Tra pochi giorni uscirà il nuovo disco di Bob Dylan. Si tratta di Triplicate, un altro disco di covers dopo quelli già usciti negli anni scorsi, Shadows in the Night e Fallen Angels. È un disco triplo che quindi sembra una sorta di sfida a chi, magari sottovoce, aveva cominciato a dire che due dischi di cover potevano essere abbastanza. Ma naturalmente Dylan non lancerebbe mai sfide del genere: in realtà, sta semplicemente continuando a fare quello che ha sempre fatto, ciò che vuole.
Peraltro, Dylan ha spesso fatto cover: già il suo primo disco ne aveva parecchie. Poi nel corso degli anni, in maggiore o minore misura, ne ha continuate a fare con punte quantitative in dischi come Self Portrait o Down in the Groove. Per non parlare del dittico acustico dei primi anni ‘90, interamente composto di versioni di canzoni altrui, tradizionali e no. E anche dal vivo, soprattutto con l’inizio del Never Ending Tour (o comunque lo si sia voluto chiamare nel corso dei decenni) nel 1988, le cover non sono mancate.
Quindi, niente di strano. Apparentemente. In realtà qualcosa di strano c’è. Un aspetto ricorrente delle cover dylaniane dall’inizio sino quasi ai nostri giorni è che le canzoni venivano del tutto dylanizzate, non erano per niente simili ai pezzi originali e spesso potevano invece sembrare canzoni di Dylan. Dylan, infatti, le faceva proprie con la sua interpretazione, diventavano cosa sua. Gli esempi sono molteplici. Uno dei più eclatanti è la gershwiniana Soon, fatta in solitario con chitarra e armonica durante un concerto in onore di Gershwin nel 1987 (la ripresa televisiva dell’avvenimento è facile trovarla su youtube): da ascoltare per credere. Un altro esempio potrebbe essere The Lady Came from Baltimore scritta da Ty Hardin, ma ce ne sono davvero tanti.
Tra questi mi preme segnalare Golden Vanity. Si tratta di una canzone tradizionale di qualche secolo fa e ne esiste una miriade di versioni. Saltabeccando su youtube ne troverete a vagoni, ce n’è una di Pete Seeger, ma ce ne sono anche di gruppi moderni. Chi la fa vivace, chi la fa lenta, chi la fa ipermelodica. Poi c’è la versione di Bob Dylan. Dylan l’ha eseguita in concerto sette volte, ma la versione che si sente più facilmente è anche la migliore, quella eseguita a Waikiki nelle Hawaii il 24 aprile 1992 (annata di particolare interesse, molto hit or miss, per la parte acustica dei concerti dylaniani). Su youtube la trovate facilmente. Ascoltatela, magari dopo o prima d’aver ascoltato qualcuna delle altre versioni. Non era un periodo facile per Dylan, quello. Il pubblico gli chiedeva le sue canzoni famose, quelle di protesta. E Dylan rispose, acuto e caustico: “This one’s got all that stuff in it. You’ll see. It’s got all that and more”. Poi attacca la canzone e dimostra che quello che aveva detto era vero, non solo e non tanto per la canzone, quanto per l’interpretazione. Struggente, tragica, esemplificativa della cattiveria e dell’ingiustizia umane, capace di rendere il senso assolutamente individuale del riscatto, è una canzone che contiene davvero molto. L’interpretazione di Dylan è straziata, pienamente “dentro” ogni singola parola, anche di quelle parole che gli mancano, che si mastica e dimentica, anche con ciò dando il senso della disperazione e della mancanza di riconoscenza e gratitudine.
Oggi, invece, Dylan in queste sue nuove cover cerca di entrare nello spirito delle vecchie canzoni che interpreta, dei tempi che le hanno espresse. Un approccio completamente diverse. Invece di dylanizzare le canzoni, forse il contrario. Forse. Perché forse ci vorrà del tempo anche per capire questo.
Visualizzazione post con etichetta Shadows in the Night. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Shadows in the Night. Mostra tutti i post
lunedì 27 marzo 2017
domenica 24 maggio 2015
Bob Dylan 74
Come ogni 24 maggio non può mancare, in questo blog, un post celebrativo per il compleanno di Bob Dylan. Anche l’anno che è appena passato è stato un anno fruttuoso e pieno di cose buone, che lo vede arrivare al suo settantaquattresimo compleanno in piena attività e in pieno forma, reduce da una celebrata apparizione nella penultima puntata del leggendario Late Show with David Letterman.
