giovedì 29 dicembre 2011
Rosco e Sonny e la notte del lupo
Nel n. 1 datato 1° gennaio 2012 del Giornalino - attualmente in edicola - c'è una nuova avventura di Rosco e Sonny, i dinamici poliziotti dei quali scrivo le storie. Questa nuova storia - la n. 180 tra quelle che ho scritto io - si intitola La notte del lupo e vede i due intrepidi agenti in un paesino dell'Est europeo alle prese con qualcosa di decisamente inquietante.
I disegni sono come sempre dell'ottimo Rodolfo Torti e qui sopra ne potete vedere un esempio.
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domenica 18 dicembre 2011
Recensione di Francesco Troiano su La Stampa al Dizionario dei film horror
Nel quotidiano La Stampa di ieri e in particolare nel glorioso inserto Tuttolibri, Francesco Troiano - che ringrazio per l'attenzione - si occupa tra l'altro della nuova edizione ampliata e riveduta del mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego). Qui sopra una scansione della recensione.
domenica 4 dicembre 2011
Dizionario dei film horror nuova edizione: il regista più presente
Come scrivevo in questo post, l’indice dei registi contenuto nel mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego) è utile non solo per ricostruire filmografie e seguire i percorsi nel genere compiuti dai registi che l’hanno percorso, ma anche per piccole ricerche statistiche un po’ futili, ma divertenti (almeno per me, che, ribadisco, mi diverto anche con poco, ma più spesso ancora non mi diverto affatto). In quel post (e ripeto, se volete leggerlo, andate in quel post, senza reconditi doppi sensi ma in senso puramente letterale), rinviavo a un post successivo lo svelamento del risultato matematico che, partendo da quell’indice, consentiva di ricavare il regista più presente nel Dizionario.
È passato abbastanza tempo (quasi 20 mesi) perché chiunque si sia dimenticato di quello che avevo scritto allora, perciò posso tornare sull’argomento e rivelare il nome del regista in questione, conscio che ormai non interessa più a nessuno, se mai a qualcuno è interessato. Questo è quindi un esempio di informazione del tutto libera (nei fini) e gratuita (sotto tutti i profili). Ma c’è di più: allora avrei potuto dire chi era il regista con più film nel vecchio Dizionario, mentre ora posso dire qual è quello che ha più film nella nuova edizione del Dizionario, che come ben sapete è assai più ampia e corposa.
Se avessi dovuto dare una risposta prima di dare un’occhiata all’indice, avrei detto che il regista più presente era David DeCoteau, ma pur essendo ben piazzato con i suoi 20 film, il regista canadese non è al primo posto: è che vedere i suoi film è stato spesso così soporifero che mi sono sembrati un numero impressionante. Anche Wes Craven ha 20 titoli all’attivo, ma di ben altro spessore, almeno mediamente. Il terzo che può vantare 20 film è Lucio Fulci, maestro dell’horror italiano. Più film di questo terzetto ce li ha Freddie Francis, grandissimo direttore della fotografia e buon regista con punte di eccellenza: 21 dei suoi film sono compresi nel Dizionario dei film horror (Terence Fisher, altro maestro britannico - di qualità superiore, va detto - si ferma a 18). Ma il vincitore, il più presente, non poteva che essere Jesus Franco, inarrivabile a 28 titoli: dire che è prolifico sarebbe sottovalutare la quantità della sua produzione. Non ho fatto conteggi precisi, ma non escluderei che sia in assoluto il regista con il maggior numero di film all’attivo (e, diciamocelo, con qualcuno anche al passivo) della storia del cinema. A titolo di curiosità, posso rilevare, tra i molto presenti, anche due coppie padre-figlio. Lamberto Bava batte (numericamente) il suo glorioso papà Mario per 16 a 14, mentre René Cardona sr batte il suo omonimo junior per 9 a 5.
Detto questo, i numeri sono solo numeri: quello che conta è vedere i film e, ça va sans dir, leggere il Dizionario dei film horror (o almeno comperarlo, va bene lo stesso).
venerdì 25 novembre 2011
Witchcraft through the Ages
La figura di Benjamin Christensen mi ha sempre incuriosito, almeno a partire da quando, molti anni fa, ho visto La stregoneria attraverso i secoli al locale cineclub. Un film stranissimo, inquietante e unico: un reperto del cinema muto (è del 1922) che regge ancora oggi senza aver subito gli oltraggi del passare degli anni. Un docudrama si direbbe adesso, ma per la sua particolare natura un film in realtà indefinibile, anticipatore del realismo e del neorealismo per certi aspetti eppure immaginifico e visionario quanto pochi altri.
