nuovo arrangiamento che le ha dato nuova linfa e vigore. Resta uno dei capisaldi del Dylan migliore, ma, com’era già accaduto nel 1984, aveva bisogno di una rinfrescata dopo una certa inflazione negli anni passati e questo arrangiamento, più duro, gliel’ha data validamente.

The Levee’s Gonna Break è un brano che non amo particolarmente, ma ha una sua efficacia soprattutto dal vivo per il suo ritmo coinvolgente.

Poi è stata la volta di Masters of War, un’altra di quelle canzoni classiche che rinnova sempre la propria potenza e il proprio significato anche a quasi cinquant’anni dal concepimento. Dylan la cantò polemicamente ai Grammi Awards molti anni fa all’esordio della prima guerra in Iraq in una versione rabbiosa e oggi la canta ancora perché è sempre attuale. La versione di ieri è stata particolarmente dura, ritmata, sferzante con richiami a quella del tour del ’78 e con qualche innovazione nel fraseggio, con la ripetizione dell’ultimo verso di ciascuna strofa. Le parole risuonano ancora vere: “A World War can be won/They want me to believe”. Proprio così, lo stiamo vedendo.

I Don’t Believe You è stata ravvivata dall’armonica di Dylan e ha preceduto la vetta assoluta del concerto (per me, naturalmente): Workingman’s Blues #2 è una grande canzone e l’esecuzione dal vivo le rende sempre giustizia. Anche ieri la performance è stata toccante e impeccabile, impreziosita - e non accade spesso a questa canzone - da un ottimo lavoro all’armonica. Le parole di questo amaro inno “operaio” sono sempre più vere in questi tempi di crisi: “They say low wages are a reality/If we want to compete abroad”. E ancor più: “Well, they burned my barn and they stole my horse/I can’t save a dime/I got to be careful, I don’t want to be forced/Into a life of continual crime”.

Cold Irons Bound è stata eseguita ottimamente, anch’essa con un trascinante assolo di armonica, seguita da Under the Red Sky, che ho riascoltato con piacere. Proviene dallo sfortunato album omonimo e Dylan, nel corso degli anni, l’ha eseguita poco dal vivo - ma non raramente - sempre con buona efficacia. Anche ieri.

Highway 61 Revisited è invece una di quelle canzoni che mi sono molto piaciute a suo tempo, ma che oramai faccio un po’ fatica ad ascoltare perché troppo inflazionata. A seguire una Can’t Wait che dal vivo ci guadagna e una Thunder on the Mountain non troppo esaltante (altre volte è stata eseguita meglio).

Ballad of a Thin Man è un classico che Dylan esegue sempre in modo grandioso. Anche stavolta, con i consueti ma sempre interessanti giochi di luce perfettamente in atmosfera con la canzone, un capolavoro surreale e fortemente politico. È stata la canzone che ha chiuso il set principale ed è stata anche quella in cui il servizio d’ordine ha perso la partita contro i soliti che vogliono imporre le loro preferenze (dimenarsi davanti al palco urlando e agitando le braccia) a quelle di tutto il resto del pubblico cui impediscono la visibilità del palco (ma a loro, direte, che gliene frega? Niente, appunto). È una circostanza che si ripete a ogni concerto di Dylan cui ho assistito soprattutto negli ultimi anni e stavolta ci è andata anche bene (a Trento, per fare un esempio, era andata molto peggio).

Dopo la pausa, il concerto è ripreso con una trascinante Like A Rolling Stone e, dopo Jolene (una canzone modesta che resta tale anche dal vivo), si è concluso alla grande con All Along the Watchtower, una canzone che, con qualunque arrangiamento venga suonata, resta magistrale.

La band ha offerto una prestazione professionale, senza troppi fronzoli: niente di cui scrivere a casa, ma neanche male. Continuo ad apprezzare George Recile come batterista, puntuale e scatenato al momento giusto. Stu Kimball e Donnie Herron fanno il loro lavoro con una certa precisione, ma non aggiungono mai molto colore al suono (come facevano, per andare a qualche esempio di media lontananza temporale, J.J. Jackson e Bucky Baxter). Charlie Sexton, rinomato chitarrista, mi è sembrato piuttosto in ombra: qualche assolo di buon livello e un solido professionismo, ma niente di travolgente. Però è solo una mia impressione (l’ultimo chitarrista dylaniano che mi ha impressionato molto positivamente è stato Fred Koella, che è durato ahimè troppo poco).