Ma a parte questo l’anno trascorso ha visto l’uscita di un suo nuovo album, Shadows in the Night, che benché sia solo di cover si è presentato come di particolare interesse a testimonianza di una costante pregnanza del suo lavoro. Di notevole interesse è stata anche l’uscita del nuovo cofanetto della Bootleg Series, dedicato ai Basement Tapes (qui sopra la copertina), i nastri che Dylan registrò con la band nella quiete di Woodstock mentre, nel 1967, si riprendeva dai postumi del famoso incidente motociclistico. Monumentale raccolta di casualità e intenzionalità assortite, è una cornucopia musicale della cui importanza si è appreso nel corso dei decenni, a partire dalle molte cover di successo che di quelle canzoni fecero cantanti e gruppi dell’epoca (su tutti i Manfred Mann con The Mighty Quinn) e passando poi per il doppio album singolarmente poco fedele che uscì nel 1975 e per i vari bootleg succedutisi nel tempo.
Notevole è stata anche la partecipazione di Dylan a quella sorta di pre-Grammy che è stata la celebrazione MusiCares nel corso della quale ha tenuto un incredibile discorso di oltre mezz’ora, lucido ed esagerato al tempo stesso, brillante e per certi versi devastante, capace come sempre di essere fuori da qualunque schema e sorprendente per il modo diretto con cui ha detto alcune cose che nessuno pensava avrebbe mai detto. Una traduzione la trovate nel meritorio sito italiano dedicato a Bob Dylan, Maggie’s Farm.
E poi ci sono stati, come sempre da oltre un quarto di secolo, i concerti. Qualcuno si lamenta per la scaletta spesso bloccata, che ha tolto quell’imprevedibilità che eravamo soliti apprezzare nei concerti di qualche tempo fa. L’altra faccia di questa medaglia è che i concerti sono generalmente ottimi e che la sua voce è migliorata. Io penso che a questo punto, come sempre in fondo, sia bene prendere quello che Dylan, alla sua età, si sente di dare. Che è ancora molto.
Quest’anno torna anche in Italia e chi vuole potrà andare a vederlo. Io, naturalmente, sarò tra quelli che ci andranno.
Ma a parte questo l’anno trascorso ha visto l’uscita di un suo nuovo album, Shadows in the Night, che benché sia solo di cover si è presentato come di particolare interesse a testimonianza di una costante pregnanza del suo lavoro. Di notevole interesse è stata anche l’uscita del nuovo cofanetto della Bootleg Series, dedicato ai Basement Tapes (qui sopra la copertina), i nastri che Dylan registrò con la band nella quiete di Woodstock mentre, nel 1967, si riprendeva dai postumi del famoso incidente motociclistico. Monumentale raccolta di casualità e intenzionalità assortite, è una cornucopia musicale della cui importanza si è appreso nel corso dei decenni, a partire dalle molte cover di successo che di quelle canzoni fecero cantanti e gruppi dell’epoca (su tutti i Manfred Mann con The Mighty Quinn) e passando poi per il doppio album singolarmente poco fedele che uscì nel 1975 e per i vari bootleg succedutisi nel tempo.
Notevole è stata anche la partecipazione di Dylan a quella sorta di pre-Grammy che è stata la celebrazione MusiCares nel corso della quale ha tenuto un incredibile discorso di oltre mezz’ora, lucido ed esagerato al tempo stesso, brillante e per certi versi devastante, capace come sempre di essere fuori da qualunque schema e sorprendente per il modo diretto con cui ha detto alcune cose che nessuno pensava avrebbe mai detto. Una traduzione la trovate nel meritorio sito italiano dedicato a Bob Dylan, Maggie’s Farm.
E poi ci sono stati, come sempre da oltre un quarto di secolo, i concerti. Qualcuno si lamenta per la scaletta spesso bloccata, che ha tolto quell’imprevedibilità che eravamo soliti apprezzare nei concerti di qualche tempo fa. L’altra faccia di questa medaglia è che i concerti sono generalmente ottimi e che la sua voce è migliorata. Io penso che a questo punto, come sempre in fondo, sia bene prendere quello che Dylan, alla sua età, si sente di dare. Che è ancora molto.
