C'è stato un periodo - un periodo durato anni e anni - in cui l'arrivo dell'estate portava sempre buone nuove per gli amanti dell'horror. Infatti, la stagione morta dell'esercizio italiano si popolava di film dell'orrore della più varia provenienza che invece generalmente faticavano a trovare posto nei mesi più lucrosi.
Generalmente si trattava di prime visioni che era possibile vedere in cinema opportunamente semivuoti: la situazione ideale per vedere un horror. La cosa mi è recentemente successa per un horror di adesso - ero il solo spettatore - ed è stato come vederlo nel salotto di casa, ma con condizioni audio/video migliori.
Il terrore viene dalla pioggia - il flano risale all'agosto 1973 - lo vidi invece in un cinema (il cinema Corso, che naturalmente non c'è più da molti anni) relativamente gremito. Il film ebbe infatti un discreto successo: capitava anche allora che ci fossero i cosiddetti sleeper, quei film su cui non si puntava, ma che per le loro qualità emergevano in qualche misura coaugulando interesse e generando discreti incassi. Lo stesso sarebbe successo, per citarne uno, per Horror Express. E cito Horror Express perché interpretato dalla stessa grande coppia di Il terrore viene dalla pioggia: Christopher Lee e Peter Cushing. Potevi star certo: se c'erano loro due (o anche uno solo di loro), valeva sempre la pena di vedere un film (anche solo per vedere loro, naturalmente).
Il terrore viene dalla pioggia - di cui parlo ovviamente nel mio Dizionario dei film horror a cui rimando per maggiori dettagli - è un film che vi consiglio assolutamente di vedere, se vi capita. E se non vi capita, cercatelo. Il regista è Freddie Francis: non sarà come Terence Fisher, ma quando azzeccava il film era un grande. E in Il terrore viene dalla pioggia non ha sbagliato quasi niente. Per cui, in segno di ammirazione, doppio flano.
domenica 28 dicembre 2014
mercoledì 10 dicembre 2014
Kurt Vonnegut, Letters
Kurt Vonnegut è il mio scrittore contemporaneo preferito (è morto nel 2007). Non dico che sia il migliore in assoluto perché non ho letto tutti gli scrittori contemporanei né (per quanto ciò possa sorprendere) intendo leggerli. È uno dei pochi autori di cui possa dire d’aver letto tutto. E non ha scritto poco. Per fortuna, aggiungo. È stato una delle tre o quattro grandi influenze su di me (e accetto battute sugli effetti pratici di questa influenza sulla mia modesta produzione: in ogni caso non è stata colpa sua).
Una delle cose che più mi piacciono dei romanzi di Vonnegut sono le digressioni personali che sconfinano dalle trame e si aprono improvvise a riflessioni solo apparentemente ultronee e comunque molto interessanti e rivelatrici. Proprio per questo ho anche molto apprezzato i suoi libri non di narrativa, che raccoglievano testi sparsi, discorsi, conferenze e cose del genere. Palm Sunday, per esempio.
Quel Vonnegut arguto, brillante e spesso amaro non solo capace di discutere su tutto ma anche desideroso di farlo è ben presente in un libro che ho scoperto per caso fosse uscito e racchiude un’ampia scelta delle molte lettere che lo scrittore americano ha scritto nella sua lunga vita. Il libro è Kurt Vonnegut - Letters, Delacorte Press, 2012, 428 pagine (per il momento solo in inglese, ma mi auguro che qualcuno ne faccia un'edizione italiana). Dan Wakefield - scrittore e soprattutto (per quel che qui importa) amico di Vonnegut - le ha raccolte e ordinate suddividendole per decadi e facendo precedere ciascuna decade da una presentazione che inquadra la vita di Vonnegut nel periodo. Inoltre, molto opportunamente, ha inserito, quando servivano, annotazioni informative a precedere le singole lettere spiegando chi fossero i destinatari o le persone o i fatti citati nelle lettere.
Si dispiega così nel corso degli anni un ritratto composito di un artista che ha vissuto di stenti per lungo tempo prima che, quasi improvvisamente, il suo talento venisse riconosciuto con il successo di Mattatoio 5, quando ormai Vonnegut era quasi cinquantenne. Con la necessità di mantenere una famiglia numerosa (composta anche dai tre figli della sorella morta giovane) di cui era l’unico sostentamento, Kurt Vonnegut ha fatto di tutto per sopravvivere, anche il venditore di Saab, con esiti fallimentari peraltro, in quel caso (da qui la gag in epoca tarda: Vonnegut sosteneva di non aver vinto il Nobel perché gli svedesi ancora ce l’avevano con lui per il suo fallimento con la Saab). È struggente vedere nelle lettere del periodo come, pur pervaso dal suo tipico pessimismo cosmico, non si sia mai arreso.
Ma anche nei decenni successivi, quando il successo arriva impetuoso e duraturo, non mancano problemi e amarezze, anche per questioni familiari. Soprattutto la vecchiaia che arriva inesorabile sembra un prezzo da pagare troppo alto, con il corollario di un’avvertita perdita di brillantezza creativa e la sensazione di aver fatto tutto quello che era nelle sue forze fare. Un po’, ricorda più volte, come i marinai di Mellville che in Moby Dick non dicono più niente perché hanno già speso nelle loro vite tutte le parole che avevano da dire. Emblematico è il caso del suo ultimo romanzo, Timequake, in lavorazione per anni (di fronte alla relativa rapidità degli altri esiti), con la sensazione di non avere la costanza e la capacità di rendere giustizia a un’idea che lui stesso riteneva molto brillante. E su tutto la sensazione di aver diritto a ritenere terminato il proprio compito. In una delle sue lettere degli anni '90, a proposito di un résumé della sua lunga carriera, dice che la sua sensazione era: “Per favore, adesso posso tornare a casa?”.
Ciononostante emerge anche il lato combattivo e orgoglioso di Vonnegut nelle sue lettere per rivendicare il proprio ruolo e il valore delle sue opere, soprattutto quando scrive a chi le aveva bandite dalle proprie scuole ritenendole diseducative. Così come emergono anche le sue convinzioni politiche e sociali che del resto non passano inosservate neanche nei suoi libri. Ma c'è un po' di tutto: dai consigli di scrittura alle riflessioni sul cinema e sui film tratti dai suoi libri (compresa una lettera a Jack Nicholson). Il libro è una miniera per ogni appassionato di Vonnegut e chi non è appassionato di Vonnegut dovrebbe diventarlo, ovviamente.
Una considerazione finale si impone, comunque. Questo è un tipo di libro che andrà sempre più scomparendo e purtroppo non sarà un bene, dato che ci consente di vedere un altro lato, più privato ma comunque creativo, di un autore. Però, in questi tempi di twit, sms e verba che volant, chi scrive più lettere?
Una delle cose che più mi piacciono dei romanzi di Vonnegut sono le digressioni personali che sconfinano dalle trame e si aprono improvvise a riflessioni solo apparentemente ultronee e comunque molto interessanti e rivelatrici. Proprio per questo ho anche molto apprezzato i suoi libri non di narrativa, che raccoglievano testi sparsi, discorsi, conferenze e cose del genere. Palm Sunday, per esempio.
Quel Vonnegut arguto, brillante e spesso amaro non solo capace di discutere su tutto ma anche desideroso di farlo è ben presente in un libro che ho scoperto per caso fosse uscito e racchiude un’ampia scelta delle molte lettere che lo scrittore americano ha scritto nella sua lunga vita. Il libro è Kurt Vonnegut - Letters, Delacorte Press, 2012, 428 pagine (per il momento solo in inglese, ma mi auguro che qualcuno ne faccia un'edizione italiana). Dan Wakefield - scrittore e soprattutto (per quel che qui importa) amico di Vonnegut - le ha raccolte e ordinate suddividendole per decadi e facendo precedere ciascuna decade da una presentazione che inquadra la vita di Vonnegut nel periodo. Inoltre, molto opportunamente, ha inserito, quando servivano, annotazioni informative a precedere le singole lettere spiegando chi fossero i destinatari o le persone o i fatti citati nelle lettere.
Si dispiega così nel corso degli anni un ritratto composito di un artista che ha vissuto di stenti per lungo tempo prima che, quasi improvvisamente, il suo talento venisse riconosciuto con il successo di Mattatoio 5, quando ormai Vonnegut era quasi cinquantenne. Con la necessità di mantenere una famiglia numerosa (composta anche dai tre figli della sorella morta giovane) di cui era l’unico sostentamento, Kurt Vonnegut ha fatto di tutto per sopravvivere, anche il venditore di Saab, con esiti fallimentari peraltro, in quel caso (da qui la gag in epoca tarda: Vonnegut sosteneva di non aver vinto il Nobel perché gli svedesi ancora ce l’avevano con lui per il suo fallimento con la Saab). È struggente vedere nelle lettere del periodo come, pur pervaso dal suo tipico pessimismo cosmico, non si sia mai arreso.
Ma anche nei decenni successivi, quando il successo arriva impetuoso e duraturo, non mancano problemi e amarezze, anche per questioni familiari. Soprattutto la vecchiaia che arriva inesorabile sembra un prezzo da pagare troppo alto, con il corollario di un’avvertita perdita di brillantezza creativa e la sensazione di aver fatto tutto quello che era nelle sue forze fare. Un po’, ricorda più volte, come i marinai di Mellville che in Moby Dick non dicono più niente perché hanno già speso nelle loro vite tutte le parole che avevano da dire. Emblematico è il caso del suo ultimo romanzo, Timequake, in lavorazione per anni (di fronte alla relativa rapidità degli altri esiti), con la sensazione di non avere la costanza e la capacità di rendere giustizia a un’idea che lui stesso riteneva molto brillante. E su tutto la sensazione di aver diritto a ritenere terminato il proprio compito. In una delle sue lettere degli anni '90, a proposito di un résumé della sua lunga carriera, dice che la sua sensazione era: “Per favore, adesso posso tornare a casa?”.
Ciononostante emerge anche il lato combattivo e orgoglioso di Vonnegut nelle sue lettere per rivendicare il proprio ruolo e il valore delle sue opere, soprattutto quando scrive a chi le aveva bandite dalle proprie scuole ritenendole diseducative. Così come emergono anche le sue convinzioni politiche e sociali che del resto non passano inosservate neanche nei suoi libri. Ma c'è un po' di tutto: dai consigli di scrittura alle riflessioni sul cinema e sui film tratti dai suoi libri (compresa una lettera a Jack Nicholson). Il libro è una miniera per ogni appassionato di Vonnegut e chi non è appassionato di Vonnegut dovrebbe diventarlo, ovviamente.
Una considerazione finale si impone, comunque. Questo è un tipo di libro che andrà sempre più scomparendo e purtroppo non sarà un bene, dato che ci consente di vedere un altro lato, più privato ma comunque creativo, di un autore. Però, in questi tempi di twit, sms e verba che volant, chi scrive più lettere?
giovedì 4 dicembre 2014
Corte del Fontego su Wikipedia
Navigando qua e là ho visto che Corte del Fontego, l'editore del mio Dizionario dei film horror, è approdato su Wikipedia, la colossale e meritoria enciclopedia libera online, con una pagina dedicata.
Mi sembra quindi giusto e opportuno segnalarvi la pagina dell'editore sull'enciclopedia: la potrete leggere cliccando qui. In questo modo potrete avere una visione d'insieme delle attività editoriali del marchio e magari trovare più di qualcosa di vostro interesse. Naturalmente, una piccola parte della storia dell'editore è costituita dalle due edizioni del Dizionario, ma proprio perché il Dizionario è una piccola parte di un tutto, il tutto è, ça va sans dire, assai più ampio e da scoprire.
Mi sembra quindi giusto e opportuno segnalarvi la pagina dell'editore sull'enciclopedia: la potrete leggere cliccando qui. In questo modo potrete avere una visione d'insieme delle attività editoriali del marchio e magari trovare più di qualcosa di vostro interesse. Naturalmente, una piccola parte della storia dell'editore è costituita dalle due edizioni del Dizionario, ma proprio perché il Dizionario è una piccola parte di un tutto, il tutto è, ça va sans dire, assai più ampio e da scoprire.
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The Perfect Husband
Come si sa, la situazione dell'horror italiano non è delle migliori ed è lontana da periodi passati più o meno gloriosi, ma certamente, in linea di massima, più gloriosi dell'attuale. Perciò è sempre da segnalare l'uscita di nuovi film, in questo caso quella di The Perfect Husband di Lucas Pavetto che esce oggi nelle sale.
Chi vuole leggere la mia recensione, deve solo cliccare qui e fiondarsi sul sito di MYmovies.
Come potete leggere meglio nella recensione, il film nasce da un mediometraggio (38') di qualche anno fa diretto dallo stesso Pavetto. Anche La madre aveva avuto una genesi simile, ma in quel caso all'origine c'era un fulminante cortometraggio di pochi minuti, mentre in questo caso il mediometraggio è di più ampio respiro e costituisce già in sé una riuscita articolata ed efficace (non che il corto generatore di La madre non fosse bello, ma non complichiamoci la vita con i sofismi). Comunque, detto questo, sorge il problema di cosa sia meglio fare per approcciarsi a una situazione del genere: vedere prima il medio e poi il lungo? Vedere prima il lungo e poi il medio? Vedere solo il medio? Vedere solo il lungo? Non vederne neanche uno? La cosa che sconsiglio assolutamente di fare è di vederli entrambi contemporaneamente, sarebbe una discreta confusione.
A parte gli scherzi, da un punto di vista critico si tratta di una situazione interessante e vi dico cosa ho fatto io: ho adottato un criterio cronologico e ho visto prima il medio e poi il lungo. Anche perché in questo modo mi è risultato più chiaro - ed è stato interessante - il lavoro di adattamento della struttura narrativa per adattare e ampliare la storia alla maggiore durata. Il consiglio per una sana visione di puro intrattenimento, però, è quello di vedere il lungometraggio in modo che le varie sorprese della storia siano libere di presentarsi senza i condizionamenti che potrebbero sorgere in chi avesse già visto il mediometraggio. Poi, chi è interessato ad andare alla ricerca delle radici del film può approfondire con la versione primigenia.
Chi vuole leggere la mia recensione, deve solo cliccare qui e fiondarsi sul sito di MYmovies.
