sabato 29 maggio 2010

Dennis Hopper (17 maggio 1936 - 29 maggio 2010)


Non ho l’età per aver vissuto in pieno il fenomeno Easy Rider, ma ho un’età sufficiente per averlo vissuto di striscio, appena subito dopo. Ed è un film che ho visto diverse volte al cinema in quegli anni e ogni volta mi aveva impressionato per molti motivi, credendo anche di coglierne una comunanza esistenziale, in qualche modo. È un film che, pur riconoscendone i difetti, mi è piaciuto al punto che non lo vedo da trent’anni o forse più per timore che mi sembri brutto, a vederlo adesso. Dennis Hopper, invece, l’ho visto ogni volta che potevo, anche in film modesti. Non mi interessava molto se era diventato repubblicano, mi sembrava più che altro una di quelle ironie del destino che forse celavano una presa in giro finale da parte di quel vecchio “rivoluzionario”. Avevo anche apprezzato quello strano e ambizioso pastrocchio di The Last Movie, ma avevo soprattutto apprezzato la sua indimenticabile interpretazione di Ripley in L’amico americano di Wenders. Non avevo ancora letto i libri di Patricia Highsmith, ma quando l’ho fatto Ripley mi sembrava lui, più che Alain Delon (Matt Damon lasciamo perdere: avevo già smesso di leggere la Highsmith, i Ripley li avevo già letti tutti). Ma Hopper aveva disseminato quegli anni di grandi interpretazioni in film maledetti: Velluto blu per fortuna se lo ricordano tutti, ma qualcuno si ricorda Tracks - I lunghi binari della follia? Qualcuno sì, ma non molti. Avevo anche trovato naturale la sua normalizzazione degli ultimi decenni. In fondo aveva fatto film con John Wayne, perché non tornare nella Hollywood che conta? Flashback, un film non troppo riuscito di Franco Amurri, aveva avuto il merito di dare a Hopper una parte memorabile: quella del sopravvissuto della rivoluzione controculturale, una parte ritagliata su di lui e sul suo significato come icona giovanile. Se vi capita, guardatelo. È un film che gioca contro i cliché e ha diversi momenti molto riusciti. Nella colonna sonora c’è anche una bella versione di People Get Ready di Curtis Mayfield cantata da Bob Dylan, che di Hopper era amico. Poi Hopper era stato in La terra dei morti viventi di Romero nella parte di un quintessenziale esponente del capitalismo più protervio. Ed era stato in decine di film, riuscendo ad arrivare a quello che forse aveva desiderato nella seconda (o meglio, terza) parte della sua carriera: diventare un attore come gli altri. Ma come gli altri non avrebbe mai potuto diventarlo.

Il cinema di Bob Dylan su BresciaOggi


Su BresciaOggi è comparsa a firma B.M. - che ringrazio per l'attenzione - una recensione del mio libro Il cinema di Bob Dylan, edito da Le Mani. Questo è il link per leggere la recensione. Se poi leggete anche il libro, il gioco è fatto.

martedì 25 maggio 2010

Horror Frames: My Name Is Bruce


L'oggetto della mia rubrica Horror Frames su MyMovies è stavolta un film peculiare e curioso: My Name Is Bruce. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di un documentario su Springsteen, né di un film intimista sul lato meno conosciuto di Batman. In entrambi i casi (ma soprattutto nel primo) forse avrebbe potuto essere considerato qualcosa di assimilabile all'horror, ma non mi avrebbe molto interessato.

Si tratta invece di un film spesso spassoso (bell'accostamento di parole, no?), diretto e interpretato, nel ruolo di se stesso, da quel mattacchione di Bruce Campbell, un attore che, piaccia o no (a me piaccia), caratterizza tutti i ruoli che interpreta. In più, scrive anche dei libri divertenti. Perciò, date un'occhiata anche a questo film, se volete farvi qualche risata.

Ah, dimenticavo. Il mio articolo come al solito lo trovate qui.

lunedì 24 maggio 2010

Highway 69


Oggi Bob Dylan compie 69 anni. Oltre a fargli quindi gli auguri - a distanza, certo, e senza che lui possa saperlo - c’è da fare una semplice considerazione: la creatività non ha età. Certo, nel suo caso, qualche crepa dovuta agli anni che avanzano può anche cominciare a rilevarsi e da più parti c’è chi si lamenta del ridotto spettro vocale evidenziato nei concerti di questi anni. Però se ci si guarda in giro e si vede la situazione, per restare in ambito musicale, degli artisti che erano in voga negli anni Sessanta e anche in parecchi dei decenni successivi ci si può ben rendere conto della differenza: tra sopravvissuti e dinosauri ridotti all’iterazione perpetua e alle ristampe rimasterizzate non c’è molto da apprezzare.