Quest’anno torna anche in Italia e chi vuole potrà andare a vederlo. Io, naturalmente, sarò tra quelli che ci andranno.
mercoledì 20 maggio 2015
Bob Dylan da David Letterman
Lo show di David Letterman - The Late Show with David Letterman - va in pensione per sempre e lo fa con una serie di ospiti di riguardo. Tra questi, Bob Dylan che ha partecipato ieri sera cantando, con la sua band, The Night We Called It a Day, tratta dal suo recente album Shadows in the Night.
La performance è stata impeccabile, perfetta nei tempi e nel mood. Dylan si è presentato in versione senza cappello e, per quel che possono valere queste notazioni puramente estetiche, senza barba e baffi. Perfettamente a suo agio nei panni del crooner ha esibito una voce in grande forma, come del resto chi è andato ai concerti dell'ultimo paio d'anni ha già avuto modo di verificare (almeno in parte).
La cosa simpatica - che è stata notata da qualche appassionato - è che Letterman lo ha presentato come il più grande songwriter esistente e Dylan ha cantato una canzone non sua. Ma questo fa parte delle stranezze del personaggio e per la verità tanto strano non è dato che, come qualunque artista in Tv (ma non Dylan, di solito), ha cantato una canzone dal suo album più recente.
L'atmosfera soffusa e la resa eccellente anche della band hanno creato un momento del tutto sospeso nel tempo all'interno del programma.
Da ricordare che Dylan è stato altre volte da Letterman, come l'entertainer ha ricordato nella presentazione, richiamando in particolare la prima volta, nel 1984, quando lo show si chiamava ancora Late Night with David Letterman. In quella occasione, Dylan fu strepitoso: accompagnato da un trio punk interpretò in modo geniale tre canzoni tra cui Jokerman, in una versione particolarissima e scatenata.
Chi è interessato può trovare facilmente su YouTube l'interpretazione di ieri sera, ma è da segnalare che tutto lo show verrà trasmesso questa sera, credo alle 23.15 (ma controllate la guida tv online), su Rai 5. Don't dare miss it.
La performance è stata impeccabile, perfetta nei tempi e nel mood. Dylan si è presentato in versione senza cappello e, per quel che possono valere queste notazioni puramente estetiche, senza barba e baffi. Perfettamente a suo agio nei panni del crooner ha esibito una voce in grande forma, come del resto chi è andato ai concerti dell'ultimo paio d'anni ha già avuto modo di verificare (almeno in parte).
La cosa simpatica - che è stata notata da qualche appassionato - è che Letterman lo ha presentato come il più grande songwriter esistente e Dylan ha cantato una canzone non sua. Ma questo fa parte delle stranezze del personaggio e per la verità tanto strano non è dato che, come qualunque artista in Tv (ma non Dylan, di solito), ha cantato una canzone dal suo album più recente.
L'atmosfera soffusa e la resa eccellente anche della band hanno creato un momento del tutto sospeso nel tempo all'interno del programma.
Da ricordare che Dylan è stato altre volte da Letterman, come l'entertainer ha ricordato nella presentazione, richiamando in particolare la prima volta, nel 1984, quando lo show si chiamava ancora Late Night with David Letterman. In quella occasione, Dylan fu strepitoso: accompagnato da un trio punk interpretò in modo geniale tre canzoni tra cui Jokerman, in una versione particolarissima e scatenata.
Chi è interessato può trovare facilmente su YouTube l'interpretazione di ieri sera, ma è da segnalare che tutto lo show verrà trasmesso questa sera, credo alle 23.15 (ma controllate la guida tv online), su Rai 5. Don't dare miss it.
venerdì 3 aprile 2015
Bob Dylan - Shadows in the Night
A Bob Dylan è sempre piaciuto interpretare canzoni altrui. Se all’inizio della carriera - con le scorpacciate di blues, root songs, folk, Woody Guthrie e via discorrendo - poteva essere una necessità in attesa di rimpinguare un repertorio proprio, negli anni seguenti è stata una scelta ponderata con cui ritrovare l’ispirazione, ripercorrere la storia del proprio paese, rendere imaggio ad artisti più o meno o per niente famosi. In certi casi le cover sono state poco riuscite (Self Portrait e Dylan presentano alcuni esempi in questo senso, ma anche Knocked Out Loaded non scherza), più spesso sono state notevoli.