Come potete leggere meglio nella recensione, il film nasce da un mediometraggio (38') di qualche anno fa diretto dallo stesso Pavetto. Anche La madre aveva avuto una genesi simile, ma in quel caso all'origine c'era un fulminante cortometraggio di pochi minuti, mentre in questo caso il mediometraggio è di più ampio respiro e costituisce già in sé una riuscita articolata ed efficace (non che il corto generatore di La madre non fosse bello, ma non complichiamoci la vita con i sofismi). Comunque, detto questo, sorge il problema di cosa sia meglio fare per approcciarsi a una situazione del genere: vedere prima il medio e poi il lungo? Vedere prima il lungo e poi il medio? Vedere solo il medio? Vedere solo il lungo? Non vederne neanche uno? La cosa che sconsiglio assolutamente di fare è di vederli entrambi contemporaneamente, sarebbe una discreta confusione.
A parte gli scherzi, da un punto di vista critico si tratta di una situazione interessante e vi dico cosa ho fatto io: ho adottato un criterio cronologico e ho visto prima il medio e poi il lungo. Anche perché in questo modo mi è risultato più chiaro - ed è stato interessante - il lavoro di adattamento della struttura narrativa per adattare e ampliare la storia alla maggiore durata. Il consiglio per una sana visione di puro intrattenimento, però, è quello di vedere il lungometraggio in modo che le varie sorprese della storia siano libere di presentarsi senza i condizionamenti che potrebbero sorgere in chi avesse già visto il mediometraggio. Poi, chi è interessato ad andare alla ricerca delle radici del film può approfondire con la versione primigenia.
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martedì 2 dicembre 2014
Nurse 3-D
Ogni tanto li fanno ancora i film di exploitation in forma di horror, con erotismo e gore in evidenza, e ogni tanto, ben più raramente, raggiungono le sale, magari in forma sporadica. Questo è il caso di Nurse 3-D, un film di Douglas Aarniokoski di recente uscita che vede la bella Paz de la Huerta al centro di una vicenda ospedaliera, per modo di dire, nel ruolo di un'infermiera non proprio "giusta". Come si sa, l'horror ospedaliero è quasi un sottogenere, se si considera quanti film sono stati prodotti con una tale ambientazione e, in quest'ambito, non sono mancati quelli che si sono concentrati su una professione così utile e meritoria. Questo si aggiunge al canone mantenendosi fermamente nell'alveo della dark comedy.
Chi vuole conoscere nei dettagli la mia opinione, però, deve trasferirsi qui, su MYmovies, e leggere la mia recensione.
Chi vuole conoscere nei dettagli la mia opinione, però, deve trasferirsi qui, su MYmovies, e leggere la mia recensione.
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venerdì 28 novembre 2014
CUB - Piccole prede
Forse non tutti sanno che ogni tanto i belgi, oltre alla cioccolata, fanno gli horror. E capita anche che li facciano pure bene. Nella storia dell'horror vi sono diversi esempi di film belgi di rilievo. Nel mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego) ve ne sono almeno un paio che si sono guadagnati ben quattro stelle (troppo facile che vi dica quali).
Adesso un altro regista belga, esordiente nel lungometraggio, si è inserito in questa tradizione - e anche in un'altra tradizione, quella degli horror ambientati nei boschi - con un film che è uscito ieri. Si tratta di Jonas Govaerts e il film è CUB - Piccole prede. Se volete leggere la mia recensione su MYmovies, basta come sempre che clicchiate qui.
Qui sopra Evelien Bosmans, una delle protagoniste del film, anzi direi l'unica protagonista femminile perché gli altri sono tutti maschi, grandi e piccoli.
Adesso un altro regista belga, esordiente nel lungometraggio, si è inserito in questa tradizione - e anche in un'altra tradizione, quella degli horror ambientati nei boschi - con un film che è uscito ieri. Si tratta di Jonas Govaerts e il film è CUB - Piccole prede. Se volete leggere la mia recensione su MYmovies, basta come sempre che clicchiate qui.
Qui sopra Evelien Bosmans, una delle protagoniste del film, anzi direi l'unica protagonista femminile perché gli altri sono tutti maschi, grandi e piccoli.
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martedì 25 novembre 2014
Ouija
Mi sono imbattuto cinematograficamente nella ouija board a livello di memoria conscia direi con Spiritika di Kevin S. Tenney, un filmetto di serie B senza pretese ma con più di qualche qualità, capace di generare anche una piccola franchise. Come molti sanno, la tavoletta ouija è in sostanza un gioco, ma ha ascendenze relativamente antiche e, ridendo e scherzando o anche no, viene usata per contattare lo spirito dei morti (perché per quello dei vivi basta una telefonata) o, più probabilmente, per fingere di farlo.
Ouija è un film di Stiles White di prossima uscita in Italia che ripresenta la buona vecchia tavoletta e ne ho scritto la recensione per MYmovies: se volete leggerla, basta che clicchiate qui e andiate lì (su MYmovies, cioè).
Qui sopra una corrucciata Olivia Cooke, la protagonista del film. Nel cast c'è anche Lin Shaye che già si era fatta notare con gli Insidious.
Ouija è un film di Stiles White di prossima uscita in Italia che ripresenta la buona vecchia tavoletta e ne ho scritto la recensione per MYmovies: se volete leggerla, basta che clicchiate qui e andiate lì (su MYmovies, cioè).
Qui sopra una corrucciata Olivia Cooke, la protagonista del film. Nel cast c'è anche Lin Shaye che già si era fatta notare con gli Insidious.
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mercoledì 19 novembre 2014
Il Batman cinematografico parte seconda
Come è quasi ineluttabile per qualcosa che si qualifica come parte prima, ecco la parte seconda del mio articolone sul Batman cinematografico. Però posso subito dire a scanso di equivoci che non c'è una parte terza, che pure numericamente sarebbe stata possibile, se non fosse che con la seconda siamo arrivati alla contemporaneità.
Nella prima parte infatti l'argomento è stato il Batman dei serial in bianco e nero, quello della serie televisiva pop e del film che ne è scaturito con Adam West e Burt Ward in grande spolvero, nonché il Batman burtoniano.
Nella seconda si comincia con il dittico di Schumacher - compreso il Batman per il quale George Clooney non perde occasione per scusarsi d'averlo fatto (ma in fondo lui non era male come Bruce Wayne) - per arrivare alla trilogia di Nolan e per il momento ci si ferma qui.
Il luogo è sempre il rinomato sito fumettistico Lo Spazio Bianco - che vi invito di nuovo a visitare a fondo - e per leggere l'articolo basta che clicchiate qui.
Un commento che faccio qui in esclusiva, comunque, è che il film che mi sono divertito di più a vedere da puro spettatore - e che peraltro avevo visto con grande piacere anche al cinema all'epoca della sua uscita in sala - è stato il delirante e surreale Batman di Leslie Martinson, quello con la coppia West-Ward.
Qui sopra invece Uma Thurman come Poison Ivy in Batman & Robin.
Nella prima parte infatti l'argomento è stato il Batman dei serial in bianco e nero, quello della serie televisiva pop e del film che ne è scaturito con Adam West e Burt Ward in grande spolvero, nonché il Batman burtoniano.
Nella seconda si comincia con il dittico di Schumacher - compreso il Batman per il quale George Clooney non perde occasione per scusarsi d'averlo fatto (ma in fondo lui non era male come Bruce Wayne) - per arrivare alla trilogia di Nolan e per il momento ci si ferma qui.
Il luogo è sempre il rinomato sito fumettistico Lo Spazio Bianco - che vi invito di nuovo a visitare a fondo - e per leggere l'articolo basta che clicchiate qui.
Un commento che faccio qui in esclusiva, comunque, è che il film che mi sono divertito di più a vedere da puro spettatore - e che peraltro avevo visto con grande piacere anche al cinema all'epoca della sua uscita in sala - è stato il delirante e surreale Batman di Leslie Martinson, quello con la coppia West-Ward.
Qui sopra invece Uma Thurman come Poison Ivy in Batman & Robin.
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martedì 18 novembre 2014
Il Batman cinematografico
Dopo i Fantastici 4, l'Uomo Ragno e Superman, è la volta di Batman. Come chi segue questo blog ormai sa, ogni anno, per motivi misteriosi, mi occupo delle versioni cinetelevisive dei super eroi che via via vengono omaggiati dall'emerito sito fumettistico Lo Spazio Bianco con degli special sontuosi sotto tutti i punti di vista, come direbbe Antonio Conte.
Tra i vari super eroi classici, forse Batman è quello che ha avuto miglior fortuna cinematografica avendo goduto di ben due cicli di alto livello produttivo e di una serie televisiva che all'epoca, se così si può dire, fece epoca e generò un film godibilissimo.
Ma è inutile entrare nei dettagli: se volete leggere la prima parte dell'articolone non avete che da cliccare qui e verrete proiettati nell'empireo batmaniano dello Spazio Bianco. Gli appassionati dell'uomo pipistrello troveranno pane per i loro denti non solo e non tanto per il mio articolo, ma anche per la notevole messe di materiali che compone lo speciale.
La domanda che sorgerà spontanea, naturalmente, è una sola: se questa è la prima parte significa che ce ne sarà anche una seconda? Bravi. Proprio così. E dovrebbe essere pubblicata domani, ma magari, per i più distratti, inserirò l'apposito link.
Qui sopra un'immagine dal classico film con Adam West e Burt Ward, nella sequenza in cui sono impegnati in un'esilarante e infinita corsa tra le strade della città.
Tra i vari super eroi classici, forse Batman è quello che ha avuto miglior fortuna cinematografica avendo goduto di ben due cicli di alto livello produttivo e di una serie televisiva che all'epoca, se così si può dire, fece epoca e generò un film godibilissimo.
Ma è inutile entrare nei dettagli: se volete leggere la prima parte dell'articolone non avete che da cliccare qui e verrete proiettati nell'empireo batmaniano dello Spazio Bianco. Gli appassionati dell'uomo pipistrello troveranno pane per i loro denti non solo e non tanto per il mio articolo, ma anche per la notevole messe di materiali che compone lo speciale.
La domanda che sorgerà spontanea, naturalmente, è una sola: se questa è la prima parte significa che ce ne sarà anche una seconda? Bravi. Proprio così. E dovrebbe essere pubblicata domani, ma magari, per i più distratti, inserirò l'apposito link.
Qui sopra un'immagine dal classico film con Adam West e Burt Ward, nella sequenza in cui sono impegnati in un'esilarante e infinita corsa tra le strade della città.
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venerdì 14 novembre 2014
Clown
Eli Roth è una delle personalità più interessanti dell'attuale panorama horror, anche per la ampiezza dei suoi interessi, sia come regista sia come produttore. Dai tempi di Cabin Fever ne ha fatta di strada, anche se, dal punto di vista prettamente registico, sembra un po' segnare il passo, negli ultimi anni.
Come produttore, però, si è dato piuttosto da fare ed è uscito ieri, Clown, un horror che lo vede impegnato in questa veste (la regia è stata infatti affidata a Jon Watts). Il film ripropone in grande stile la figura del clown malefico che già aveva ispirato Stephen King a suo tempo (e prima e dopo di lui diversi altri). Per leggere la mia recensione del film, vi basta cliccare qui e andare sul sito di MYmovies.
Nel cast c'è anche Peter Stormare, come sempre gigione e come quasi sempre molto efficace. Qui sopra, invece, Laura Allen e Andy Powers in una scena del film.
Come produttore, però, si è dato piuttosto da fare ed è uscito ieri, Clown, un horror che lo vede impegnato in questa veste (la regia è stata infatti affidata a Jon Watts). Il film ripropone in grande stile la figura del clown malefico che già aveva ispirato Stephen King a suo tempo (e prima e dopo di lui diversi altri). Per leggere la mia recensione del film, vi basta cliccare qui e andare sul sito di MYmovies.
Nel cast c'è anche Peter Stormare, come sempre gigione e come quasi sempre molto efficace. Qui sopra, invece, Laura Allen e Andy Powers in una scena del film.
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domenica 9 novembre 2014
La metamorfosi del male
Dopo Stay Alive e L'altra faccia del diavolo, il regista William Brent Bell torna a colpire con La metamorfosi del male, con cui cerca di rinfrescare alcuni luoghi comuni dell'horror. Se volete sapere cosa ne penso del risultato finale, non avete che da andare qui, per leggere la recensione che ho scritto per MYmovies.
La protagonista è A.J. Cook - nella foto qui sopra - che vanta un passato (non sempre brillantissimo, per la verità) nel genere risalente ai tempi di Ripper - Lettera dall'inferno, Wishmaster 3 - La pietra del diavolo e Final Destination 2.
La protagonista è A.J. Cook - nella foto qui sopra - che vanta un passato (non sempre brillantissimo, per la verità) nel genere risalente ai tempi di Ripper - Lettera dall'inferno, Wishmaster 3 - La pietra del diavolo e Final Destination 2.
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domenica 26 ottobre 2014
Il Dizionario dei film horror e Corte del Fontego (again)
Quando, in un recente post, ho segnalato la pagina del sito web di Corte del Fontego editore riguardante il mio Dizionario dei film horror, ho scordato di evidenziare una piccola cosa, che però potrebbe essere utile a qualcuno che volesse farsi un'idea più precisa di cos'è il Dizionario.
La piccola cosa è questa: se andate in fondo alla pagina in questione, potete trovare un link ("leggi l'inizio") che, se cliccato, consente di scaricare un file word contenente la "Guida alla consultazione" del dizionario (con i criteri seguiti e i parametri utilizzati per delimitare l'ambito d'indagine e altro ancora) e le schede di alcuni film, a mero titolo esemplificativo.
Basterà questo file a convincere i più riottosi ad acquistare un'opera così significativa e imperdibile? La risposta è semplice: certamente no. Però, come dicevano i romani, ad impossibilia non est disputandum (o qualcosa del genere).
La piccola cosa è questa: se andate in fondo alla pagina in questione, potete trovare un link ("leggi l'inizio") che, se cliccato, consente di scaricare un file word contenente la "Guida alla consultazione" del dizionario (con i criteri seguiti e i parametri utilizzati per delimitare l'ambito d'indagine e altro ancora) e le schede di alcuni film, a mero titolo esemplificativo.
Basterà questo file a convincere i più riottosi ad acquistare un'opera così significativa e imperdibile? La risposta è semplice: certamente no. Però, come dicevano i romani, ad impossibilia non est disputandum (o qualcosa del genere).