Anche per quest’anno è fatta: ogni volta penso che sia l’ultima perché il buon vecchio Bob avrebbe tutto il diritto a una pensione dai concerti intensivi (ma non dagli album, quella non gliela possiamo concedere) e se vorrà smettere non si potrà certo fargliene una colpa. Ogni volta però non è mai l’ultima e mi auguro che sia così anche stavolta.

giovedì 10 giugno 2010

Horror Frames: It’s Alive


Un richiamo anche per la nuova puntata della rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies. La puntata di questa volta è dedicata ai bambini terribili del cinema horror con particolare attenzione puntata sul remake di Baby Killer, diretto da Josef Rusnak che, più di dieci anni fa, aveva osato portare sullo schermo il venerabile romanzo di Daniel F. Galouye Simulacron-3, un romanzo che mi colpì molto quando lo lessi da ragazzino e che devo dire ha lasciato un’influenza notevole nella letteratura e nel cinema fantascientifico successivo. Io stesso, in un’occasione, pur senza ricordarmi che romanzo fosse né chi l’aveva scritto, l’ho omaggiato in una mia storia, proprio perché mi aveva lasciato una traccia indelebile (vabbe’, non facciamola così grave: semplicemente, me ne ricordavo alcuni pezzi).

Se il remake di Baby Killer, It’s Alive, sia o non sia da me considerato valido e all’altezza del rinomato originale potete leggerlo qui. Per il resto, basta ricordare che anche Larry Cohen non era stato poi del tutto rispettoso della sua opera quando aveva diretto i due sequel, che, assieme al capostipite, potete ovviamente trovare nel mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego).

Qui sopra una scena del film, con Bijou Phillips, figlia di John Phillips (The Mamas & The Papas) e Genevieve Waite (qualcuno si ricorda del cult della swinging London Joanna?).

Flani (6): UFO allarme rosso... attacco alla Terra!


Questo è uno di quei film - che tra l’altro tecnicamente non può neanche definirsi film quanto piuttosto un assemblaggio di telefilm - che per quanto non memorabile in assoluto potrebbe aprire qualche squarcio di nostalgia in chi guardava la televisione nei primi anni ’70. Questo perché all’epoca la serie televisiva UFO fece piuttosto sensazione nell’ambito del palinsesto per il pubblico giovanile. Inoltre, la nostalgia è una di quelle cose che ti fa provare qualcosa che assomiglia all’ammirazione incondizionata anche nei confronti di qualcosa che se lo guardassi ex novo ti sembrerebbe una schifezza.

Rigorosamente in bianco e nero - perché la Tv italiana lo era (e in questo senso va letto il richiamo sensazionalistico nel flano al fatto che si tratta di un “eccezionale film a colori che non vedrete mai in Tv”) - UFO aveva portato sul piccolo schermo nostrano la fantascienza che non ne era abituale frequentatrice. Prodotta da Gerry e Sylvia Anderson - la coppia che ci avrebbe dato Spazio: 1999 e ci aveva già dato quei curiosissimi telefilm sf con i pupazzi (Stingray) - non era poi così male per l’epoca e aveva introdotto personaggi curiosi come il comandante Straker, dotato di un’incredibile parrucca da Beatle platinato. Lo interpretava Ed Bishop, onesto attore dalla lunga carriera fatta soprattutto di particine, ma anche in film importanti come Lolita e 2001 di Kubrick.

Come sarebbe successo per altri telefilm di successo (Attenti a quei due, per esempio), la distribuzione italiana aveva colto l’occasione per impacchettare più telefilm arrivando così al metraggio di un film e sfruttando l’onda per raggranellare un po’ di facili incassi. Il preambolo del flano parla addirittura di 600.000 spettatori al terzo giorno di programmazione: probabilmente contando anche gli alieni. Altri tempi, altre frasi.

La cosa curiosa è che come regista del film veniva indicato Summers Tomblin Frankel, che in effetti, giustamente, era la somma dei cognomi dei registi dei singoli episodi (Jeremy Summers, David Tomblin, Cyril Frankel). Invece alcuni recensori dell’epoca l’avevano preso per un regista singolo con tre nomi. Non male.

Per la cronaca, il flano è datato 1° maggio 1973. Sarebbero seguiti altri “film” della serie UFO perché in effetti, al di là delle esagerazioni, il successo di pubblico c’era stato. La serie televisiva invece è stata prodotta dal 1970 al 1973. Mi ricordo anche - e dovrei averne ancora uno da qualche parte - i fumetti inglesi tratti dai telefilm e pubblicati in Italia nel settimanale Qui Giovani, ultima incarnazione di un famoso settimanale musicale (Giovani) dell’epoca beat: da Mal dei Primitives a Straker il passo non è poi così lungo. Erano fumetti disegnati niente male, nello stile pittorico tipico di certo fumetto inglese, da Dan Dare a soprattutto L’impero dei Trigan (di Don Lawrence e Mike Butterworth), colonna del Vitt della decadenza (di pubblico).

giovedì 3 giugno 2010

Saw VI


Saw VI è arrivato sui nostri schermi e su MyMovies lo recensisco e lo approfondisco. Se volete leggere, andate ovviamente dove vi porta il link (sarebbe un bel titolo, "Va dove ti porta il link") nelle rispettive parole. Non aggiungo altro perché ho già detto tutto in quella sede. Perciò, se vi interessa, buona lettura.

Nella foto qui sopra, Peter Outerbridge in una scena di Saw VI.