Una caratteristica degli esempi migliori è che, interpretandole, Dylan trasforma quelle canzoni facendole sue, rendendole qualcosa di diverso. Anche nei casi in cui l’originale sembrava lontano quantomeno dal suo stile se non dalla sua sensibilità. Superba ed evidente in questo senso è la sua versione di Soon di Gershwin, suonata da solo, chitarra e armonica, nel 1987 al Gershwin Gala di fronte a un pubblico dapprima sbigottito e poi conquistato. Parliamo di Gershwin, che di solito è eseguito da un’orchestra e che normalmente uno non avrebbe mai pensato potesse essere tra i musicisti nell’ambito di interesse di Dylan.
Ma che i gusti di Dylan siano molto più ampi di quelli della maggior parte dei suoi ammiratori è divenuto evidente nel periodo in cui Dylan ha, per così dire, fatto il dj con il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, una miniera di scoperte e riscoperte musicali a ruota libera e ampio raggio. Chi ha ascoltato quel programma non si è stupito che Dylan abbia deciso di realizzare un album di cover di canzoni associate a Frank Sinatra perché da lui cantate nelle varie fasi della sua lunga carriera. Né va dimenticato che Dylan ha suonato per Frank Sinatra nel concerto omaggio per i suoi 80 anni, dimostrando così la sua ammirazione per lui. Che stima e ammirazione fossero reciproci lo dimostra ancor più il fatto che Dylan fu l’unico in quella occasione a suonare una propria canzone invece che una cover sinatriana, su richiesta dello stesso Sinatra che gli chiese di cantare Restless Farewell (canzone che Dylan non eseguiva praticamente mai dal vivo) probabilmente perché ha una tematica che il vecchio crooner sentiva affine: potremmo infatti definirla la My Way di Bob Dylan.
Shadows in the Night, il nuovo album, contiene forse anche la canzone che Dylan avrebbe potuto o voluto cantare in quel concerto. Chissà. In ogni caso, è stato registrato praticamente live con la band con cui Dylan gira il mondo in questi anni, con arrangiamenti rispettosi dell’essenza delle canzoni; non rivoluzionari quindi nella sostanza, ma forse rivoluzionari nella forma perché fanno a meno del respiro orchestrale. Non siamo quindi dalle parti della rivisitazione demolitrice alla Sid Vicious di My Way. Dylan, come lui stesso ha riconosciuto, ha in sostanza contribuito a demolire quel mondo per davvero, rivoluzionando la musica e rendendo all’improvviso obsoleto un certo modo di farla. Il rispetto e l’ammirazione che invece lui prova per quella musica e quegli artisti - non tutti, ovvio, basta leggere il magistrale e geniale, anche nelle sue cattiverie che poteva in qualche caso risparmiarsi, tenuto improvvisamente e quasi a sorpresa al MusiCares qualche tempo fa per rendersene conto (trovate la traduzione integrale nel meritorio sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm - lo dimostra proprio un disco come questo.
Dylan non cerca, diversamente da quella versione di Soon, di rendere dylaniano Sinatra e nemmeno prova a rendere sinatriano se stesso, sapendo che non sarebbe possibile. Va però all’essenza delle canzoni e le interpreta al meglio delle sue attuali possibilità, con sorprendenti modulazioni vocali che la voce di questi anni sembrava impedirgli (ma nell’ultimo paio d’anni la voce, anche per una più sapiente scelta del tipo di musica, è nettamente migliorata anche nei concerti).
Non sono un esperto di Frank Sinatra, ma I’m a Fool to Want You, la canzone che apre l’album, la conoscevo bene e mi è sempre sembrata una delle migliori del repertorio di Sinatra per quel che ne potevo sapere. Notturna, cupa e amara. Dylan la ripercorre con grande sensibilità e vulnerabilità, dando verità a ogni parola: toccante e riflessiva, la canzone dà subito il tono giusto che l’album non perderà più. Qualcuno ha scritto che, per questo suo mantenersi in uno stesso mood, è un album monotono. Direi invece che è un album che crea un’atmosfera e la mantiene. Mi sembra più un pregio che un difetto.
