martedì 29 gennaio 2013

Val Lewton - Il giardino delle ombre di Marco Chiani

Val Lewton è una figura chiave, pur nella sua marginalità, nella storia del cinema e la sua memoria va coltivata con cura e dedizione in un mondo che, naturalmente, tende a dimenticare. Era “solo” un produttore, non ha mai diretto un film, però la sua personalità permeava a tal punto i film che produceva da renderlo di fatto il loro vero autore, pur senza voler con questo sminuire il ruolo non secondario svolto dai registi di cui si è servito, alcuni dei quali - Jacques Tourneur e Robert Wise in testa - erano dei veri maestri.

I film di Lewton hanno introdotto un concetto nuovo di orrore. Sono opere sorprendentemente adulte, complesse, ricche di riferimenti a filosofia e psicanalisi, largamente anticipatrici anche se ben poco seguite nelle loro linee fondamentali, proprio perché particolarmente sofisticate in un genere che, nel suo corpus principale, privilegia la semplicità e la commerciabilità.

Marco Chiani dedica a Lewton un libro, Val Lewton - Il giardino delle ombre (Profondo Rosso, 2012, 256 pagine, € 25), analizzandone, film dopo film, la sua breve, ma intensa, carriera e delineandone la parabola creativa conclusasi con una morte prematura cui non devono essere state estranee le delusioni e i contrasti con un establishment produttivo che gli lasciava spazio e libertà solo se e fin quando generava utili. E che Lewton sia riuscito a generarne pur con opere così cupe, intense e pessimiste è uno di quei felici misteri che la qualità da sola non può spiegare. Il libro è agile ma non superficiale, scritto in modo scorrevole e ricco di riferimenti e approfondimenti: una lettura dotta e piacevole che svolge in pieno il ruolo che un critico, in fondo, dovrebbe cercare di avere, quello di dare al lettore riferimenti, contesto e interpretazioni valutative spingendolo, soprattutto, a vedere o rivedere i film, a propagare così la conoscenza diretta dell’oggetto dell’analisi. Perché Lewton è un autore unico che va conosciuto per quanto i suoi film - che non hanno perso nulla con il passare degli anni e anzi si rivelano sempre più moderni - possono dare (e dire) ancora oggi.

Completano il libro, oltre alla mia introduzione, una prefazione di Dario Argento, due interventi di Luigi Cozzi (un lungo articolo sulle principali attrici lewtoniane e una divertente e un po’ sfrontata reminiscenza sulla sua attività di distributore lewtoniano) e altri interventi di Antonio Fabio Familiari (sui registi formatisi alla scuola di Lewton e sull’eredità lasciata, nel cinema, da Lewton) e di Christian Oddos (su Jacques Tourneur).


Apprezzabile anche la cura grafica e la qualità delle molte illustrazioni in bianco e nero.

sabato 19 gennaio 2013

Something else on the Rec saga

Come gli assassini dei film gialli di una volta sono tornato sul luogo della recensione di cui al post precedente e ho scritto un lungo approfondimento sull'insieme della saga di Rec, una tra le più interessanti del nuovo millennio e non solo perché appartiene a una cinematografia diversa da quella americana.

Chi vuole leggere il mio articolo, che si trova su MyMovies, può seguire questo link.

Buona lettura. La signora di sopra è, come l'altra volta, l'impavida Leticia Dolera.

lunedì 14 gennaio 2013

Rec 3 - La genesi

La franchise spagnolo ha sfornato il terzo episodio che presenta diverse novità, la prima delle quali è che è firmata alla regia dal solo Paco Plaza.

Naturalmente, non ho ptuto fare a meno di vederlo e se volete leggere la recensione che ho scritto per MyMovies, non avete che da andare qui.

Quella sul manifesto è Leticia Dolera, che se la cava niente male.

lunedì 7 gennaio 2013

P.O.E. Project of Evil

Gli esiti dell’interessante P.O.E. Poetry of Eerie hanno generato un altro omnibus ispirato ai racconti di Poe, questa volta intitolato, per restare nel campo degli acronimi, P.O.E. Project of Evil. Come nel caso del film precedente, anche stavolta gli esiti, com’è proprio e inevitabile in un film a episodi, sono diversi, ma, più dell’altra volta, sembra cogliersi una spinta verso la ricerca espressiva pura piuttosto che verso la comunicativa, anche se non mancano le eccezioni più disponibili verso lo spettatore comune e in ogni caso la tendenza in sé non è da intendersi in senso negativo.