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sabato 25 ottobre 2014
La notte più lunga del mondo di Samuele Zàccaro
L’esame approfondito di un particolare aspetto del multiforme e sterminato mondo del cinema ha sempre rappresentato una delle modalità più interessanti - per la possibilità che possiede in nuce di raggiungere l’esaustività, essendo più ridotto l’ambito - in cui si può esprimere la critica cinematografica. I sottogeneri e i filoni specifici sono quindi un oggetto su cui ci si può esercitare proficuamente.
Con La notte più lunga del mondo - Evil Dolls Movies (Universitalia, 360 pagine, € 24,90), Samuele Zàccaro fa proprio questo dando corpo a un esame molto dettagliato della miriade di film che si sono occupati di “pupazzi, bambole e manichini”, per riprendere il sottotitolo del libro.
La quantità di film che hanno fatto questo - e cioè si sono occupati di evil dolls - è per certi versi sorprendente e, come tipico dell’horror, proviene dalle più varie latitudini (va precisato, comunque, che non solo di horror si occupa il libro). Zàccaro ne fa un ordinato dizionario, comprendendo non solo film, ma anche telefilm e cortometraggi per dare un quadro complessivo del fenomeno. Di particolare interesse è anche la prima parte del libro, che precede il dizionario e compie un’articolata disamina sul ruolo delle bambole e dei pupazzi nel cinema (non solo) di genere, con riferimenti alle ascendenze folcoloristiche e letterarie. In appendice, uno spazio è dedicato anche ai film sugli spaventapasseri, che pupazzi non sono in senso stretto, ma in fondo fanno parte della categoria perché non sono altro che simulacri inanimati (nella realtà, non nei film, naturalmente, dove invece si muovono assai) degli esseri umani, proprio come le bambole.
In quanto prevalentemente dizionario, il libro - del quale ho avuto il piacere di scrivere l’introduzione - è soprattutto di consultazione, ma si legge volentieri anche senza necessità di trovare questo o quel film e testimonia di una passione sfrenata e di una competenza raggiunta sul campo con dedizione e serietà. Perciò, chi è appassionato di bambole malefiche troverà di che divertirsi.
Con La notte più lunga del mondo - Evil Dolls Movies (Universitalia, 360 pagine, € 24,90), Samuele Zàccaro fa proprio questo dando corpo a un esame molto dettagliato della miriade di film che si sono occupati di “pupazzi, bambole e manichini”, per riprendere il sottotitolo del libro.
La quantità di film che hanno fatto questo - e cioè si sono occupati di evil dolls - è per certi versi sorprendente e, come tipico dell’horror, proviene dalle più varie latitudini (va precisato, comunque, che non solo di horror si occupa il libro). Zàccaro ne fa un ordinato dizionario, comprendendo non solo film, ma anche telefilm e cortometraggi per dare un quadro complessivo del fenomeno. Di particolare interesse è anche la prima parte del libro, che precede il dizionario e compie un’articolata disamina sul ruolo delle bambole e dei pupazzi nel cinema (non solo) di genere, con riferimenti alle ascendenze folcoloristiche e letterarie. In appendice, uno spazio è dedicato anche ai film sugli spaventapasseri, che pupazzi non sono in senso stretto, ma in fondo fanno parte della categoria perché non sono altro che simulacri inanimati (nella realtà, non nei film, naturalmente, dove invece si muovono assai) degli esseri umani, proprio come le bambole.
In quanto prevalentemente dizionario, il libro - del quale ho avuto il piacere di scrivere l’introduzione - è soprattutto di consultazione, ma si legge volentieri anche senza necessità di trovare questo o quel film e testimonia di una passione sfrenata e di una competenza raggiunta sul campo con dedizione e serietà. Perciò, chi è appassionato di bambole malefiche troverà di che divertirsi.
lunedì 20 ottobre 2014
Dracula Untold
Pochi personaggi sono stati utilizzati più di Dracula sugli schermi cinematografici ed è perciò più che naturale che si siano cercati modi diversi di proporlo, anche se, per la verità, la maggior parte delle volte ci si è appoggiati su schemi più che abusati. In questo contesto, c'è anche da dire che uno degli spunti che più hanno colpito negli ultimi decenni la fantasia degli autori è stato il retroterra storico che per primi Radu Florescu e Raymond T. McNally avevano individuato nei primi anni '70 con un libro che fece epoca, Alla ricerca di Dracula. Da allora è stato un fiorire di prologhi e flashback con Vlad l'Impalatore. Anche Coppola non mancò di servirsene, ma è stato solo uno tra molti.
Adesso esce Dracula Untold, un film diretto da Gary Shore e dotato di un bel budget, che si dedica a raccontarci le origini di Dracula intrecciandole, più o meno, con i fatti storici di Vlad Tepes. Se volete sapere cosa ne penso, potete, come sempre, andare sul sito di MyMovies, proprio qui, e leggere la recensione che ho scritto.
A margine, per chi fosse invece interessato a vedere un documentario sul Vlad storico, ricordo che esiste - e non è nemmeno troppo difficile trovarlo - In search of Dracula, diretto da Calvin Floyd: in sostanza, è una sorta di versione - in bignami - del libro che ho citato sopra e vale soprattutto per la presenza di Christopher Lee, che compare come se stesso, come Vlad e come Dracula, nientemeno.
Qui sopra invece un'immagine di Sarah Gadon, che in Dracula Untold interpreta la parte della moglie di Vlad, mentre Vlad è ben interpretato da Luke Evans.
Adesso esce Dracula Untold, un film diretto da Gary Shore e dotato di un bel budget, che si dedica a raccontarci le origini di Dracula intrecciandole, più o meno, con i fatti storici di Vlad Tepes. Se volete sapere cosa ne penso, potete, come sempre, andare sul sito di MyMovies, proprio qui, e leggere la recensione che ho scritto.
A margine, per chi fosse invece interessato a vedere un documentario sul Vlad storico, ricordo che esiste - e non è nemmeno troppo difficile trovarlo - In search of Dracula, diretto da Calvin Floyd: in sostanza, è una sorta di versione - in bignami - del libro che ho citato sopra e vale soprattutto per la presenza di Christopher Lee, che compare come se stesso, come Vlad e come Dracula, nientemeno.
Qui sopra invece un'immagine di Sarah Gadon, che in Dracula Untold interpreta la parte della moglie di Vlad, mentre Vlad è ben interpretato da Luke Evans.
mercoledì 15 ottobre 2014
6 Reels Under di David Del Valle
Sotto molte vesti - da quella del critico/storico del cinema a quella di agente e promotore, da quella di giornalista a quella di conduttore radiotelevisivo - David Del Valle ha percorso svariati decenni di cinema scrivendo diversi libri interessanti, caratterizzati dalla profonda conoscenza anche personale dell’oggetto della sua analisi. In sostanza, per motivi di lavoro e di interesse specifico sul soggetto e sull’oggetto, Del Valle ha conosciuto personalmente e intervistato (non solo, di alcuni è diventato anche agente e amico) molte delle star del cinema di genere, anche quelle che normalmente non erano colpite dalla luci dei riflettori.
Questa conoscenza diretta rende i libri di Del Valle particolarmente interessanti perché permettono di conoscere lati insoliti o, più semplicemente, “umani” di attori e attrici che siamo stati abituati a vedere sullo schermo. E Del Valle, con una scrittura piana ma non banale, è generalmente in grado di illuminare con aneddoti e ricordi la personalità degli intervistati in modo da dare al lettore l’impressione di averli conosciuti anche lui.
6 Reels Under (BearManor Media, 2012, 252 pagine, rigorosamente in inglese) è un libro che si fa legge compulsivamente, nella sua parata di volti dimenticati o indimenticabili, ciascuno dei quali con una sua storia e un suo retroterra diverso. Ci sono i capitoli che potrei definire “sereni”, dedicati a personaggi la cui sorte non è stata avversa e che Del Valle ha conosciuto bene e dei quali è diventato amico, come Barnara Steele, Martine Beswicke e Vincent Price. La lettura di questi capitoli è interessante e divertente anche per ciò che riguarda gli aneddoti cinematografici (come il ricordo, per esempio, che Martine Beswicke ha di Franco Franchi in Ultimo tango a Zagarol).
Poi ci sono i ricordi di persone che hanno avuto destini ben diversi. In questi casi - come per Robert Quarry (l’indimenticato Conte Yorga del dittico AIP) e Yvette Vickers (co-protagonista di Attack of the 50 Foot Woman) - la penna di Del Valle trova le parole giuste per rendere la desolazione e la tristezza di tramonti ben poco poetici (la sorte di Yvette Vickers è stata particolarmente amara).
Ma non mancano momenti bizzarramente weird, con ritratti vividi di comportamenti e personaggi sopra le righe e insoliti al punto da essere quasi minacciosi, pur senza perdere di vista la profonda umanità anche di questi comportamenti: magistrale, in questo senso, è il capitolo dedicato ad Aubrey Morris, attore comparso in moltissimi film, ma che rimane soprattutto celebre per una piccola ma significativa parte in Arancia meccanica.
Sentiti e significativi sono anche i ricordi di personaggi assai diversi tra loro come Forrest J. Ackerman (che con la rivista Famous Monsters of Filmland ha in sostanza creato il fandom), Dennis Hopper o gli attori ora dimenticati, ma realmente indimenticabili come Eric Portman e Reggie Nalder (attore quest’ultimo che aveva una presenza assolutamente unica). Il capitolo su Michael Gough (Konga, Gli orrori del museo nero, Dracula il vampiro e moltissimi altri, anche se gli spettatori lo ricorderanno probabilmente solo per essere stato il maggiordomo Alfred dei Batman di Tim Burton e Joel Schumacher) è delizioso e rivelatore In sostanza, una lettura non solo consigliabile, ma direi quasi necessaria per chi ama il cinema di genere e i suoi eroi, soprattutto quelli non celebrati.
Questa conoscenza diretta rende i libri di Del Valle particolarmente interessanti perché permettono di conoscere lati insoliti o, più semplicemente, “umani” di attori e attrici che siamo stati abituati a vedere sullo schermo. E Del Valle, con una scrittura piana ma non banale, è generalmente in grado di illuminare con aneddoti e ricordi la personalità degli intervistati in modo da dare al lettore l’impressione di averli conosciuti anche lui.
6 Reels Under (BearManor Media, 2012, 252 pagine, rigorosamente in inglese) è un libro che si fa legge compulsivamente, nella sua parata di volti dimenticati o indimenticabili, ciascuno dei quali con una sua storia e un suo retroterra diverso. Ci sono i capitoli che potrei definire “sereni”, dedicati a personaggi la cui sorte non è stata avversa e che Del Valle ha conosciuto bene e dei quali è diventato amico, come Barnara Steele, Martine Beswicke e Vincent Price. La lettura di questi capitoli è interessante e divertente anche per ciò che riguarda gli aneddoti cinematografici (come il ricordo, per esempio, che Martine Beswicke ha di Franco Franchi in Ultimo tango a Zagarol).
Poi ci sono i ricordi di persone che hanno avuto destini ben diversi. In questi casi - come per Robert Quarry (l’indimenticato Conte Yorga del dittico AIP) e Yvette Vickers (co-protagonista di Attack of the 50 Foot Woman) - la penna di Del Valle trova le parole giuste per rendere la desolazione e la tristezza di tramonti ben poco poetici (la sorte di Yvette Vickers è stata particolarmente amara).
Ma non mancano momenti bizzarramente weird, con ritratti vividi di comportamenti e personaggi sopra le righe e insoliti al punto da essere quasi minacciosi, pur senza perdere di vista la profonda umanità anche di questi comportamenti: magistrale, in questo senso, è il capitolo dedicato ad Aubrey Morris, attore comparso in moltissimi film, ma che rimane soprattutto celebre per una piccola ma significativa parte in Arancia meccanica.
Sentiti e significativi sono anche i ricordi di personaggi assai diversi tra loro come Forrest J. Ackerman (che con la rivista Famous Monsters of Filmland ha in sostanza creato il fandom), Dennis Hopper o gli attori ora dimenticati, ma realmente indimenticabili come Eric Portman e Reggie Nalder (attore quest’ultimo che aveva una presenza assolutamente unica). Il capitolo su Michael Gough (Konga, Gli orrori del museo nero, Dracula il vampiro e moltissimi altri, anche se gli spettatori lo ricorderanno probabilmente solo per essere stato il maggiordomo Alfred dei Batman di Tim Burton e Joel Schumacher) è delizioso e rivelatore In sostanza, una lettura non solo consigliabile, ma direi quasi necessaria per chi ama il cinema di genere e i suoi eroi, soprattutto quelli non celebrati.
lunedì 13 ottobre 2014
No Good Deed
I thriller con gli assassini suonati e seriali sono sempre di moda, per così dire. O almeno continuano a farsene. Se poi si traducono nell'invasione di una casa abitata da una donna apparentemente indifesa non fanno che rimpolpare un sottogenere nel sottogenere. Se infine vi è di mezzo la richiesta di una telefonata per chiamare il carro attrezzi state pur certi che la sensazione di déjà vu sarà fortissima (ma per vedere come una situazione del genere possa comunque essere condotta con arguzia e possa suscitare notevole tensione consiglio la visione di Lo sconosciuto alla porta, un vecchio film di Fred Walton, che poi non era altro che il seguito del suo film più famoso, quello sì un prototipo sotto molti aspetti).
Comunque, tutto questo per dire che ne sta per uscire un altro: si tratta di No Good Deed di Sam Miller e se vi interessa leggere la mia recensione, basta che andiate qui, sul sito di MYmovies. Lo interpretano Idris Elba e Taraji P. Henson, ma quella che vedete qui sopra è Kate del Castillo, che ha un ruolo di supporto.
Sam Miller ha un curriculum soprattutto televisivo, ma mi ha incuriosito vedere che ha diretto, sempre per il piccolo schermo, una relativamente recente di The Quatermass Experiment, quel super classico del fantahorror scritto dal grande Nigel Kneale che venne prodotto per la tv inglese nel 1953 e poi adattato per il grande schermo dalla Hammer (qui da noi fu intitolato L'astronave atomica del dottor Quatermass) che proprio con quel film iniziò la sua leggendaria parabola nel genere horror.