Tra gli highlights del disco ci sono sicuramente Autumn Leaves, che, spogliata da ogni sovrastruttura, è una canzone struggente e di sana malinconia, Full Moon and Empty Arms, soffusa e fumosa, e Some Enchanting Evening, che si fa apprezzare per la sua levità in un contesto tendente al cupo. Di The Night We Called It a Day, romantica e avvolgente, ormai ci restano impresse e si sovrappongono nella memoria le immagini del suggestivo video che le è stato dedicato. Ma la canzone che secondo me spicca in assoluto - in un contesto uniformemente buono - è l’unica che Dylan aveva già più volte interpretato e che qui ripropone in modo del tutto diverso rispetto alle sue passate interpretazioni. That Lucky Old Sun, infatti, era stata proposta ben 23 volte in concerto nel 1986 durante la tournée con Tom Petty e gli Heartbreakers e poi era sporadicamente tornata anche nel cosiddetto Neverending Tour. Quindi, non una novità per i dylaniani. Ma le versioni del 1986 erano piene di energia, quasi rabbiose, molto rock, più che country, mentre le versioni del Neverending Tour privilegiavano, in versione acustica, la variante folk della canzone. Questa volta la resa è del tutto diversa. E notevole. La world-weariness sottesa nel testo emerge sommessa e potente nell’arrangiamento lento e avvolgente, con la voce che rende davvero il senso della stanchezza di fronte alle ingiustizie e alle fatiche della vita e del desiderio di avere da Dio la possibilità di non fare nulla e di starsene tranquilli come il sole a osservare, se proprio se ne ha voglia, l’umanità che si danna nelle sue inutili e frenetiche attività.
Certo, un album di originali dylaniani è un'altra cosa e un altro Tempest sarebbe stato ben più interessante, ma nello spirito di assoluta libertà nei fini e nei mezzi che caratterizza da sempre Dylan questa aggunta al suo canone è affascinante e soprattutto tende a persistere nella memoria e a farsi ascoltare sempre con piacere.
Una caratteristica degli esempi migliori è che, interpretandole, Dylan trasforma quelle canzoni facendole sue, rendendole qualcosa di diverso. Anche nei casi in cui l’originale sembrava lontano quantomeno dal suo stile se non dalla sua sensibilità. Superba ed evidente in questo senso è la sua versione di Soon di Gershwin, suonata da solo, chitarra e armonica, nel 1987 al Gershwin Gala di fronte a un pubblico dapprima sbigottito e poi conquistato. Parliamo di Gershwin, che di solito è eseguito da un’orchestra e che normalmente uno non avrebbe mai pensato potesse essere tra i musicisti nell’ambito di interesse di Dylan.
Ma che i gusti di Dylan siano molto più ampi di quelli della maggior parte dei suoi ammiratori è divenuto evidente nel periodo in cui Dylan ha, per così dire, fatto il dj con il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, una miniera di scoperte e riscoperte musicali a ruota libera e ampio raggio. Chi ha ascoltato quel programma non si è stupito che Dylan abbia deciso di realizzare un album di cover di canzoni associate a Frank Sinatra perché da lui cantate nelle varie fasi della sua lunga carriera. Né va dimenticato che Dylan ha suonato per Frank Sinatra nel concerto omaggio per i suoi 80 anni, dimostrando così la sua ammirazione per lui. Che stima e ammirazione fossero reciproci lo dimostra ancor più il fatto che Dylan fu l’unico in quella occasione a suonare una propria canzone invece che una cover sinatriana, su richiesta dello stesso Sinatra che gli chiese di cantare Restless Farewell (canzone che Dylan non eseguiva praticamente mai dal vivo) probabilmente perché ha una tematica che il vecchio crooner sentiva affine: potremmo infatti definirla la My Way di Bob Dylan.
Shadows in the Night, il nuovo album, contiene forse anche la canzone che Dylan avrebbe potuto o voluto cantare in quel concerto. Chissà. In ogni caso, è stato registrato praticamente live con la band con cui Dylan gira il mondo in questi anni, con arrangiamenti rispettosi dell’essenza delle canzoni; non rivoluzionari quindi nella sostanza, ma forse rivoluzionari nella forma perché fanno a meno del respiro orchestrale. Non siamo quindi dalle parti della rivisitazione demolitrice alla Sid Vicious di My Way. Dylan, come lui stesso ha riconosciuto, ha in sostanza contribuito a demolire quel mondo per davvero, rivoluzionando la musica e rendendo all’improvviso obsoleto un certo modo di farla. Il rispetto e l’ammirazione che invece lui prova per quella musica e quegli artisti - non tutti, ovvio, basta leggere il magistrale e geniale, anche nelle sue cattiverie che poteva in qualche caso risparmiarsi, tenuto improvvisamente e quasi a sorpresa al MusiCares qualche tempo fa per rendersene conto (trovate la traduzione integrale nel meritorio sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm - lo dimostra proprio un disco come questo.