Il primo episodio è Il pozzo e il pendolo di Donatello Della Pepa, nel quale un uomo si ritrova da solo in una stanza completamente bianca. Sgomento, l’uomo cerca invano qualcun altro, una via d’uscita. Misura il luogo, si infuria, riflette, sporca il bianco immacolato con il suo sangue, dorme sperando inutilmente in un risveglio migliore. Qualcuno lo tiene d’occhio su un monitor: è la cavia di un esperimento. Un buco nero si apre sul pavimento, sempre più ampio e minaccioso, profondissimo: è il “pozzo”. Il pozzo e il pendolo è uno dei più famosi racconti di Poe ed è stato oggetto di diverse traduzioni cinematografiche - quelle di Corman e di Stuart Gordon sono forse le più famose -  che hanno preferito esteriorizzare gli incubi di Poe privilegiandone il contorno (inventato nel caso di Corman, tratto dalla periferia del racconto - l’inquisizione - in quello di Gordon) e mantenendo il micidiale macchinario di morte quale chiaro riferimento allo scrittore. In questo caso, l’enfasi è sulla solitudine dell’individuo di fronte all’orrore, proprio come avveniva nel racconto, anche se l’abisso nel quale guarda impaurito il protagonista sembra provenire più da Nietzsche che da Poe. Azzeccata - e anche cinematograficamente più funzionale - l’ambientazione, invece che nel buio, in un bianco abbacinante. Stilisticamente l’esercizio convince, ma narrativamente è poco incisivo, con una chiusa non all’altezza.


Il secondo episodio è Solo di Angelo e Giuseppe Capasso. Un uomo si risveglia legato a una sedia nello scantinato della fabbrica di sua proprietà, mentre un tizio - che lavora per lui proprio in quella fabbrica ed è stato gratificato di un nomignolo irridente - lo sorveglia sornione e si rifiuta di liberarlo. L’industriale, inquieto e arrabbiato, gli chiede cosa voglia da lui, ma scopre che le cose non sono per nulla semplici: rancore, invidia e risentimento sono montati negli anni, soprattutto a causa di una donna, Sara, attuale moglie dell’industriale. Il gioco psicologico tra la vittima e il carnefice è condotto attraverso dialoghi talvolta didascalici e non sempre credibili, anche per un’enfasi recitativa che non sempre aiuta. Il tentativo è quello di spiazzare lo spettatore, ma gli sviluppi narrativi conducono a un colpo di scena un po’ forzato e che si annuncia con troppa evidenza.


Il terzo episodio è Perdita di fiato di Edo Tagliavini. Giovanni va a trovare lo spavaldo Francesco, un attore (e pornostar) braccato dall’Ufficio Imposte, nella sua ottava casa e lo avvisa di non giocare con Manero perché è un tipo pericoloso. Con l’occasione, Giovanni informa anche Francesco che la sua attività come pornostar gli ha fatto perdere un ruolo “normale” cui aspirava. Francesco non la prende bene e, durante una performance porno, si ritrova letteralmente senza fiato, senza più respiro. In bianco e nero (tranne qualche sprazzo a colori) e prevalentemente muto, con le didascalie in luogo dei dialoghi, questo episodio cerca di creare un’atmosfera irreale, spiazzante e quietamente ossessiva, riprendendo il consistente lato grottesco ben presente in Poe. La curiosa trivialità del contesto rende bizzarra - ai limiti dell’insensato - la carneficina finale, tramutandola in una sorta di barzelletta crudele. Curiosa la ricerca stilistica che, in fondo, rende tutti i personaggi - non solo il protagonista (che infatti, in qualche modo, riacquista sonorità proprio una volta perso il fiato) - senza parole.