Comunque, tutto questo per dire che ne sta per uscire un altro: si tratta di No Good Deed di Sam Miller e se vi interessa leggere la mia recensione, basta che andiate qui, sul sito di MYmovies. Lo interpretano Idris Elba e Taraji P. Henson, ma quella che vedete qui sopra è Kate del Castillo, che ha un ruolo di supporto.
Sam Miller ha un curriculum soprattutto televisivo, ma mi ha incuriosito vedere che ha diretto, sempre per il piccolo schermo, una relativamente recente di The Quatermass Experiment, quel super classico del fantahorror scritto dal grande Nigel Kneale che venne prodotto per la tv inglese nel 1953 e poi adattato per il grande schermo dalla Hammer (qui da noi fu intitolato L'astronave atomica del dottor Quatermass) che proprio con quel film iniziò la sua leggendaria parabola nel genere horror.
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venerdì 3 ottobre 2014
I due volti di gennaio
Di Patricia Highsmith ho letto molto e sempre con piacere perché è stata una giallista - per quanto il termine possa essere, e certamente è nel suo caso, riduttivo - di particolare sensibilità e acume, capace di scavare nell'animo umano con lo spirito della speleologa della psiche. Il cinema si è spesso interessato alle sue trame insolite e anticonvenzionali traendone spunto per pellicole difficili da dimenticare. Se solo dico Tom Ripley si aprono cateratte nella memoria cinematografica tali da inondare di immagini e ricordi assai diversi.
Lo sceneggiatore Hossein Amini ha scelto una romanzo della Highsmith per il suo esordio cinematografico e, appoggiandosi a un cast di rilievo con Viggo Mortensen e Kirsten Dunst in evidenza (ma c'è anche Oscar Isaac che molti ricorderanno in A proposito di Davis), ha realizzato I due volti di gennaio, che sta per uscire anche da noi.
Chi vuole leggere che cosa ne penso, può cliccare qui e catapultarsi sul sito di MYmovies.
Qui sopra Kirsten Dunst (per chi non l'avesse riconosciuta).
Lo sceneggiatore Hossein Amini ha scelto una romanzo della Highsmith per il suo esordio cinematografico e, appoggiandosi a un cast di rilievo con Viggo Mortensen e Kirsten Dunst in evidenza (ma c'è anche Oscar Isaac che molti ricorderanno in A proposito di Davis), ha realizzato I due volti di gennaio, che sta per uscire anche da noi.
Chi vuole leggere che cosa ne penso, può cliccare qui e catapultarsi sul sito di MYmovies.
Qui sopra Kirsten Dunst (per chi non l'avesse riconosciuta).
venerdì 12 settembre 2014
Segnocinema 189
Il numero di Segnocinema attualmente in distribuzione - n. 189 (settembre-ottobre 2014) - è quello che come da tradizione contiene lo speciale "Tutti i film dell'anno". Quest'anno i film sono la strabiliante somma di 430 e vengono meticolosamente schedati con ordine, arguzia e acume critico. Stavolta è da segnalare che l'apparato iconografico ha avuto un significativo miglioramento e tutti i film sono corredati da una foto a colori. Insomma, qualcosa di complessivamente imperdibile: un quadro completo ed esaustivo della stagione cinematografica che non può mancare nella biblioteca di ogni cinefilo.
Eccezionalmente, questa volta ho contribuito anch'io con quattro microrecensioni, relative a The Last Exorcism, Spiders 3D, Oltre i confini del male e La stirpe del male.
Eccezionalmente, questa volta ho contribuito anch'io con quattro microrecensioni, relative a The Last Exorcism, Spiders 3D, Oltre i confini del male e La stirpe del male.
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martedì 26 agosto 2014
Liberaci dal male
Scott Derrickson ha diretto diversi horror negli ultimi anni. Si possono ricordare, ad esempio, The Exorcism of Emily Rose e Sinister. Ma anche Hellraiser V: Inferno. Questo per dire che è ormai una presenza costante nel genere e si è segnalato per una fattura più che dignitosa, anche se, devo dire, difetta un po' di personalità. O forse, più che di personalità, di originalità. Ma nell'horror l'originalità è merce rara, per cui i suoi film sono comunque da apprezzare per la serietà dell'approccio.
Adesso ne è uscito un altro, Liberaci dal male, con cui torna a tematiche demoniache. Se volete leggere la recensione che ho scritto per MyMovies, cliccate qui.
Qui sopra, il protagonista Eric Bana (è quello a sinistra) in un'immagine dal film.
Adesso ne è uscito un altro, Liberaci dal male, con cui torna a tematiche demoniache. Se volete leggere la recensione che ho scritto per MyMovies, cliccate qui.
Qui sopra, il protagonista Eric Bana (è quello a sinistra) in un'immagine dal film.
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lunedì 28 luglio 2014
Il Dizionario dei film horror e Corte del Fontego
Ogni tanto (e magari dovrei farlo ogni spesso) mi pare giusto riportare l'attenzione sul mio Dizionario dei film horror, anche perché la seconda edizione riveduta e ampliata è ancora in circolazione e chi non l'ha ancora acquistata (sembra strano - lo ripeto ancora - ma chi non l'ha acquistata è la gran parte della popolazione italiana, per non parlare degli stranieri). L'occasione è buona perché Corte del Fontego, l'editore del libro, ha un nuovo sito, molto interessante, in cui potete trovare notizie e dettagli sui suoi libri, tra i quali mi sembra più che opportuno segnalare la collana Occhi aperti su Venezia che vanta ormai decine di titoli e si è occupata di argomenti topici e di grande attualità storico-sociale-urbanistica in relazione al mitico e magico capoluogo veneto. D'altronde, non occorre che lo dica, non di solo cinema o di soli fumetti ci si può interessare se si vuole mantenere una mente sana, aperta e aggiornata.
Ma Corte del Fontego è anche, come ho detto, l'editore del Dizionario dei film horror e quindi, nel suo sito, non poteva mancare una sezione dedicata a quel valoroso librone. Se volete andare a vederla, basta che clicchiate qui.
Oltre che in libreria e nei consueti siti di e-commerce librario, naturalmente, il Dizionario dei film horror potete anche acquistarlo direttamente dall'editore, con le modalità indicate nel sito, in particolare per le regioni italiane non coperte dalla distribuzione.
Potete seguire Corte del Fontego anche su Facebook.
Ma Corte del Fontego è anche, come ho detto, l'editore del Dizionario dei film horror e quindi, nel suo sito, non poteva mancare una sezione dedicata a quel valoroso librone. Se volete andare a vederla, basta che clicchiate qui.
Oltre che in libreria e nei consueti siti di e-commerce librario, naturalmente, il Dizionario dei film horror potete anche acquistarlo direttamente dall'editore, con le modalità indicate nel sito, in particolare per le regioni italiane non coperte dalla distribuzione.
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martedì 8 luglio 2014
Ancora su Desktop
Desktop è uscito ed è possibile vederlo a questo link, che mi ha gentilmente segnalato l'autore. Dopo quello che ho scritto nel post precedente sul film mi pare quantomeno ovvio che vi inviti a dargli un'occhiata: merita.
Come dice Enrico Ghezzi, buona visione.
Come dice Enrico Ghezzi, buona visione.
La scelta sul Messaggero dei Ragazzi
Nel numero di luglio del Messaggero dei Ragazzi, storica rivista a cui ho avuto il piacere di collaborare a lungo nel secolo scorso e agli albori di questo secolo, compare una storia a fumetti che ho scritto per gli ottimi disegni di Davide Perconti, valente disegnatore bonelliano (e non solo).
Il titolo della storia è La scelta e si occupa di una questione importante e di attualità e cioè l’alcolismo giovanile, in particolare quello che riguarda gli adolescenti. Il taglio cerca di non essere didattico, ma di inserire la problematica in un contesto narrativo brillante e vivace, lasciando ai lettori l’opportunità di farsi un’idea e di valutare, appunto, una “scelta” consapevole, quale che sia.
Il titolo della storia è La scelta e si occupa di una questione importante e di attualità e cioè l’alcolismo giovanile, in particolare quello che riguarda gli adolescenti. Il taglio cerca di non essere didattico, ma di inserire la problematica in un contesto narrativo brillante e vivace, lasciando ai lettori l’opportunità di farsi un’idea e di valutare, appunto, una “scelta” consapevole, quale che sia.
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mercoledì 2 luglio 2014
Desktop di Michele Pastrello
Michele Pastrello è un giovane filmmaker indipendente autore di diversi cortometraggi molto interessanti. Di alcuni di questi (Inhuman Resources e Ultracorpo) ho già parlato in questo blog. Ora ne è in uscita un altro, Desktop, breve - quattro minuti scarsi che riescono a racchiudere molto - e fulminante.
Il film comincia con una citazione da Paulo Coelho che detta le coordinate emotive della vicenda. Le immagini livide di solitudini contrapposte in ambienti antitetici si susseguono a segnalare una ideale separazione. Il parallelo delle vestizioni per obiettivi diversi scandisce il ritmo della giornata. Il parallelo tra il caminetto virtuale e la molto concreta stufa a legna descrive invece in un istante la distanza tra l’apparenza e la realtà, tra il benessere asettico e la concreta durezza della vita vera. Anche se poi ciò che è davvero concreto e ciò che è invece virtuale si confonde con enigmatica ironia.
La sensazione che il corto trasmette è particolare, come particolare è il punto di contatto tra i due protagonisti. Un punto di contatto che rappresenta anche la sorpresa finale del racconto e ne chiude in modo esemplare e immaginifico la parabola emozionale.
Pastrello mostra una notevole capacità di focalizzarsi sui dettagli per raccontare l’insieme. Dettagli che raccontano cose che restano implicite: una foto su un comodino, la scritta “Still alive” su ogni giorno conquistato nel calendario. Riesce anche a realizzare una perfetta ed efficace fusione tra immagine e suono, grazie a una colonna sonora suggestiva.
Si nota una grande e matura padronanza del mezzo espressivo, con inquadrature sempre azzeccate, montaggio fluido e preciso, composizione ispirata, ottimo controllo degli attori - Viviana Leoni e Stefano Negrelli - che forniscono una bella prova aiutati ovviamente dall’assenza di dialoghi, ma capaci di fornire la fisicità e l’espressività giuste per i ruoli.
A volte criptico, con la giusta ambiguità dell’opera complessa (pur nella sua brevità), ma sinceramente emozionale.
Qui sopra un frame dal film.
Il film comincia con una citazione da Paulo Coelho che detta le coordinate emotive della vicenda. Le immagini livide di solitudini contrapposte in ambienti antitetici si susseguono a segnalare una ideale separazione. Il parallelo delle vestizioni per obiettivi diversi scandisce il ritmo della giornata. Il parallelo tra il caminetto virtuale e la molto concreta stufa a legna descrive invece in un istante la distanza tra l’apparenza e la realtà, tra il benessere asettico e la concreta durezza della vita vera. Anche se poi ciò che è davvero concreto e ciò che è invece virtuale si confonde con enigmatica ironia.
La sensazione che il corto trasmette è particolare, come particolare è il punto di contatto tra i due protagonisti. Un punto di contatto che rappresenta anche la sorpresa finale del racconto e ne chiude in modo esemplare e immaginifico la parabola emozionale.
Pastrello mostra una notevole capacità di focalizzarsi sui dettagli per raccontare l’insieme. Dettagli che raccontano cose che restano implicite: una foto su un comodino, la scritta “Still alive” su ogni giorno conquistato nel calendario. Riesce anche a realizzare una perfetta ed efficace fusione tra immagine e suono, grazie a una colonna sonora suggestiva.
Si nota una grande e matura padronanza del mezzo espressivo, con inquadrature sempre azzeccate, montaggio fluido e preciso, composizione ispirata, ottimo controllo degli attori - Viviana Leoni e Stefano Negrelli - che forniscono una bella prova aiutati ovviamente dall’assenza di dialoghi, ma capaci di fornire la fisicità e l’espressività giuste per i ruoli.
A volte criptico, con la giusta ambiguità dell’opera complessa (pur nella sua brevità), ma sinceramente emozionale.
Qui sopra un frame dal film.
martedì 17 giugno 2014
Le origini del male
La gloriosa Hammer è da qualche anno tornata a produrre film rinverdendo un passato glorioso e ricco di successi. Chi ricorda i film con Peter Cushing, Christopher Lee e tutte le altre icone del cinema hammeriano farà un po' fatica a ricollegare quel cinema a quello prodotto adesso dalla casa britannica, ma qualche elemento di continuità c'è e del resto i tempi sono cambiati e fare quello che si faceva una volta non sarebbe più possibile, se non altro perché Peter Cushing e Terence Fisher non ci sono più (Christopher Lee, invece, fortunatamente c'è ancora e difatti ha di nuovo collaborato con la Hammer per il film The Resident nel 2011).
Un importante elemento di continuità (anche se per la verità la Hammer che fu si distinse per l'estrema varietà dei generi affrontati) è che la Hammer produce film horror anche adesso. Tra questi, è in uscita in Italia Le origini del male (in originale The Quiet Ones) di John Pogue. Chi vuole leggere cosa ne penso, può leggere la mia recensione su MYmovies a questo link. Il tema, non nuovissimo ma sempre affascinante, è una ricerca sul paranormale compiuta attraverso un esperimento scientifico.
Qui sopra un'immagine dal film con Jared (figlio di Richard) Harris e Olivia Cooke.
Un importante elemento di continuità (anche se per la verità la Hammer che fu si distinse per l'estrema varietà dei generi affrontati) è che la Hammer produce film horror anche adesso. Tra questi, è in uscita in Italia Le origini del male (in originale The Quiet Ones) di John Pogue. Chi vuole leggere cosa ne penso, può leggere la mia recensione su MYmovies a questo link. Il tema, non nuovissimo ma sempre affascinante, è una ricerca sul paranormale compiuta attraverso un esperimento scientifico.
Qui sopra un'immagine dal film con Jared (figlio di Richard) Harris e Olivia Cooke.
venerdì 30 maggio 2014
1303 3D
Sembrava un po' decaduta la tendenza di rifare gli horror giapponesi, ma forse erano solo terminati quelli di alto livello e c'è stato un momento di smarrimento alla ricerca delle seconde linee. Sta di fatto che 1303 3D, il nuovo film di Michael Taverna, è il remake di Apartment 1303, un horror giapponese del 2007 che vede al centro - guarda un po' - lo spettro di una ragazza dai capelli neri. Dell'originale giapponese ho scritto sul Dizionario dei film horror, di questo remake potete leggere la mia recensione, se volete, qui su MYmovies.