Dylan non cerca, diversamente da quella versione di Soon, di rendere dylaniano Sinatra e nemmeno prova a rendere sinatriano se stesso, sapendo che non sarebbe possibile. Va però all’essenza delle canzoni e le interpreta al meglio delle sue attuali possibilità, con sorprendenti modulazioni vocali che la voce di questi anni sembrava impedirgli (ma nell’ultimo paio d’anni la voce, anche per una più sapiente scelta del tipo di musica, è nettamente migliorata anche nei concerti).
Non sono un esperto di Frank Sinatra, ma I’m a Fool to Want You, la canzone che apre l’album, la conoscevo bene e mi è sempre sembrata una delle migliori del repertorio di Sinatra per quel che ne potevo sapere. Notturna, cupa e amara. Dylan la ripercorre con grande sensibilità e vulnerabilità, dando verità a ogni parola: toccante e riflessiva, la canzone dà subito il tono giusto che l’album non perderà più. Qualcuno ha scritto che, per questo suo mantenersi in uno stesso mood, è un album monotono. Direi invece che è un album che crea un’atmosfera e la mantiene. Mi sembra più un pregio che un difetto.
Tra gli highlights del disco ci sono sicuramente Autumn Leaves, che, spogliata da ogni sovrastruttura, è una canzone struggente e di sana malinconia, Full Moon and Empty Arms, soffusa e fumosa, e Some Enchanting Evening, che si fa apprezzare per la sua levità in un contesto tendente al cupo. Di The Night We Called It a Day, romantica e avvolgente, ormai ci restano impresse e si sovrappongono nella memoria le immagini del suggestivo video che le è stato dedicato. Ma la canzone che secondo me spicca in assoluto - in un contesto uniformemente buono - è l’unica che Dylan aveva già più volte interpretato e che qui ripropone in modo del tutto diverso rispetto alle sue passate interpretazioni. That Lucky Old Sun, infatti, era stata proposta ben 23 volte in concerto nel 1986 durante la tournée con Tom Petty e gli Heartbreakers e poi era sporadicamente tornata anche nel cosiddetto Neverending Tour. Quindi, non una novità per i dylaniani. Ma le versioni del 1986 erano piene di energia, quasi rabbiose, molto rock, più che country, mentre le versioni del Neverending Tour privilegiavano, in versione acustica, la variante folk della canzone. Questa volta la resa è del tutto diversa. E notevole. La world-weariness sottesa nel testo emerge sommessa e potente nell’arrangiamento lento e avvolgente, con la voce che rende davvero il senso della stanchezza di fronte alle ingiustizie e alle fatiche della vita e del desiderio di avere da Dio la possibilità di non fare nulla e di starsene tranquilli come il sole a osservare, se proprio se ne ha voglia, l’umanità che si danna nelle sue inutili e frenetiche attività.
Certo, un album di originali dylaniani è un'altra cosa e un altro Tempest sarebbe stato ben più interessante, ma nello spirito di assoluta libertà nei fini e nei mezzi che caratterizza da sempre Dylan questa aggunta al suo canone è affascinante e soprattutto tende a persistere nella memoria e a farsi ascoltare sempre con piacere.
mercoledì 4 marzo 2015
The Night We Called It a Day: il nuovo video di Bob Dylan
Il nuovo video di Bob Dylan è dedicato alla canzone The Night We Called It a Day, tratta dall’album di standard sinatriani Shadows in the Night, ed è un divertito omaggio al mondo del noir, del quale recupera le scelte figurative, con un bianco e nero modulato in ombre e luci, e i personaggi tipici, non esclusa la dark lady, che del noir è presenza caratteristica e quasi imprescindibile.
Come ho scritto più volte, anche nel mio Il cinema di Bob Dylan, Dylan ha spesso mostrato interesse per il cinema e per il cinema noir in particolare. Già una volta aveva tentato di utilizzarne stili e contenuti per un video, ma quella volta l’esperimento era sostanzialmente fallito, pur se i presupposti sembravano ideali. Il regista prescelto infatti era Paul Schrader, un autore di tutto rilievo, avvezzo ad aggirarsi nei meandri esistenziali dei thriller neo-noir. Anche la canzone prescelta quella volta (Tight Connection to My Heart) era “giusta” perché ricca in sé di riferimenti a quel mondo con citazioni bogartiane o comunque hard-boiled e una “storia” che era un film in miniatura, opaca e sfuggente come quelle dei noir. E tutto l’album da cui quella canzone era tratta (Empire Burlesque) si segnalava per un gioco di rimandi e citazioni cinematografiche. La scarsa convinzione di Schrader e un approccio forse troppo moderno e di (volontaria o involontaria) parodia portarono alla scarsa riuscita del tentativo, all’interno del quale Bob Dylan, come “attore”, risultava spaesato.