 

Il quarto episodio è I delitti della Rue Morgue di Alberto Viavattene. Dopo una scopata con due donne, un uomo le paga e se ne va. Le donne rimangono da sole nella loro stanza. Una delle due si fa una pera e, di conseguenza, va a vomitare in bagno. Nel mentre, la sua compagna è aggredita da un essere scimmiesco che la strazia abusandone sessualmente. La dopata, rientrando, è sconvolta dalla vista, ma lo è ancora di più quando lo scimmione rivolge su di lei le sue attenzioni. Immerso in fascinosi colori baviani e ricco di giochi di luce ricercati ed efficaci, il racconto assume toni da incubo realistico, rievocando liberamente uno dei più celebri racconti di Poe e cercando di coglierne nuovi significati mutandone la chiave di lettura. Elegante e crudele, è chiuso da una lunga scena a camera fissa che trasmette la desolazione e l’incertezza che seguono al massacro.


Il quinto episodio è Il cuore rivelatore di Nathan Nicholovitch. India. Un barbone, dopo un periodo di vagabondaggio nella miseria, si risistema e, tagliati barba e capelli, riacquisisce un aspetto più o meno urbano. Ma non basta. Privo di dialoghi e raccontato unicamente con le immagini, l’episodio dipana una torva parabola (probabilmente) sulla ricerca di un’improbabile redenzione. La narrazione - non troppo decifrabile, almeno da parte mia - non è scevra da sgradevolezze estetiche accoppiate a immagini affascinanti creando un contrasto visivo che non si dimentica. Criptico, a tratti reso interessante dall’ambientazione esotica. 


Il sesto episodio è Il metodo del Dott. Catrame e Prof. Piuma di Domiziano Cristopharo (autore del quale ho già più volte parlato in questo blog). Elbasani, Albania, 1977. Poe, atteso, arriva in una strana clinica psichiatrica dove un uomo elegante e leggermente sinistro nella sua cortese cordialità lo accoglie, rivelandogli d’averlo visto in un sogno, con il volto devastato e pieno di vermi. Le grida degli internati si intromettono nel dialogo tra i due, ma la discussione procede tranquillamente, incentrata sul nuovo metodo di cura usato in quella sede. Ma a Poe è stato servito un bicchiere di Amontillado, un vino che può avere strani effetti collaterali in chi non lo beve abitualmente. Girato in un rigoroso bianco e nero, l’episodio riprende l’originaria riflessione del racconto (uno dei meno cinematograficamente frequentati: è il caso solo di ricordare comunque la buona versione di Juan Lopez Moctezuma, The Mansion of Madness) sulla confusione tra pazzia e normalità e sulla sostanziale contiguità delle due condizioni, ponendo, con un’interessante asincronia temporale, al centro della vicenda lo stesso Poe, visto come elemento di una improbabile normalità, l’unico cioè a trovare strano quanto sta succedendo. Ma è proprio questo uno dei punti di maggiore interesse perché la parte razionale di Poe è messa di fronte ai propri incubi, dei quali Poe stesso è protagonista in uno sdoppiamento fisico e caratteriale che simboleggia l’ambivalenza non solo sua, ma della natura umana. La buona recitazione - in particolare di Virgilio Olivari e di Dario Biancone nel ruolo di Poe - e un certo respiro narrativo assecondano le inquietudini suscitate dal racconto. Azzeccata anche l’ambientazione modernista e quasi techno, spoglia il giusto per rendere con efficacia la spettrale e spersonalizzante asetticità del luogo di (non) cura. 

Il settimo episodio è La sepoltura prematura di Giuliano Giacomelli. Una persona si ritrova seppellita viva all’interno di una bara. Con un accendino rischiara la sua solitudine e riguarda una foto che lo ritrae assieme a una donna, la sua donna. Sente dei rumori, degli sballottamenti e chiede invano d’essere fatto uscire. Poi cerca disperatamente da sé una via di fuga. La situazione di partenza è ormai prototipica, però conduce a uno sviluppo interessante e a suo modo spiazzante, che rimanda simpaticamente agli horror di qualche tempo fa e non delude. 

Dedicato allo spettatore amante delle sperimentazioni più che dell’horror puro e semplice, il film contiene comunque abbastanza per incuriosire e interessare entrambe le tipologie. 


Le immagini appartengono agli episodi I delitti della Rue Morgue e Il metodo del dott. Catrame e Prof. Piuma e sono tratte dal profilo Facebook del film, che vi invito a visitare.