Tra le protagoniste c'è nientemeno che Rebecca De Mornay (la potete vedere nella foto qui sopra), che un tempo - molto tempo fa - venne addirittura scelta da Roger Vadim quale nuova Brigitte Bardot per il remake americano di E Dio creò la donna. Nella sua carriera, qualche film di un certo impegno in cui ha dato buona prova di sé (A 30 secondi dalla fine, In viaggio verso Bountiful) e un paio di grossi successi di cassetta come Risky Business e La mano sulla culla, quest'ultimo un ottimo thriller che forse rappresenta la sua migliore prova d'attrice.
Tra le protagoniste c'è nientemeno che Rebecca De Mornay (la potete vedere nella foto qui sopra), che un tempo - molto tempo fa - venne addirittura scelta da Roger Vadim quale nuova Brigitte Bardot per il remake americano di E Dio creò la donna. Nella sua carriera, qualche film di un certo impegno in cui ha dato buona prova di sé (A 30 secondi dalla fine, In viaggio verso Bountiful) e un paio di grossi successi di cassetta come Risky Business e La mano sulla culla, quest'ultimo un ottimo thriller che forse rappresenta la sua migliore prova d'attrice.
domenica 25 maggio 2014
Bob Dylan 73
Come di consueto, ma questa volta per cambiare con un giorno di ritardo, celebriamo il genetliaco di Bob Dylan con qualche considerazione sparsa, la prima delle quali è che il nostro fortunatamente è sempre sulla breccia, con un'energia e una vitalità che mi sento di invidiare. La caratteristica più saliente e positiva è che la voce - che indubbiamente aveva mostrato segni di logoramento - si è rivelata nell'anno appena trascorso sorprendentemente migliore che negli scorsi anni. Che sia per l'adozione di un modo di cantare più pacato, che sia per un miglioramento effettivo delle corde vocali, il risultato è notevole soprattutto nei frangenti più espressivi. Consiglio l'ascolto, a questo proposito, di una qualsiasi delle versioni di Huck's Tune dai recenti concerti giapponesi.
La scaletta "bloccata" - un'eresia se consideriamo che la varietà e l'imprevedibilità delle scalette sono sempre state una caratteristica saliente dei concerti di Bob Dylan (almeno dal cosiddetto Never Ending Tour in poi), tale da renderli sempre unici - ha lasciato spazio a qualche variante sorprendente, come appunto l'inserimento, qua e là, di questa canzone, scritta per il film di Curtis Hanson Le regole del gioco (ne ho parlato diffusamente nel mio Il cinema di Bob Dylan), non troppo conosciuta, ma sicuramente una delle migliori degli anni 2000.
L'altra grande novità, che lascia aperte interessanti prospettive per l'immediato futuro, è la canzone Full Moon & Empty Arms, che si può ascoltare nel sito di Bob Dylan e che dovrebbe essere l'apripista di un album in uscita (forse) quest'estate, dal titolo (forse) di Shadows in the Night, che (forse) sarà solo di cover (forse) di Sinatra (o di altri). La canzone - portata al successo proprio da Sinatra nel 1945, è gradevole e ricca di atmosfera. Dylan canta con voce perfetta da crooner e anche questa è una buona conferma dello stato di salute delle sue corde vocali.
Restiamo in attesa dell'album: certo, preferisco gli album con materiale originale (l'ottimo Tempest è stato l'ultimo, nel 2012), ma se anche fosse di cover, andrebbe bene comunque. Come diceva Dylan di Gregory Peck, sarei in ogni caso (idealmente) in fila per l'acquisto.
La scaletta "bloccata" - un'eresia se consideriamo che la varietà e l'imprevedibilità delle scalette sono sempre state una caratteristica saliente dei concerti di Bob Dylan (almeno dal cosiddetto Never Ending Tour in poi), tale da renderli sempre unici - ha lasciato spazio a qualche variante sorprendente, come appunto l'inserimento, qua e là, di questa canzone, scritta per il film di Curtis Hanson Le regole del gioco (ne ho parlato diffusamente nel mio Il cinema di Bob Dylan), non troppo conosciuta, ma sicuramente una delle migliori degli anni 2000.
L'altra grande novità, che lascia aperte interessanti prospettive per l'immediato futuro, è la canzone Full Moon & Empty Arms, che si può ascoltare nel sito di Bob Dylan e che dovrebbe essere l'apripista di un album in uscita (forse) quest'estate, dal titolo (forse) di Shadows in the Night, che (forse) sarà solo di cover (forse) di Sinatra (o di altri). La canzone - portata al successo proprio da Sinatra nel 1945, è gradevole e ricca di atmosfera. Dylan canta con voce perfetta da crooner e anche questa è una buona conferma dello stato di salute delle sue corde vocali.
Restiamo in attesa dell'album: certo, preferisco gli album con materiale originale (l'ottimo Tempest è stato l'ultimo, nel 2012), ma se anche fosse di cover, andrebbe bene comunque. Come diceva Dylan di Gregory Peck, sarei in ogni caso (idealmente) in fila per l'acquisto.
sabato 3 maggio 2014
La stirpe del male
Ebbene sì, un altro cosiddetto found footage movie, ovvero uno di quei film fatti di riprese video apparentemente amatoriali che convenzione del genere vuole crediamo siano "vere". Questo filone - la cui idea fondante molti fanno risalire addirittura al mitico Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato - è stato usato per vari generi, ma sembra aver attecchito soprattutto nell'horror, dove ha dato vita anche ad alcune franchise.
La stirpe del male prosegue la tendenza - che per la verità, stando agli incassi americani, sta lentamente scemando - applicandola alla più volte raccontata vicenda dell'Anticristo. Gli autori sono un paio di volenterosi registi provenienti dai cortometraggi e da un film collettivo di qualche risonanza, VHS. Se volete leggere cosa penso del film, potete leggere la mia recensione su MyMovies, a questo link.
Qui sopra un'immagine della brava protagonista Allison Miller, che sicuramente ricorderete tra i protagonisti di The Last Vampire - Creature del male, assieme a Gianna Jun, la indimenticabile star di My Sassy Girl, la mia commedia coreana preferita (e non pensate che sia l'unica che ho visto).
La stirpe del male prosegue la tendenza - che per la verità, stando agli incassi americani, sta lentamente scemando - applicandola alla più volte raccontata vicenda dell'Anticristo. Gli autori sono un paio di volenterosi registi provenienti dai cortometraggi e da un film collettivo di qualche risonanza, VHS. Se volete leggere cosa penso del film, potete leggere la mia recensione su MyMovies, a questo link.
Qui sopra un'immagine della brava protagonista Allison Miller, che sicuramente ricorderete tra i protagonisti di The Last Vampire - Creature del male, assieme a Gianna Jun, la indimenticabile star di My Sassy Girl, la mia commedia coreana preferita (e non pensate che sia l'unica che ho visto).
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sabato 29 marzo 2014
Flani (17) - Oscar Insanguinato
Chi di noi non ha mai sofferto, poco o tanto, della sindrome di Edward Lionheart? Il nome è quello del protagonista di questo bel film di Douglas Hickox del 1973 - film di cui parlo ovviamente anche nel mio Dizionario dei film horror - interpretato in modo sublime da Vincent Price che si diverte a fare una summa dell’opera shakespeariana, esagerando il giusto.
La sindrome di cui sopra è quella di chi si senta sottovalutato per la sua opera e pretermesso a favore di altri meno meritevoli. Trattandosi di Vincent Price nel ruolo di un attore è evidente che l’operato dei critici teatrali nella storia raccontata da questo film non può che essere censurato e considerato riprovevole: nessuno potrebbe meritare il premio più di Lionheart, in effetti, dato che Lionheart è un Vincent Price al massimo dello splendore. Però il concetto è interessante ed è facile immedesimarsi nella vicenda di questa versione più letteraria e meno pop de L’abominevole Dr. Phibes.
La frase di lancio del film è abbastanza pertinente, ma in realtà, come sa chi ha visto il film e come saprà chi avrà il piacere di scoprirlo per la prima volta, la mente che inventa le tipologie delittuose non è altri che quella del grande Bardo in persona e questo rende il tutto molto più culturalmente rilevante, mantenendo comunque intatto il divertimento.
La sindrome di cui sopra è quella di chi si senta sottovalutato per la sua opera e pretermesso a favore di altri meno meritevoli. Trattandosi di Vincent Price nel ruolo di un attore è evidente che l’operato dei critici teatrali nella storia raccontata da questo film non può che essere censurato e considerato riprovevole: nessuno potrebbe meritare il premio più di Lionheart, in effetti, dato che Lionheart è un Vincent Price al massimo dello splendore. Però il concetto è interessante ed è facile immedesimarsi nella vicenda di questa versione più letteraria e meno pop de L’abominevole Dr. Phibes.
La frase di lancio del film è abbastanza pertinente, ma in realtà, come sa chi ha visto il film e come saprà chi avrà il piacere di scoprirlo per la prima volta, la mente che inventa le tipologie delittuose non è altri che quella del grande Bardo in persona e questo rende il tutto molto più culturalmente rilevante, mantenendo comunque intatto il divertimento.
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martedì 25 marzo 2014
Fidanzato Vampiro: la serie
Poco meno di un anno fa avevo segnalato in questo blog il fumetto Fidanzato Vampiro con cui Tiziana De Piero aveva vinto il concorso Vampiri a fumetti tenutosi a Valdagno.
Nel frattempo, Fidanzato Vampiro è diventato una serie, edita in versione e-book da Wannaboo ed è interessante notare come si è sviluppata a partire da quel primo racconto.
Il tono si è mantenuto lieve e gradevole, segnato da un umorismo non invadente che si concretizza spesso in battute sommesse a punteggiare storie soprattutto situazionali, semplici ma non superficiali.
Il disegno resta l’aspetto più caratterizzante e riuscito della serie: un curioso e personale insieme del Bonvi fantahorror degli anni ’70 con l’ingannevole ingenuità grafica del manga.
L’insieme si articola in pagine di lettura accattivante nelle quali è sempre chiara la metafora della diversità a segnalare le difficoltà del rapporto di coppia o di gruppo, quando il difficile è farsi accettare per quello che si è ed è anche difficile comprendere come mediare le differenze per arrivare a un rapporto soddisfacente.
Non sempre è facile serializzare un’idea trasformandola da one shot in moltitudine, ma in questo caso Tiziana De Piero ci è riuscita senza apparente sforzo sviluppando gli spunti in modo naturale e simpatico: ha ampliato il numero dei personaggi per evitare l’asfitticità dell’iterazione, ma allo stesso tempo ha sempre tenuto presente l’importanza di focalizzarsi sui due protagonisti.
Uno degli elementi più simpatici è l’erotismo, trattato sempre con leggerezza e ironia, che di solito resta sullo sfondo, ma talvolta prende in qualche misura il sopravvento, come nel terzo episodio, forse il migliore per scorrevolezza e interesse. Ma un’altra cosa da rimarcare è che gli ultimi due episodi sono migliori dei primi, guadagnando in coerenza narrativa ed equilibrio degli elementi e segnalando una continua crescita che promette cose sempre più buone nel futuro, anche grazie a un affinamento della continuity e della dialettica tra i personaggi principali.
Chi è interessato a leggere Fidanzato Vampiro lo può agevolmente acquistare, per esempio, qui.
Nel frattempo, Fidanzato Vampiro è diventato una serie, edita in versione e-book da Wannaboo ed è interessante notare come si è sviluppata a partire da quel primo racconto.
Il tono si è mantenuto lieve e gradevole, segnato da un umorismo non invadente che si concretizza spesso in battute sommesse a punteggiare storie soprattutto situazionali, semplici ma non superficiali.
Il disegno resta l’aspetto più caratterizzante e riuscito della serie: un curioso e personale insieme del Bonvi fantahorror degli anni ’70 con l’ingannevole ingenuità grafica del manga.
L’insieme si articola in pagine di lettura accattivante nelle quali è sempre chiara la metafora della diversità a segnalare le difficoltà del rapporto di coppia o di gruppo, quando il difficile è farsi accettare per quello che si è ed è anche difficile comprendere come mediare le differenze per arrivare a un rapporto soddisfacente.
Non sempre è facile serializzare un’idea trasformandola da one shot in moltitudine, ma in questo caso Tiziana De Piero ci è riuscita senza apparente sforzo sviluppando gli spunti in modo naturale e simpatico: ha ampliato il numero dei personaggi per evitare l’asfitticità dell’iterazione, ma allo stesso tempo ha sempre tenuto presente l’importanza di focalizzarsi sui due protagonisti.
Uno degli elementi più simpatici è l’erotismo, trattato sempre con leggerezza e ironia, che di solito resta sullo sfondo, ma talvolta prende in qualche misura il sopravvento, come nel terzo episodio, forse il migliore per scorrevolezza e interesse. Ma un’altra cosa da rimarcare è che gli ultimi due episodi sono migliori dei primi, guadagnando in coerenza narrativa ed equilibrio degli elementi e segnalando una continua crescita che promette cose sempre più buone nel futuro, anche grazie a un affinamento della continuity e della dialettica tra i personaggi principali.
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mercoledì 19 febbraio 2014
Bob Dylan e la Chrysler
Bob Dylan ha fatto da testimonial per la Chrysler (una fabbrica d’auto, per chi non lo sapesse) in uno spot mandato in onda per la prima volta negli USA durante il Super Bowl e quindi con la massima audience possibile. La cosa, naturalmente, ha suscitato grande interesse e notevoli polemiche da parte di chi pretende di misurare la moralità altrui senza in genere considerare la propria.
In sostanza, l’accusa prevalente è di essersi venduto, come se un artista non si vendesse ogni volta che una sua opera viene offerta al pubblico per l’acquisto. A parte le boutades, è chiaro che in questo caso lo “scandalo” è stato quello della commercializzazione della propria immagine da parte di un mito dell’integrità morale, politica e sociale come Bob Dylan è ritenuto essere da qualcuno. Quanto sia vetero-integralista una posizione del genere e quanto poco ci sia di svendita morale nel fare un po’ di pubblicità lo lascio alla sensibilità personale di ciascuno. Mi sembra piuttosto interessante valutare lo spot per quel che è e vedere che cosa può aver stimolato Dylan a parteciparvi (a parte il cachet, quello sì leggendario a quanto pare).