Gli ultimi video mostrano invece un Dylan più a suo agio, fermamente intenzionato a divertirsi impersonando dei cliché che gli sono evidentemente cari. Nash Edgerton, regista di tutti gli ultimi video di Dylan, sembra aver trobvato la chiave giusta per valorizzarlo con una sapiente miscela di anticonformismo, ironia ed eleganza formale, spesso all’insegna di una violenza che nel caso del video di Duquesne Whistle era “realistica” e metaforica e qui è invece chiaramente ironica e, se può esserlo la violenza, nostalgica.
Bob Dylan, in un ruolo affabilmente bogartiano, è affiancato in modo godibile da un veterano di Hollywood come Robert Davi (Trappola di cristallo e moltissimi altri film), faccia giusta da gangster se mai ve ne sono state, e si esibisce in un simpatico intreccio da doppio-triplo gioco, cui si presta anche una bionda dark lady dallo sguardo assassino, interpretata in modo più che adeguato da Tracy Phillips.
L’effetto complessivo è gradevole e a volte spiazzante. La ricerca formale non è tanto rivolta a una ricreazione esatta del noir degli anni ‘40, quanto a quella della sua “idea”, del suo “mito” e in questo senso si giustificano anacronismi e apparenti imprecisioni filologiche. Come nel caso di Duquesne Whistle, ciò che accade nel video non ha diretto collegamento con la canzone, ma se in quel caso esprimeva comunque in un certo modo l’anima dell’album da cui era tratta (Tempest), in questo caso rimanda al mondo fumoso e torbido dei night club cui The Night We Called It a Day comunque appartiene.
Il video è facilmente vedibile su YouTube.
Come ho scritto più volte, anche nel mio Il cinema di Bob Dylan, Dylan ha spesso mostrato interesse per il cinema e per il cinema noir in particolare. Già una volta aveva tentato di utilizzarne stili e contenuti per un video, ma quella volta l’esperimento era sostanzialmente fallito, pur se i presupposti sembravano ideali. Il regista prescelto infatti era Paul Schrader, un autore di tutto rilievo, avvezzo ad aggirarsi nei meandri esistenziali dei thriller neo-noir. Anche la canzone prescelta quella volta (Tight Connection to My Heart) era “giusta” perché ricca in sé di riferimenti a quel mondo con citazioni bogartiane o comunque hard-boiled e una “storia” che era un film in miniatura, opaca e sfuggente come quelle dei noir. E tutto l’album da cui quella canzone era tratta (Empire Burlesque) si segnalava per un gioco di rimandi e citazioni cinematografiche. La scarsa convinzione di Schrader e un approccio forse troppo moderno e di (volontaria o involontaria) parodia portarono alla scarsa riuscita del tentativo, all’interno del quale Bob Dylan, come “attore”, risultava spaesato.
Gli ultimi video mostrano invece un Dylan più a suo agio, fermamente intenzionato a divertirsi impersonando dei cliché che gli sono evidentemente cari. Nash Edgerton, regista di tutti gli ultimi video di Dylan, sembra aver trobvato la chiave giusta per valorizzarlo con una sapiente miscela di anticonformismo, ironia ed eleganza formale, spesso all’insegna di una violenza che nel caso del video di Duquesne Whistle era “realistica” e metaforica e qui è invece chiaramente ironica e, se può esserlo la violenza, nostalgica.
Bob Dylan, in un ruolo affabilmente bogartiano, è affiancato in modo godibile da un veterano di Hollywood come Robert Davi (Trappola di cristallo e moltissimi altri film), faccia giusta da gangster se mai ve ne sono state, e si esibisce in un simpatico intreccio da doppio-triplo gioco, cui si presta anche una bionda dark lady dallo sguardo assassino, interpretata in modo più che adeguato da Tracy Phillips.