Bob Dylan, invece, è ancora creativo. Quello che ha fatto negli ultimi 15 anni basterebbe per una carriera, una grande carriera. E soprattutto se si tiene conto delle cose diverse da quelle musicali, che testimoniano una straordinaria voglia di cambiare e di provare cose nuove: Chronicles vol. 1 per esempio o i quadri, per non parlare di Masked & Anonymous (lo so, molti gradirebbero che proprio non se ne parlasse più, ma io la penso diversamente, come ho scritto nel mio libro Il cinema di Bob Dylan, il mio piccolo contributo al canone critico dylaniano). La creatività non ha età, ma naturalmente non tutti continuano a essere creativi. Chi continua a esserlo non ha ancora consumato per intero il suo contributo allo scibile, ha conservato gli stimoli necessari. Perciò c’è sempre qualcosa di ulteriore da aspettarsi da uno come Bob Dylan. Io almeno me lo aspetto. E se anche non arrivasse, mi farei sicuramente bastare quello che ha fatto sinora.

martedì 11 maggio 2010

Horror Frames: Book of Blood


Questa volta nella rubrica Horror Frames in MyMovies parlo (rectius, scrivo) di Clive Barker e in particolare di Book of Blood, il recente film di John Harrison. Come al solito, per leggere basta andare qui (anche se il "qui" è naturalmente sempre diverso, forse la prossima volta potrei scrivere "qua", per differenziare, oppure, essendo pur sempre un luogo virtuale lontano, anche "là" o "lì" o chissà cos'altro: da pensarci, non troppo però).

Qui (ma questo è un vero qui, inconfondibile) sopra Sophie Ward in una scena del film.

venerdì 7 maggio 2010

Hammer Films: Icons of Suspense


Generalmente non recensisco dvd in questo blog, ma, come si dice a Roma, quando ce vo’ ce vo’ (andrà scritto veramente così? chissà).

Rispetto a qualche tempo fa, il mercato dei dvd è ultimamente più avaro del genere di uscite che mi interessa (meglio così, sotto certi aspetti, sia per motivi finanziari sia di spazio), ma qualcosa di veramente notevole ogni tanto esce. Un appassionato della Hammer come me, infatti, non può che vedere di buon occhio la serie Icons of... che è stata pubblicata negli ultimi mesi. E se Icons of Horror (uscita anche da noi, anche se in formato editoriale diverso da quello americano) pescava tra film tutto sommato noti anche se sempre benvenuti, Icons of Adventure, dedicato ai film di pirati e d’avventura della Hammer, già andava a frugare tra pellicole ormai dimenticate dai più.

Il meglio però doveva ancora arrivare (ed è arrivato, altrimenti non sarei qua a scriverne) e si è materializzato, da pochissimo, in Icons of Suspense che raccoglie sei film prodotti dalla Hammer nei suoi anni più gloriosi, dal 1958 al 1963. Si tratta però di film che non si vedevano da tempo (alcuni non si sono mai visti, almeno in Italia), piccoli thriller interessanti e malevoli con l’eccezione di The Damned (da noi Hallucination), unico film diretto dal grande Joseph Losey per la Hammer e appartenente di diritto alla fantascienza.

Come chiunque sa, la Hammer, oltre che per i suoi gotici, è molto nota anche per la sua lunga serie di psycho-thriller prodotti sulla scia di Psyco. Ma in questa collezione non si va sull’ovvio e, quindi, non ci sono quei film, tranne uno: Maniac, quello meno reperibile (in italiano, con grande fedeltà di traduzione o a scelta grande mancanza di fantasia, è stato intitolato Il maniaco).

Il meglio però sono i film più rari. Uno di questi è Never Take Candy from a Stranger, che all’epoca ebbe grossi problemi con la censura britannica perché trattava - stigmatizzandolo ovviamente e fortemente - di un caso di pedofilia. Da noi si chiamava, pensate un po’, Corruzione a Jamestown.

The Snorkel (da noi Delitto in tuta nera) è un giallo piuttosto modesto, che girava per le nostre Tv private nei primi anni ’80 ma è da tempo scomparso (credo) dalla vista. Peter Van Eyck si fa sempre comunque apprezzare.

Cash on Demand è invece un ottimo thriller con Peter Cushing, diretto da Quentin Lawrence (I mostri delle rocce atomiche): anche questo è una rarità che ci permette di vedere una prova sopraffina del grande attore inglese affiancato da un ottimo André Morell (al suo fianco in alcuni Hammer horror).

Stop Me Before I KIll! (noto soprattutto come The Full Treatment) è un’altra chicca: un thriller firmato da Val Guest (ottimo regista attivo in generi diversissimi dal thriller, al bellico, all’erotico, all’horror, alla fantascienza e così via). Anche questo è un film di cui si erano perse le tracce e le si ritrova con piacere.