Lo spot riesce a essere al tempo stesso imbarazzante a tratti (anche per i ritocchi all’immagine di Bob Dylan che, per quanto lo riguarda, non ha paura di mostrarsi vecchio, ma è stato evidentemente ringiovanito per motivi - presumo - di marketing) e geniale in altri punti per come è spiazzante e, a suo modo, originale. Ma soprattutto rimette al centro dell’attenzione il lavoro, una delle tematiche che ha percorso l’opera di Bob Dylan, anche se magari in modo discontinuo e talvolta sotterraneo. In particolare, il lavoro manuale, operaio, quello di cui già Woody Guthrie si era fatto paladino rapportandolo all’operato di coloro che ti derubano con la penna stilografica (d’accordo, si parlava di Pretty Boy Floyd, ma il concetto è quello).
Workingman’s Blues #2 (dall’album Modern Times, 2006) è significativa: “Some people never worked a day in their life/Don’t know what work even means”. E si capisce bene chi Dylan sta stigmatizzando: quelli che hanno i soldi e non hanno mai avuto bisogno di lavorare, in confronto a quelli che invece si guadagnano la vita con il lavoro. Nella crisi di oggi il lavoro è quello che è stato più duramente colpito e rimetterlo, con la sua dignità, al centro dell’attenzione è importante. La delocalizzazione non è altro che un sistema inventato dal capitalismo per svilire i lavoratori e riportare indietro l’orologio del tempo. A questo proposito, in molti nel difendere la scelta di Bob Dylan hanno richiamato la sua canzone Union Sundown del 1983 (dall’album Infidels) nella quale veniva evidenziato come la manifattura fosse stata spostata all’estero in modo da sottopagare (e quindi sfruttare) i lavoratori di quei luoghi, creando disoccupazione in America. In quella canzone, Bob Dylan indica la ragione di tutto ciò: l’avidità.
Ma Bob Dylan si era già occupato della cosa nel 1964 con North Country Blues (dall’album The Times They Are A-Changin’), quando nessuno se ne occupava, descrivendo una realtà che conosceva bene avendo visto da vicino il declino e la rovina - con la conseguente disoccupazione - della sua terra, il Minnesota, dopo la chiusura delle attività estrattive e industriali perché non convenivano più: “They complained in the East/They are paying too high/They say that your ore ain’t worth digging/That it’s much chepaer down/In the South American towns/Where the miners work almost for nothing”. Queste sono i versi del 1964. Questi invece sono quelli del 2006 di Workingman’s Blues #2: “They say low wages are a reality/If we want to compete abroad”. Gli anni sono passati, ma la situazione è solo peggiorata e a farne le spese sono sempre i lavoratori, mentre gli stipendi degli executives sono schizzati a razzo sino su Marte.
Soprattutto in Europa, si è fatto però presente che l’impostazione “americana” dello spot è fasulla perché la Chrysler è della Fiat. Questo significa, a mio avviso, non aver colto il problema. Il problema non è sapere di chi sia la fabbrica, ma che la fabbrica esista e ci lavorino le persone del posto. Questo, credo, interessa ai lavoratori, non altro che la dignità del loro lavoro. Allo stesso modo in cui ai lavoratori italiani - magari quelli della Fiat - penso non interessi tanto chi sia a capo della società quanto che gli stabilimenti rimangano in Italia. E lo stesso, va da sé, interessa ai lavoratori delle altre nazioni: avere il lavoro e averlo dignitoso, non da sfruttati, senza corse al ribasso con i lavoratori di altre nazioni con la minaccia o il ricatto della delocalizzazione. Che un’azienda sia di proprietà italiana o americana e, per massimizzare i profitti, abbia le fabbriche su Venere dove i lavoratori lavorano gratis, credo possa interessare agli azionisti e ai loro dividendi: ai lavoratori italiani o americani interessa che la fabbrica sia dove si trovano loro e fornisca lavoro a condizioni eque.
So much for critics.
In ogni caso, era solo uno spot.
In sostanza, l’accusa prevalente è di essersi venduto, come se un artista non si vendesse ogni volta che una sua opera viene offerta al pubblico per l’acquisto. A parte le boutades, è chiaro che in questo caso lo “scandalo” è stato quello della commercializzazione della propria immagine da parte di un mito dell’integrità morale, politica e sociale come Bob Dylan è ritenuto essere da qualcuno. Quanto sia vetero-integralista una posizione del genere e quanto poco ci sia di svendita morale nel fare un po’ di pubblicità lo lascio alla sensibilità personale di ciascuno. Mi sembra piuttosto interessante valutare lo spot per quel che è e vedere che cosa può aver stimolato Dylan a parteciparvi (a parte il cachet, quello sì leggendario a quanto pare).
Lo spot riesce a essere al tempo stesso imbarazzante a tratti (anche per i ritocchi all’immagine di Bob Dylan che, per quanto lo riguarda, non ha paura di mostrarsi vecchio, ma è stato evidentemente ringiovanito per motivi - presumo - di marketing) e geniale in altri punti per come è spiazzante e, a suo modo, originale. Ma soprattutto rimette al centro dell’attenzione il lavoro, una delle tematiche che ha percorso l’opera di Bob Dylan, anche se magari in modo discontinuo e talvolta sotterraneo. In particolare, il lavoro manuale, operaio, quello di cui già Woody Guthrie si era fatto paladino rapportandolo all’operato di coloro che ti derubano con la penna stilografica (d’accordo, si parlava di Pretty Boy Floyd, ma il concetto è quello).
Workingman’s Blues #2 (dall’album Modern Times, 2006) è significativa: “Some people never worked a day in their life/Don’t know what work even means”. E si capisce bene chi Dylan sta stigmatizzando: quelli che hanno i soldi e non hanno mai avuto bisogno di lavorare, in confronto a quelli che invece si guadagnano la vita con il lavoro. Nella crisi di oggi il lavoro è quello che è stato più duramente colpito e rimetterlo, con la sua dignità, al centro dell’attenzione è importante. La delocalizzazione non è altro che un sistema inventato dal capitalismo per svilire i lavoratori e riportare indietro l’orologio del tempo. A questo proposito, in molti nel difendere la scelta di Bob Dylan hanno richiamato la sua canzone Union Sundown del 1983 (dall’album Infidels) nella quale veniva evidenziato come la manifattura fosse stata spostata all’estero in modo da sottopagare (e quindi sfruttare) i lavoratori di quei luoghi, creando disoccupazione in America. In quella canzone, Bob Dylan indica la ragione di tutto ciò: l’avidità.
Ma Bob Dylan si era già occupato della cosa nel 1964 con North Country Blues (dall’album The Times They Are A-Changin’), quando nessuno se ne occupava, descrivendo una realtà che conosceva bene avendo visto da vicino il declino e la rovina - con la conseguente disoccupazione - della sua terra, il Minnesota, dopo la chiusura delle attività estrattive e industriali perché non convenivano più: “They complained in the East/They are paying too high/They say that your ore ain’t worth digging/That it’s much chepaer down/In the South American towns/Where the miners work almost for nothing”. Queste sono i versi del 1964. Questi invece sono quelli del 2006 di Workingman’s Blues #2: “They say low wages are a reality/If we want to compete abroad”. Gli anni sono passati, ma la situazione è solo peggiorata e a farne le spese sono sempre i lavoratori, mentre gli stipendi degli executives sono schizzati a razzo sino su Marte.
Soprattutto in Europa, si è fatto però presente che l’impostazione “americana” dello spot è fasulla perché la Chrysler è della Fiat. Questo significa, a mio avviso, non aver colto il problema. Il problema non è sapere di chi sia la fabbrica, ma che la fabbrica esista e ci lavorino le persone del posto. Questo, credo, interessa ai lavoratori, non altro che la dignità del loro lavoro. Allo stesso modo in cui ai lavoratori italiani - magari quelli della Fiat - penso non interessi tanto chi sia a capo della società quanto che gli stabilimenti rimangano in Italia. E lo stesso, va da sé, interessa ai lavoratori delle altre nazioni: avere il lavoro e averlo dignitoso, non da sfruttati, senza corse al ribasso con i lavoratori di altre nazioni con la minaccia o il ricatto della delocalizzazione. Che un’azienda sia di proprietà italiana o americana e, per massimizzare i profitti, abbia le fabbriche su Venere dove i lavoratori lavorano gratis, credo possa interessare agli azionisti e ai loro dividendi: ai lavoratori italiani o americani interessa che la fabbrica sia dove si trovano loro e fornisca lavoro a condizioni eque.
So much for critics.
In ogni caso, era solo uno spot.
Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo
Dopo Red Krokodil, Domiziano Cristopharo prosegue il suo particolare percorso nella psiche disturbata degli esseri umani, con la dedizione dell’entomologo che disseziona l’oggetto dei suoi studi per farne emergere gli umori più acri. Doll Syndrome, scritto da Andrea Cavaletto con cui Cristopharo ha stretto un proficuo sodalizio, è la seconda parte di una trilogia iniziata appunto con Red Krokodil.
Un uomo che vive solo, alienato e quasi robotico (con gli occhi sbarrati come quelli, appunto, di una bambola) nel suo rifiuto della socialità, rimane colpito dalla visione di una ragazza che fa colazione in un bar all’aperto. Lontano com’è dall’idea di tentare rapporti umani, benché faccia in modo di vederla più volte, non prova nemmeno un approccio alla ragazza e preferisce passare direttamente a un succedaneo: una bambola gonfiabile su cui proietta la sua ossessione. Però continua a spiare la ragazza e quando la vede in compagnia del fidanzato ne resta turbato. Come il problematico protagonista di Indecent Desires (1968) di Doris Wishman (la Godard in drag, secondo la definizione di John Waters), il protagonista vuole possedere ciò che non potrebbe assolutamente avere, ma diversamente da quello non vive la comparsa del fidanzato della donna come una sorta di tradimento, ma piuttosto come un’opportunità.
Incapace di esprimere emozioni e sentimenti, il protagonista, in una scena curiosa ma significativa, modella il suo volto con le dita per esprimere un sorriso. Come uno zombie, ogni mattina esce di casa vestito bene per andare al lavoro in un’apparente normalità che cela invece la più totale anormalità, intesa come comportamento antitetico a quello della maggioranza. Il fatto che abbia una lavanderia e lavori quindi nel luogo deputato alla pulizia fa da ironico contrasto con la sporca desolazione della sua vita. Uno dei suoi comportamenti frequenti è anche quello di vomitare, talvolta anche nei cassonetti dei rifiuti (non sono in grado di stabilire se lo faccia, correttamente, nel cassonetto dell’umido o se confermi il suo comportamento antisociale facendolo in quello della raccolta indifferenziata).
Il ritratto dell’alienazione è totalizzante: l’impossibilità di stabilire un contatto col mondo rinchiude sempre più il protagonista in un abisso di masochismo nel quale le autopunizioni fanno da valvola di sfogo sempre più estrema a un desiderio inespresso e inesprimibile. Privato di qualsiasi traccia di umanità, vaga all’interno della sua vita guidato da istinti primari larvatamente autodistruttivi, cercando di tenersi in vita con le sensazioni dolorose che ricerca con determinazione. L’unica volta che lo vediamo entusiasta è quando, in una delle poche immagini surreali di un film altrimenti assai realistico (dal punto di vista figurativo), si taglia il ventre (o immagina di farlo) in modo da creare una sorta di larga bocca dentata.
Più passano i film e meno il cinema di Cristopharo è interessato a “piacere” al pubblico. Le storie si fanno più dure e al tempo stesso più rarefatte e, a modo loro, austere. Come in Red Krokodil, anche qui il ritmo narrativo svicola da ogni convenzione e appartiene a una specie a sé stante, dove la lentezza asseconda la scelta di raccontare senza parole. Proprio questa assenza di parole è particolarmente efficace nel sottolineare la condizione psicologica del protagonista, incapace di comunicare o, meglio, non interessato a farlo. Stilisticamente, il film è ineccepibile. La scelta di raccontare tutto con le immagini - e soprattutto il successo di questa scelta - testimonia una maturità artistica innegabile, oltre a una padronanza dei mezzi espressivi.
Il film non è per tutti, non solo per la tematica, ma anche per la scelta di costellarlo di immagini insolitamente crude (e anche porno): è il lato provocatorio e anticensorio di Cristopharo, stavolta spinto anche oltre i precedenti confini tracciati. La visione è quindi una sorta di tour de force per lo spettatore impressionabile o facilmente turbato dall’esposizione a un immaginario sessuale per nulla gradevole agli occhi. In questo senso, benché si spinga all’estremo, il cinema di Cristopharo non è, attualmente, di exploitation, ma ne rappresenta l’antitesi. Costituisce una sfida a guardare, a reggere lo sguardo della visione.
Va quindi precisato che il pubblico di riferimento è necessariamente ristretto: lo spettatore medio è allontanato dalla scelta di mostrare cruda violenza e (anti)erotismo hard. Quindi, le persone impressionabili o suscettibili di esserlo faranno bene ad astenersi dalla visione, strettamente riservata a persone adulte, mature, pronte a tutto, non facili a offendersi per questioni morali, aperte a ogni visione (anche e soprattutto quelle sgradevoli) e motivate. Sono necessarie queste scene? Naturalmente, in senso stretto, no: la storia filerebbe lo stesso anche senza e i concetti sarebbero comunque espressi con forza pur se il tasso di efferatezza fosse minore. Ma si tratta di una scelta espressiva e come tale lasciata alla discrezionalità e alla responsabilità dell’artista che la compie. A livello critico si può solo prenderne atto e giudicarne l’efficacia. Una scelta espressiva, comunque, volta a scioccare il pubblico e, come detto, ad allontanarne la gran parte (ma in ogni caso, vista la tematica, il film non è destinato al grande pubblico). La provocazione è spesso parte dell’espressione artistica e Cristopharo ne fa consapevolmente uso da tempo.