L’effetto complessivo è gradevole e a volte spiazzante. La ricerca formale non è tanto rivolta a una ricreazione esatta del noir degli anni ‘40, quanto a quella della sua “idea”, del suo “mito” e in questo senso si giustificano anacronismi e apparenti imprecisioni filologiche. Come nel caso di Duquesne Whistle, ciò che accade nel video non ha diretto collegamento con la canzone, ma se in quel caso esprimeva comunque in un certo modo l’anima dell’album da cui era tratta (Tempest), in questo caso rimanda al mondo fumoso e torbido dei night club cui The Night We Called It a Day comunque appartiene.
Il video è facilmente vedibile su YouTube.
domenica 25 maggio 2014
Bob Dylan 73
Come di consueto, ma questa volta per cambiare con un giorno di ritardo, celebriamo il genetliaco di Bob Dylan con qualche considerazione sparsa, la prima delle quali è che il nostro fortunatamente è sempre sulla breccia, con un'energia e una vitalità che mi sento di invidiare. La caratteristica più saliente e positiva è che la voce - che indubbiamente aveva mostrato segni di logoramento - si è rivelata nell'anno appena trascorso sorprendentemente migliore che negli scorsi anni. Che sia per l'adozione di un modo di cantare più pacato, che sia per un miglioramento effettivo delle corde vocali, il risultato è notevole soprattutto nei frangenti più espressivi. Consiglio l'ascolto, a questo proposito, di una qualsiasi delle versioni di Huck's Tune dai recenti concerti giapponesi.
La scaletta "bloccata" - un'eresia se consideriamo che la varietà e l'imprevedibilità delle scalette sono sempre state una caratteristica saliente dei concerti di Bob Dylan (almeno dal cosiddetto Never Ending Tour in poi), tale da renderli sempre unici - ha lasciato spazio a qualche variante sorprendente, come appunto l'inserimento, qua e là, di questa canzone, scritta per il film di Curtis Hanson Le regole del gioco (ne ho parlato diffusamente nel mio Il cinema di Bob Dylan), non troppo conosciuta, ma sicuramente una delle migliori degli anni 2000.
L'altra grande novità, che lascia aperte interessanti prospettive per l'immediato futuro, è la canzone Full Moon & Empty Arms, che si può ascoltare nel sito di Bob Dylan e che dovrebbe essere l'apripista di un album in uscita (forse) quest'estate, dal titolo (forse) di Shadows in the Night, che (forse) sarà solo di cover (forse) di Sinatra (o di altri). La canzone - portata al successo proprio da Sinatra nel 1945, è gradevole e ricca di atmosfera. Dylan canta con voce perfetta da crooner e anche questa è una buona conferma dello stato di salute delle sue corde vocali.
Restiamo in attesa dell'album: certo, preferisco gli album con materiale originale (l'ottimo Tempest è stato l'ultimo, nel 2012), ma se anche fosse di cover, andrebbe bene comunque. Come diceva Dylan di Gregory Peck, sarei in ogni caso (idealmente) in fila per l'acquisto.
La scaletta "bloccata" - un'eresia se consideriamo che la varietà e l'imprevedibilità delle scalette sono sempre state una caratteristica saliente dei concerti di Bob Dylan (almeno dal cosiddetto Never Ending Tour in poi), tale da renderli sempre unici - ha lasciato spazio a qualche variante sorprendente, come appunto l'inserimento, qua e là, di questa canzone, scritta per il film di Curtis Hanson Le regole del gioco (ne ho parlato diffusamente nel mio Il cinema di Bob Dylan), non troppo conosciuta, ma sicuramente una delle migliori degli anni 2000.
L'altra grande novità, che lascia aperte interessanti prospettive per l'immediato futuro, è la canzone Full Moon & Empty Arms, che si può ascoltare nel sito di Bob Dylan e che dovrebbe essere l'apripista di un album in uscita (forse) quest'estate, dal titolo (forse) di Shadows in the Night, che (forse) sarà solo di cover (forse) di Sinatra (o di altri). La canzone - portata al successo proprio da Sinatra nel 1945, è gradevole e ricca di atmosfera. Dylan canta con voce perfetta da crooner e anche questa è una buona conferma dello stato di salute delle sue corde vocali.
Restiamo in attesa dell'album: certo, preferisco gli album con materiale originale (l'ottimo Tempest è stato l'ultimo, nel 2012), ma se anche fosse di cover, andrebbe bene comunque. Come diceva Dylan di Gregory Peck, sarei in ogni caso (idealmente) in fila per l'acquisto.
Iscriviti a:
Post (Atom)