Tutti i film sono in bianco e nero e la confezione è spartana e priva di extra (a parte i trailer, comunque interessanti), ma il prezzo modesto e l’unicità dei film raccolti rende un assoluto must questa collezione, edita dalla Sony (il titolo completo è The Icons of Suspense Collection: Hammer Films).

Ovviamente è in inglese ed è in regione 1, ma ci sono i sottotitoli (in inglese).

martedì 4 maggio 2010

Aiuto vampiro


Non avete ancora visto Aiuto vampiro e state disperatamente cercando di capire se è il caso di farlo o no? Per la serie guardare informati, qui trovate la mia recensione e qui un approfondimento. E fateveli bastare perché non penso che aggiungerò altro sull'argomento.

Qui sopra, Jessica Carlson, la ragazza scimmia (solo nel film, però).

lunedì 3 maggio 2010

Far East Film, Shintoho e altro


Nell’ambito della consueta eccellenza nella scelta dei film, ogni tanto il Far East Film - appena conclusosi a Udine - riesce a piazzare delle rassegne assolutamente eccezionali. Qualche anno fa si era trattato della Nikkatsu, stavolta (sempre a cura di Mark Schilling) è stato il caso di un’altra casa di produzione giapponese, la Shintoho, che nella sua vita relativamente breve ha sfornato parecchi film interessanti. Il fatto che si trattasse di film spesso noir, horror o di exploitation naturalmente aiuta a renderli anche estremamente godibili e user-friendly, anche per la loro caratteristica brevità (un giorno mi lancerò in un peana a favore di film brevi: come detesto i filmoni da tre ore... li trovo quasi un affronto personale. 70 o 8o minuti, magari 90... quanto si può dire o mostrare con queste lunghezze? Praticamente tutto).

Uno dei maggiori registi della Shintoho - anzi, uno che è diventato regista con la Shintoho - è stato Teruo Ishii, grande maestro dell’exploitation (e non solo) giapponese. Di Teruo Ishii ho brevemente parlato in questo post, in occasione dell’uscita del mio articolo su di lui in Segnocinema. Quindi alcuni dei film presentati a Udine li avevo già visti, ma ce n’erano altri che mi mancavano e che erano di assoluta rarità. Tra questi, il coloratissimo e movimentato
Queen Bee and the College Boy Ryu, una bizzarra glorificazione della yakuza, con il saggio boss interpretato dal grande Kanjuro Arashi (se non li avete visti, guardatelo nei film della serie Abashiri Prison di Ishii, dove interpreta un vecchio e potentissimo assassino) e la coppia quasi fissa degli Ishii del periodo: la bravissima Yoko Mihara e lo spigliato Teruo Yoshida (un decennio dopo protagonista dell’assoluto capolavoro di Ishii, Horrors of Malformed Men). Flesh Pier è invece un noir in bianco e nero nel quale Ishii rimesta nel torbido e nel sordido con grande stile e abilità. Women of Whirlpool Island è un melodramma noir a tutto tondo ambientato nel sottobosco della malavita che testimonia ancora una volta la capacità di Ishii di rendere avvincente qualunque storia. Over the top il finale, con Yoko Mihara morente - donna costretta al malaffare dalle circostanze - che, sullo sfondo di un acceso tramonto, all’amore della sua vita (Teruo Yoshida) che gli dice di non avere più interesse nella vita se lei morirà, replica che invece lui dovrà sopravvivere perché altrimenti non resterebbe più nessuno a ricordarla. Roba da Sirk. Solo più deviata e malata.

Ma un altro grande regista della Shintoho è stato Nobuo Nakagawa, un regista che merita una riscoperta globale anche da noi. Tra gli altri, a Udine è stato mostrato uno dei suoi migliori horror,
Ghost Story of Yotsuya (qui sopra un'immagine dal film), storia spettrale tra samurai in disgrazia e novelli Jago cattivi consiglieri che dimostra come non sia il caso di compiere gesti irreparabili per una cosa volatile come l’amore. Mago del colore e abilissimo a creare atmosfere allucinate, Nakagawa è anche regista di un classico dell’horror giapponese (non mostrato a Udine in questa occasione): Jigoku, che consiglio senza riserve.

Tra gli altri film della Shintoho, una menzione è il caso di riservarla al curioso
Bloody Sword of the 99th Virgin, uno strano ma avvincente mélange di avventura, thriller, exploitation e horror: tra vergini da sacrificare, antiche religioni pagane e vecchie malefiche, il tempo passa in un lampo.

Infine, giusto una segnalazione per qualcuno degli horror contemporanei presentati al Far East: tra tutti, mi è piaciuto in particolare
Dream Home che recupera la vecchia e perduta cattiveria di certi horror di Hong Kong di qualche decennio fa. Diseguale ma interessante il film a episodi Phobia 2 e potenzialmente notevole - ma un po’ irrisolto - il coreano Possessed che avrebbe potuto essere un nuovo Rapture. Ne riparlerò prima o poi.