Nonostante veda film horror da un bel po’ di anni, personalmente non sono un patito degli eccessi sanguinolenti e non mi piace guardarli, ma posso capire il punto di vista del regista (che di certo non ha voluto fare un film “piacevole”): se da un punto di vista contenutistico si vuole affrontare lo scivoloso argomento della sensualità sadomaso, può essere ritenuto necessario affrontare di petto anche la questione della rappresentazione visiva del dolore. Cristopharo lo fa senza fermarsi davanti a nulla: electa una via, non datur recursus ad alteram, dicevano i romani relativamente ad altre faccende, ma il brocardo può andare bene anche qui. Scelta la strada del “mostrare” per far meglio capire, tutto viene mostrato. E la sensazione è che ciò che viene mostrato non venga mostrato per evidenziarne il carattere “malato”, ma per mostrare come anche questa estrema disumanità è fin troppo umana, pur se magari può spaventare che lo sia.
Nei film degli anni ’30 nei titoli di coda scrivevano “a good cast is worth repeating”, qui mi sento dire che l’avvertimento è meritevole d’essere ripetuto: guardate il film solo se siete certi di poter affrontare l’esposizione esplicita della sua tematica.
Cinema della crudeltà, verso se stessi e gli altri. Cinema estremo, cattivo, che nella sua ultima parte rasenta l’insostenibilità in un parossismo di torture che nella sua insana ferocia richiama più certi horror giapponesi di qualche decennio fa (quelli di Kazuo Komizu, per esempio, anche se molto diversi nel tono) che i più recenti torture porn americani dedicati al grande pubblico. Ma per il suo sguardo apparentemente neutro e spersonalizzante, il film si distanzia molto da questi modelli di cinema estremo. Gli effetti speciali sono molto realistici, nella maggior parte dei casi, e il loro minimalismo li rende ancora più efficaci. Da notare che, mentre il contesto e la rappresentazione sono realistici, il protagonista chiaramente non lo è - né nel comportamento, né nell’atteggiamento - creando così un contrasto curioso, figurativamente interessante anche se, forse, narrativamente spiazzante.
La storia procede con studiata lentezza, non per consentire un approfondimento psicologico (che non c’è: i personaggi restano a una dimensione, protagonista compreso che non ha una progressione caratteriale, ma semmai una specificazione), ma per far emergere un po’ alla volta la vuota iterazione della vita del protagonista e dare un senso logico al suo sfociare in una svolta “sociale” di perversa condivisione, più che di sopraffazione. Il rimedio alla solitudine non è conformarsi agli altri, ma conformare gli altri a se stessi. Il punto più delicato e significante è proprio quello in cui la fusione di dolore e piacere dovrebbe realizzarsi compiutamente con la (forzata?) condivisione da parte della “vittima” del sistema di (dis)valori del protagonista.
Il concetto base sembra essere il fascino che può essere indotto dallo stretto legame tra dolore e piacere. Sotto questo aspetto il sottofinale anche senza parole speak volumes, come dicono gli inglesi. Invece di adattarsi al mondo e alla socialità, il protagonista cerca di formare un microcosmo di alienazione governato da regole autonome alla ricerca di una condivisione del proprio mondo. In questo modo, il nichilismo della storia si colora di sarcasmo proponendo la parodia di una situazione “normale”.
Efficace, ma soprattutto quasi eroico il protagonista Tiziano Cella, per la sua disponibilità nell’interpretare un personaggio assolutamente non facile per quanto è richiesto che faccia. Azzeccata la colonna sonora firmata da Il Cristo Fluorescente e Jarman, che asseconda bene l’atmosfera trasognata e desolata del film.
Qui sopra Aurora Kostova, tra i protagonisti del film.
Un uomo che vive solo, alienato e quasi robotico (con gli occhi sbarrati come quelli, appunto, di una bambola) nel suo rifiuto della socialità, rimane colpito dalla visione di una ragazza che fa colazione in un bar all’aperto. Lontano com’è dall’idea di tentare rapporti umani, benché faccia in modo di vederla più volte, non prova nemmeno un approccio alla ragazza e preferisce passare direttamente a un succedaneo: una bambola gonfiabile su cui proietta la sua ossessione. Però continua a spiare la ragazza e quando la vede in compagnia del fidanzato ne resta turbato. Come il problematico protagonista di Indecent Desires (1968) di Doris Wishman (la Godard in drag, secondo la definizione di John Waters), il protagonista vuole possedere ciò che non potrebbe assolutamente avere, ma diversamente da quello non vive la comparsa del fidanzato della donna come una sorta di tradimento, ma piuttosto come un’opportunità.
Incapace di esprimere emozioni e sentimenti, il protagonista, in una scena curiosa ma significativa, modella il suo volto con le dita per esprimere un sorriso. Come uno zombie, ogni mattina esce di casa vestito bene per andare al lavoro in un’apparente normalità che cela invece la più totale anormalità, intesa come comportamento antitetico a quello della maggioranza. Il fatto che abbia una lavanderia e lavori quindi nel luogo deputato alla pulizia fa da ironico contrasto con la sporca desolazione della sua vita. Uno dei suoi comportamenti frequenti è anche quello di vomitare, talvolta anche nei cassonetti dei rifiuti (non sono in grado di stabilire se lo faccia, correttamente, nel cassonetto dell’umido o se confermi il suo comportamento antisociale facendolo in quello della raccolta indifferenziata).
Il ritratto dell’alienazione è totalizzante: l’impossibilità di stabilire un contatto col mondo rinchiude sempre più il protagonista in un abisso di masochismo nel quale le autopunizioni fanno da valvola di sfogo sempre più estrema a un desiderio inespresso e inesprimibile. Privato di qualsiasi traccia di umanità, vaga all’interno della sua vita guidato da istinti primari larvatamente autodistruttivi, cercando di tenersi in vita con le sensazioni dolorose che ricerca con determinazione. L’unica volta che lo vediamo entusiasta è quando, in una delle poche immagini surreali di un film altrimenti assai realistico (dal punto di vista figurativo), si taglia il ventre (o immagina di farlo) in modo da creare una sorta di larga bocca dentata.
Più passano i film e meno il cinema di Cristopharo è interessato a “piacere” al pubblico. Le storie si fanno più dure e al tempo stesso più rarefatte e, a modo loro, austere. Come in Red Krokodil, anche qui il ritmo narrativo svicola da ogni convenzione e appartiene a una specie a sé stante, dove la lentezza asseconda la scelta di raccontare senza parole. Proprio questa assenza di parole è particolarmente efficace nel sottolineare la condizione psicologica del protagonista, incapace di comunicare o, meglio, non interessato a farlo. Stilisticamente, il film è ineccepibile. La scelta di raccontare tutto con le immagini - e soprattutto il successo di questa scelta - testimonia una maturità artistica innegabile, oltre a una padronanza dei mezzi espressivi.
Il film non è per tutti, non solo per la tematica, ma anche per la scelta di costellarlo di immagini insolitamente crude (e anche porno): è il lato provocatorio e anticensorio di Cristopharo, stavolta spinto anche oltre i precedenti confini tracciati. La visione è quindi una sorta di tour de force per lo spettatore impressionabile o facilmente turbato dall’esposizione a un immaginario sessuale per nulla gradevole agli occhi. In questo senso, benché si spinga all’estremo, il cinema di Cristopharo non è, attualmente, di exploitation, ma ne rappresenta l’antitesi. Costituisce una sfida a guardare, a reggere lo sguardo della visione.
Va quindi precisato che il pubblico di riferimento è necessariamente ristretto: lo spettatore medio è allontanato dalla scelta di mostrare cruda violenza e (anti)erotismo hard. Quindi, le persone impressionabili o suscettibili di esserlo faranno bene ad astenersi dalla visione, strettamente riservata a persone adulte, mature, pronte a tutto, non facili a offendersi per questioni morali, aperte a ogni visione (anche e soprattutto quelle sgradevoli) e motivate. Sono necessarie queste scene? Naturalmente, in senso stretto, no: la storia filerebbe lo stesso anche senza e i concetti sarebbero comunque espressi con forza pur se il tasso di efferatezza fosse minore. Ma si tratta di una scelta espressiva e come tale lasciata alla discrezionalità e alla responsabilità dell’artista che la compie. A livello critico si può solo prenderne atto e giudicarne l’efficacia. Una scelta espressiva, comunque, volta a scioccare il pubblico e, come detto, ad allontanarne la gran parte (ma in ogni caso, vista la tematica, il film non è destinato al grande pubblico). La provocazione è spesso parte dell’espressione artistica e Cristopharo ne fa consapevolmente uso da tempo.
Nonostante veda film horror da un bel po’ di anni, personalmente non sono un patito degli eccessi sanguinolenti e non mi piace guardarli, ma posso capire il punto di vista del regista (che di certo non ha voluto fare un film “piacevole”): se da un punto di vista contenutistico si vuole affrontare lo scivoloso argomento della sensualità sadomaso, può essere ritenuto necessario affrontare di petto anche la questione della rappresentazione visiva del dolore. Cristopharo lo fa senza fermarsi davanti a nulla: electa una via, non datur recursus ad alteram, dicevano i romani relativamente ad altre faccende, ma il brocardo può andare bene anche qui. Scelta la strada del “mostrare” per far meglio capire, tutto viene mostrato. E la sensazione è che ciò che viene mostrato non venga mostrato per evidenziarne il carattere “malato”, ma per mostrare come anche questa estrema disumanità è fin troppo umana, pur se magari può spaventare che lo sia.
Nei film degli anni ’30 nei titoli di coda scrivevano “a good cast is worth repeating”, qui mi sento dire che l’avvertimento è meritevole d’essere ripetuto: guardate il film solo se siete certi di poter affrontare l’esposizione esplicita della sua tematica.
Cinema della crudeltà, verso se stessi e gli altri. Cinema estremo, cattivo, che nella sua ultima parte rasenta l’insostenibilità in un parossismo di torture che nella sua insana ferocia richiama più certi horror giapponesi di qualche decennio fa (quelli di Kazuo Komizu, per esempio, anche se molto diversi nel tono) che i più recenti torture porn americani dedicati al grande pubblico. Ma per il suo sguardo apparentemente neutro e spersonalizzante, il film si distanzia molto da questi modelli di cinema estremo. Gli effetti speciali sono molto realistici, nella maggior parte dei casi, e il loro minimalismo li rende ancora più efficaci. Da notare che, mentre il contesto e la rappresentazione sono realistici, il protagonista chiaramente non lo è - né nel comportamento, né nell’atteggiamento - creando così un contrasto curioso, figurativamente interessante anche se, forse, narrativamente spiazzante.
La storia procede con studiata lentezza, non per consentire un approfondimento psicologico (che non c’è: i personaggi restano a una dimensione, protagonista compreso che non ha una progressione caratteriale, ma semmai una specificazione), ma per far emergere un po’ alla volta la vuota iterazione della vita del protagonista e dare un senso logico al suo sfociare in una svolta “sociale” di perversa condivisione, più che di sopraffazione. Il rimedio alla solitudine non è conformarsi agli altri, ma conformare gli altri a se stessi. Il punto più delicato e significante è proprio quello in cui la fusione di dolore e piacere dovrebbe realizzarsi compiutamente con la (forzata?) condivisione da parte della “vittima” del sistema di (dis)valori del protagonista.
Il concetto base sembra essere il fascino che può essere indotto dallo stretto legame tra dolore e piacere. Sotto questo aspetto il sottofinale anche senza parole speak volumes, come dicono gli inglesi. Invece di adattarsi al mondo e alla socialità, il protagonista cerca di formare un microcosmo di alienazione governato da regole autonome alla ricerca di una condivisione del proprio mondo. In questo modo, il nichilismo della storia si colora di sarcasmo proponendo la parodia di una situazione “normale”.
Efficace, ma soprattutto quasi eroico il protagonista Tiziano Cella, per la sua disponibilità nell’interpretare un personaggio assolutamente non facile per quanto è richiesto che faccia. Azzeccata la colonna sonora firmata da Il Cristo Fluorescente e Jarman, che asseconda bene l’atmosfera trasognata e desolata del film.
Qui sopra Aurora Kostova, tra i protagonisti del film.
mercoledì 5 febbraio 2014
La casa nel bosco in Horror Storytelling
Torno sull'antologia Horror Storytelling, contenente il mio racconto La casa nel bosco, per fornire qualche dettaglio in più e per spendere qualche parola sul racconto.
Horror Storytelling è un volume di 552 pagine (!), edito da Watson Edizioni, di formato relativamente grande (15 cm x 21 cm), brossurato. Una cosa da non sottovalutare è che il prezzo di vendita è particolarmente onesto: un malloppone di quel genere costa solo 10 euro (e lo trovate anche a meno sui tradizionali siti internet, come IBS o Amazon). Il volume - ordinabile anche direttamente presso l'editore - contiene 32 racconti suddivisi in tre sezioni: Orrori inspiegabili; Altri mondi e dimensioni; Il male vero. Laura Platamone ha curato editing e impaginazione. Ivan Alemanno e Fabio Porfidia si sono invece occupati della copertina.
Quello che posso dire per il momento - non ho ancora letto gli altri racconti - è che il panorama dell'antologia è vario e complesso.
Ma veniamo a La casa nel bosco. L'ho scritto raffigurandomelo visivamente, come se fosse un film. E in effetti l'idea era di scrivere qualcosa che avrei voluto vedere al cinema. In particolare, qualcosa di exploitation. Quindi, qualcosa che mescola insieme horror, erotismo, una certa ironia, il tutto con un ritmo vivace. Ho cercato anche di caratterizzare i personaggi in modo da suscitare simpatia e partecipazione verso di loro per rendere il lettore interessato alla loro sorte. Questo per evitare la sindorme da carne da macello di tanti horror cinematografici - slasher in particolare - dove lo spettatore è sostanzialmente reso insensibile al destino delle varie vittime che gli passano davanti. Non è detto che ci sia riuscito, ma ci ho provato. E' un racconto che mi sono divertito a scrivere e l'ho scritto anche piuttosto rapidamente (si sa che ogni bel gioco dura poco). Detto questo, ai lettori (il plurale è sempre un auspicio), come sempre, l'ardua sentenza.
Horror Storytelling è un volume di 552 pagine (!), edito da Watson Edizioni, di formato relativamente grande (15 cm x 21 cm), brossurato. Una cosa da non sottovalutare è che il prezzo di vendita è particolarmente onesto: un malloppone di quel genere costa solo 10 euro (e lo trovate anche a meno sui tradizionali siti internet, come IBS o Amazon). Il volume - ordinabile anche direttamente presso l'editore - contiene 32 racconti suddivisi in tre sezioni: Orrori inspiegabili; Altri mondi e dimensioni; Il male vero. Laura Platamone ha curato editing e impaginazione. Ivan Alemanno e Fabio Porfidia si sono invece occupati della copertina.
