mercoledì 24 ottobre 2012

Red Krokodil di Domiziano Cristopharo

All’inizio, una lunga e dettagliata didascalia introduttiva ci spiega cos’è il “krokodil”, una nuova droga sintetica a base di codeina e vari altri ingredienti. L’origine, ci viene spiegato, è localizzata in Russia, ma la droga sta ormai colpendo anche l’Europa occidentale. Gli effetti sull’organismo sono devastanti: è una droga dall’alta dipendenza e chi la usa difficilmente sopravvive più di due o tre anni. Il suo nome deriva dalla particolare alterazione della pelle che si produce nell’area in cui si sono praticate le iniezioni. Insomma, roba tosta. Da evitare come la peste. Il protagonista di questo film - Red Krokodil, la nuova opera di Domiziano Cristopharo - la pensa invece diversamente. 

Cherepovets, Russia. Una persona vive nel più completo degrado, completamente focalizzato sulla droga. La sua voce fuori campo spiega come memoria e senso della realtà siano andate perdendosi nel vortice di una dipendenza a cui non riesce a sottrarsi. Giorno dopo giorno, iniezione dopo iniezione, la droga altera le sue sensazioni, devasta e trasforma il suo mondo, verso un abisso senza fondo.


Questa volta - dopo la visionarietà e il surrealismo di House of Flesh Mannequins e Museum of Wonders - Cristopharo cambia decisamente registro e punta alla sgradevolezza come mezzo per descrivere senza remore l’autodistruzione di una persona. Un solo personaggio in scena per tutto il film, una fotografia (dello stesso Cristopharo) nitida sino all’iperrealismo, un mondo tutto chiuso in se stesso, in un delirio che non lascia spazio a incursioni esterne, se non nella forma di luci improvvise, rumori, colpi senza spiegazione o significato per il protagonista, perso nella propria confusa irrealtà. Con il tempo, gli squarci si fanno più ampi e le allucinazioni sempre più vivide e terribili, si intrecciano ai ricordi d’infanzia. L’attaccarsi patetico del protagonista al piccolo coccodrillo di peluche che gli fu regalato dalla mamma è un tocco di approfondimento psicologico, ma è soprattutto l’amara simbologia di un illusorio salvagente che fa acqua.


Interamente ambientato nell’appartamento del protagonista, il film si apre però improvvisamente in qualche squarcio onirico dove la riconquista della natura ha il sapore di una scoperta tardiva e meravigliosa, ricordo di un mondo perduto, rivisitato anche e soprattutto attraverso sensazioni tattili. L’uso a più riprese della voce fuori campo per spiegare lo stato d’animo del protagonista è un espediente che fa chiarezza (e a volte è necessario), ma è forse abusato e sembra quasi segnalare una mancanza di fiducia nella forza espressiva delle immagini, che, da sole, spiegano più di quanto dicano le parole.


Non si può dire che sia un film pro o contro la droga: sicuramente, la visione di Red Krokodil ne sconsiglia vivamente l’uso mostrandone crudamente le terribili conseguenze, ma la sensazione è che non sia questo (o solo questo) lo scopo per cui è stato realizzato. è piuttosto la descrizione di un annichilimento, della distruzione di un essere umano da parte di se stesso, incurante di ogni e qualsiasi senso possa avere la vita. L’abnorme e devastato sviluppo del mondo interiore ha generato mostri. Le porte che si aprono, per lui, non sono quelle della percezione, o lo sono solo ingannevolmente, con le allucinazioni sull’occhio in cui si guarda e che lo guarda o gli incontri con un altro se stesso. Quelle che si aprono sono le porte dell’annientamento, dell’annullamento, con il desiderio, espresso dal protagonista, di essere qualunque cosa tranne se stesso. L’insignificanza dell’esistenza e la spinta a una trasfigurazione su un piano diverso, impossibile.


Non è un film facile da sopportare, soprattutto per la crudezza esplicita delle immagini e della tematica, ma talvolta anche per la dilatazione dei tempi, in relazione alla forza del racconto e alla limitatezza degli ambienti. Però è un’altra testimonianza della sensibilità di Cristopharo - che si conferma uno dei più interessanti autori del cinema indipendente - e della sua inquieta autorialità, rivolta all’esplorazione di recessi lasciati dai più nell’oscurità. Il suo percorso sembra indirizzato a un progressivo abbandono di ogni piacevolezza - anche e soprattutto di quelle di tipo exploitativo che fornivano un elemento, quello erotico, consistente in House of Flesh Mannequins - per abbracciare un’austerità severa, rotta solo da qualche ritorno visionario (gli incubi, l’uomo con la maschera da coniglio, le delirianti simbologie religiose) sempre caratterizzato da una nitidezza allucinata e da un rigore inconsueto. Prova coraggiosa e valida del protagonista Brock Madson. Notevole e appropriata la musica di Alexander Cimini.


L’ultimo fotogramma, con una visione serena del bosco, è micidiale nel segnalare l’assenza.

2 commenti:

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Desidero ringraziare Domiziano per la preziosa opportunità a me concessa.
Non per ultimo ringrazio Salvagnini per le lusinghiere parole dedicate al film e anche al mio operato.