Quello che posso dire per il momento - non ho ancora letto gli altri racconti - è che il panorama dell'antologia è vario e complesso.
Ma veniamo a La casa nel bosco. L'ho scritto raffigurandomelo visivamente, come se fosse un film. E in effetti l'idea era di scrivere qualcosa che avrei voluto vedere al cinema. In particolare, qualcosa di exploitation. Quindi, qualcosa che mescola insieme horror, erotismo, una certa ironia, il tutto con un ritmo vivace. Ho cercato anche di caratterizzare i personaggi in modo da suscitare simpatia e partecipazione verso di loro per rendere il lettore interessato alla loro sorte. Questo per evitare la sindorme da carne da macello di tanti horror cinematografici - slasher in particolare - dove lo spettatore è sostanzialmente reso insensibile al destino delle varie vittime che gli passano davanti. Non è detto che ci sia riuscito, ma ci ho provato. E' un racconto che mi sono divertito a scrivere e l'ho scritto anche piuttosto rapidamente (si sa che ogni bel gioco dura poco). Detto questo, ai lettori (il plurale è sempre un auspicio), come sempre, l'ardua sentenza.
domenica 2 febbraio 2014
Bloody Sin di Domiziano Cristopharo
Bloody Sin è il terzo lungometraggio di Domiziano Cristopharo: si dovrebbe quindi situare dopo Museum of Wonders e prima di Red Krokodil. E' un horror a tutto tondo, anche se naturalmente molto particolare.
Olevano, Italia, 1474. L’eretico monsignor Fohrer è torturato dall’inquisizione, ma avverte: molto sangue scorrerà, oltre naturalmente al suo. New York, 1974. Miss Steele (Maria Rosaria Omaggio), direttrice della rivista erotica «Bizarre», incarica il fotografo Johnny Morghen (Lorenzo Balducci) di fare un servizio in Italia e, nell’occasione, di trovare qualcosa di nuovo per controbattere le pulsioni femministe che si stanno affermando contro la donna-oggetto (che è la ragione stessa di esistenza della rivista). L’idea è quella di creare uno scandalo, magari anche attraverso immagini di tortura e sadomaso. Assieme a Johnny, viaggiano la redattrice Helen Driscoll (Nancy De Lucia), la fotomodella Barbara (Roberta Gemma) e la truccatrice Rita de Palma (Clio Evans): la meta è proprio il cupo castello di Olevano. Li scorta lì Lenzi (Daniel Baldock), che si occupa della logistica per il servizio. Il proprietario del castello, Terence Fischer (Dallas Walker), ha dei problemi con l’anziana madre che non vorrebbe estranei, ma le cose in qualche modo si risolvono. Fischer, però, si intrattiene con Helen chiamandola Lisa, come se la aspettasse da tempo, creando un certo imbarazzo nella giovane. Fischer ha un passato da attore cinematografico, ma ha abbandonato la carriera per dedicarsi al collezionismo d’arte. Qualcosa però incombe sul castello e giungono i primi delitti: pare che proprio lì, nell’antico maniero, vi sia una delle porte dell’inferno.
Il film è un chiaro omaggio all’horror italiano degli anni ’60, in particolare a Il boia scarlatto, del quale riprende diversi elementi, al punto da risultarne quasi una rivisitazione allucinata. Rispetto ai film precedenti di Cristopharo e ancor più rispetto a quelli successivi, si nota in questo il desiderio di mantenersi, almeno in superficie, all’interno dei dettami e dei parametri del genere, con una trama lineare e tipica. Proprio la trama, però, col passare del tempo si contorce e si avviluppa prendendo direzioni curiose e deliranti che la distanziano dai prototipi di riferimento. Rispetto a quegli horror d’epoca, inoltre, questo è sicuramente più estetizzante, alla ricerca dei dettagli formali invece che del ritmo narrativo, che resta lento e lontano dalla rapidità tipica dei B-movies. Questa lentezza, mantenendosi il film in gran parte sul piano del racconto tradizionale, solo a tratti ha la trasognata qualità che l’avrebbe del tutto riscattata finalizzandola, per esempio, alla costruzione di un’atmosfera. L’atmosfera c’è, ma talvolta a scapito della narrazione e non sempre in suo supporto.
Simpatico l’utilizzo di stacchi disegnati per un veloce cambio di situazioni e ambienti, passando come in un volgere di pagine attraverso aspetti su cui si intende sorvolare pur accennandoli, come se si stesse sfogliando un fumetto o magari un fotoromanzo. I raffinati passaggi di scena con morbide transizioni aiutate dallo split-screen (anche questo in sé un richiamo al cinema di quegli anni, anche se non in particolare quello italiano) e improvvise irruzioni di elementi visuali incongrui ma singolarmente riusciti, come una stop motion dai toni grotteschi, conferiscono al film una strana eleganza e un buon fascino. La madre di Fischer è una presenza grottesca e inquietante, molto azzeccata sotto il profilo scenico, con una decrepitezza chiaramente artificiale, ma figurativamente riuscita proprio per i suoi eccessi.
Ci sono momenti in cui l’inquieta estetica di Cristopharo emerge con forza, come nell’accoppiamento onirico di Fischer. Il gioco di trasfigurazioni e rimandi nella scena chiave dell’amore - tra il necrofilo e il febbrile - tra Fischer ed Helen (con richiami che sembrano evidenti, in questo caso, a Lisa e il diavolo di Bava) è ben gestito e la successiva scena laido-incestuosa trasporta il regista nel suo terreno preferito, più perverso e originale, delirante. Anche nei flashback romanzati - quello su Barbablù, di cui si ripropone il tabù della porta sprangata e proibita, e quello sui nazisti e dei loro esperimenti proibiti - Cristopharo conferma le sue qualità visuali di narratore capace di estrarre l’essenza dalle cose e di ritrasmetterla con raffinatezza e inventiva, con suggestivi richiami al cinema muto.
Nell’ultimo terzo il film si affranca dalle fonti, si precisa nel suo percorso narrativo autonomo (un po’ confuso, per la verità) e aggiorna, con la contaminazione nazista, la sua rivisitazione dei prototipi. Alcune svolte, inspiegate e inspiegabili, come quella robotica, hanno probabilmente una logica interna che ai più sfugge, ma dal punto di vista della sorpresa e dello spiazzamento narrativo funzionano. Rispetto ai film successivi - più crudi e duri - ci sono diversi tocchi di exploitation nelle immagini, rivolte anche ad assecondare il lato voyeuristico del pubblico (e non c’è niente di male in questo). Nell’insieme, un film che conferma le qualità di Cristopharo, ma che sembra un po’ di transizione, con qualche incertezza.
I nomi sono talvolta citazioni e il film si spinge al punto da parlarne espressamente: al “castellano” viene infatti fatto notare che il suo nome è quello di un famoso regista inglese di horror . Lui, naturalmente, lo sa, ma puntualizza di essere tedesco (e per questo, si capisce dai sottotitoli, la grafia del cognome è diversa).
In un cast mediamente accettabile, spiccano Nancy De Lucia - bella e brava in un ruolo non facile - e Dallas Walker, che conferisce un’aura quasi aliena al suo personaggio, come un Mickey Hargitay venuto dalla Luna. I cinefili possono apprezzare i cameo di Ruggero Deodato e Venantino Venantini, che si rivede con piacere nel breve ruolo di Monsignor Carella. Più ampia è la partecipazione di una sempre brava Maria Rosaria Omaggio.
Giovanna canta l’accattivante canzone del film.
Olevano, Italia, 1474. L’eretico monsignor Fohrer è torturato dall’inquisizione, ma avverte: molto sangue scorrerà, oltre naturalmente al suo. New York, 1974. Miss Steele (Maria Rosaria Omaggio), direttrice della rivista erotica «Bizarre», incarica il fotografo Johnny Morghen (Lorenzo Balducci) di fare un servizio in Italia e, nell’occasione, di trovare qualcosa di nuovo per controbattere le pulsioni femministe che si stanno affermando contro la donna-oggetto (che è la ragione stessa di esistenza della rivista). L’idea è quella di creare uno scandalo, magari anche attraverso immagini di tortura e sadomaso. Assieme a Johnny, viaggiano la redattrice Helen Driscoll (Nancy De Lucia), la fotomodella Barbara (Roberta Gemma) e la truccatrice Rita de Palma (Clio Evans): la meta è proprio il cupo castello di Olevano. Li scorta lì Lenzi (Daniel Baldock), che si occupa della logistica per il servizio. Il proprietario del castello, Terence Fischer (Dallas Walker), ha dei problemi con l’anziana madre che non vorrebbe estranei, ma le cose in qualche modo si risolvono. Fischer, però, si intrattiene con Helen chiamandola Lisa, come se la aspettasse da tempo, creando un certo imbarazzo nella giovane. Fischer ha un passato da attore cinematografico, ma ha abbandonato la carriera per dedicarsi al collezionismo d’arte. Qualcosa però incombe sul castello e giungono i primi delitti: pare che proprio lì, nell’antico maniero, vi sia una delle porte dell’inferno.
Il film è un chiaro omaggio all’horror italiano degli anni ’60, in particolare a Il boia scarlatto, del quale riprende diversi elementi, al punto da risultarne quasi una rivisitazione allucinata. Rispetto ai film precedenti di Cristopharo e ancor più rispetto a quelli successivi, si nota in questo il desiderio di mantenersi, almeno in superficie, all’interno dei dettami e dei parametri del genere, con una trama lineare e tipica. Proprio la trama, però, col passare del tempo si contorce e si avviluppa prendendo direzioni curiose e deliranti che la distanziano dai prototipi di riferimento. Rispetto a quegli horror d’epoca, inoltre, questo è sicuramente più estetizzante, alla ricerca dei dettagli formali invece che del ritmo narrativo, che resta lento e lontano dalla rapidità tipica dei B-movies. Questa lentezza, mantenendosi il film in gran parte sul piano del racconto tradizionale, solo a tratti ha la trasognata qualità che l’avrebbe del tutto riscattata finalizzandola, per esempio, alla costruzione di un’atmosfera. L’atmosfera c’è, ma talvolta a scapito della narrazione e non sempre in suo supporto.
Simpatico l’utilizzo di stacchi disegnati per un veloce cambio di situazioni e ambienti, passando come in un volgere di pagine attraverso aspetti su cui si intende sorvolare pur accennandoli, come se si stesse sfogliando un fumetto o magari un fotoromanzo. I raffinati passaggi di scena con morbide transizioni aiutate dallo split-screen (anche questo in sé un richiamo al cinema di quegli anni, anche se non in particolare quello italiano) e improvvise irruzioni di elementi visuali incongrui ma singolarmente riusciti, come una stop motion dai toni grotteschi, conferiscono al film una strana eleganza e un buon fascino. La madre di Fischer è una presenza grottesca e inquietante, molto azzeccata sotto il profilo scenico, con una decrepitezza chiaramente artificiale, ma figurativamente riuscita proprio per i suoi eccessi.
Ci sono momenti in cui l’inquieta estetica di Cristopharo emerge con forza, come nell’accoppiamento onirico di Fischer. Il gioco di trasfigurazioni e rimandi nella scena chiave dell’amore - tra il necrofilo e il febbrile - tra Fischer ed Helen (con richiami che sembrano evidenti, in questo caso, a Lisa e il diavolo di Bava) è ben gestito e la successiva scena laido-incestuosa trasporta il regista nel suo terreno preferito, più perverso e originale, delirante. Anche nei flashback romanzati - quello su Barbablù, di cui si ripropone il tabù della porta sprangata e proibita, e quello sui nazisti e dei loro esperimenti proibiti - Cristopharo conferma le sue qualità visuali di narratore capace di estrarre l’essenza dalle cose e di ritrasmetterla con raffinatezza e inventiva, con suggestivi richiami al cinema muto.
Nell’ultimo terzo il film si affranca dalle fonti, si precisa nel suo percorso narrativo autonomo (un po’ confuso, per la verità) e aggiorna, con la contaminazione nazista, la sua rivisitazione dei prototipi. Alcune svolte, inspiegate e inspiegabili, come quella robotica, hanno probabilmente una logica interna che ai più sfugge, ma dal punto di vista della sorpresa e dello spiazzamento narrativo funzionano. Rispetto ai film successivi - più crudi e duri - ci sono diversi tocchi di exploitation nelle immagini, rivolte anche ad assecondare il lato voyeuristico del pubblico (e non c’è niente di male in questo). Nell’insieme, un film che conferma le qualità di Cristopharo, ma che sembra un po’ di transizione, con qualche incertezza.
I nomi sono talvolta citazioni e il film si spinge al punto da parlarne espressamente: al “castellano” viene infatti fatto notare che il suo nome è quello di un famoso regista inglese di horror . Lui, naturalmente, lo sa, ma puntualizza di essere tedesco (e per questo, si capisce dai sottotitoli, la grafia del cognome è diversa).
In un cast mediamente accettabile, spiccano Nancy De Lucia - bella e brava in un ruolo non facile - e Dallas Walker, che conferisce un’aura quasi aliena al suo personaggio, come un Mickey Hargitay venuto dalla Luna. I cinefili possono apprezzare i cameo di Ruggero Deodato e Venantino Venantini, che si rivede con piacere nel breve ruolo di Monsignor Carella. Più ampia è la partecipazione di una sempre brava Maria Rosaria Omaggio.
Giovanna canta l’accattivante canzone del film.
mercoledì 29 gennaio 2014
Il segnato
Dopo quattro Paranormal Activity e in attesa del numero cinque, esce Il segnato, che nell'originale si intitola Paranormal Activity: The Marked Ones ed è uno spin-off della serie con qualche elemento di continuity che lo assimila a un para-sequel. Vabbe', non facciamola tanto complicata: diciamo che è un parente stretto della serie e tanto basti.
Come al solito, è un found footage film alla ricerca del realismo horror con inquadrature traballanti e ambientazioni tratte dalla quotidianità. Se volete leggere quello che ne ho scritto per MyMovies, basta che andiate qui.
Come al solito, è un found footage film alla ricerca del realismo horror con inquadrature traballanti e ambientazioni tratte dalla quotidianità. Se volete leggere quello che ne ho scritto per MyMovies, basta che andiate qui.
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