Withcraft through the Ages - The Story of Haxan, the World’s Strangest Film and the Man Who Made It di Jack Stevenson (FAB Press, 128 pagg., £ 6.99) ripercorre la creazione di questo capolavoro - in originale Haxan e cioè La strega - la sua realizzazione e distribuzione, il suo esito al botteghino, la sua accoglienza critica e le sue innumerevoli resurrezioni, come quella prodotta (e rimaneggiata) da Anthony Balch (Diario proibito di un collegio femminile) con un posticcio commento audio letto niente meno che da William Burroughs, nel ‘68.
Ma il libro ripercorre anche e soprattutto la vicenda artistica e umana (anche se dell’uomo, della sua vita privata, si sa molto poco e i dettagli noti sono spesso sfuggenti) di Benjamin Christensen, artista riconosciuto e assolutamente libero al momento della realizzazione di Haxan - un film nato senza condizionamenti e realizzato esattamente come voleva il suo autore - e poi vittima di compromessi e pregiudizi, a partire dalla sua avventura hollywoodiana, nel corso della quale ha realizzato l’altro film per il quale è ancora oggi ricordato (Sette passi verso Satana, ovvero Seven Footprints to Satan) e che è finita nel più curioso dei modi in un bizzarro anticlimax.
Il libro traccia, anche attraverso documenti e recensioni dell’epoca, il faticoso ritorno al cinema in Danimarca, con la realizzazione di quattro film, l’insuccesso dell’ultimo dei quali conclude l’avventura realizzativa di Christensen, contento di finire tranquillamente e nell’agiatezza la sua vita gestendo un cinema. Parabola unica e non priva di insegnamenti, di un artista che ha osato l’inosabile e ha innovato più di quanto fosse consentito, un po’ come Orson Welles con Quarto potere, un altro film rivoluzionario realizzato esattamente secondo gli intendimenti dell’autore, ma a caro prezzo. Un prezzo che sarebbe stato pagato dopo e per sempre.
giovedì 24 novembre 2011
I Fantastici 4 e i loro film
Avevo già parlato qui delle mega celebrazioni in corso nel sito Lo Spazio Bianco e relative ai Fantastici Quattro. Se avete seguito il programma giornaliero avrete visto quante belle cose sono uscite, sia dal punto di vista grafico sia da quello "scritto". Se non avete invece seguito potete usufruire degli indubbi vantaggi di internet e recuperare in un botto solo la cornucopia di tutti questi giorni.
In ogni caso, segnalo che oggi è uscito (ma non rientrerà molto presto per cui avete comodamente tutto il tempo per leggervelo) il mio modesto contributo che, come forse avevo già preannunciato, si occupa di cinema e si intitola I "Fantastici" tre film dei Fantastici Quattro, dove l'uso delle virgolette mi fa venire in mente Prima pagina di Billy Wilder (e chi l'ha visto puà capire perché, sempre che non sia passato un bel po' di tempo da quando l'ha visto e non si sia conseguentemente dimenticato tutto nel frattempo). Per leggere il mio contributo, basta che andiate qui.
Qui sopra un'immagine dal primo film dei Fantastici Quattro: è solo una mia impressione o Mr. Fantastic assomiglia molto a Fiorello?
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sabato 19 novembre 2011
Flani (12): Blacula
Era da un po' che non postavo qualche vecchio flano e quindi lo faccio adesso, visto che ci sono. Il flano di questa volta riguarda un vecchio esempio di blaxploitation (quella particolare variante dell'exploitation caratterizzata dal fatto di essere interpretata da cast di colore e diretta prevalentemente a un pubblico di colore), realizzato proprio nel momento di massima espansione del fenomeno. Un fenomeno assai interessante che ha visto la partecipazione di registi di assoluto livello come Jack Hill e Larry Cohen e ha creato alcuni divi di notevole spessore come Pam Grier, Fred Williamson, Richard Roundtree e altri ancora che non nomino perché sicuramente li conoscete tutti.
Blacula sarebbe la contrazione di Black Dracula (lo dico per quelli che non si dilettano di enigmistica) ed è un film simpatico con alcune particolarità: il suicidio del vampiro, per esempio, e la storia d'amore che prelude a quella del Dracula coppoliano (uno dei film più sopravvalutati o sottovalutati della storia del cinema, a seconda di quali valutazioni andiamo a prendere in considerazione). William Marshall è un ottimo attore con voce imponente e modi solenni. Il contesto è un po' meno solenne, ma il film diverte comunque. Basta accontentarsi ed essere nella giusta disposizione d'animo (non chiedetemi quale, però).
Il flano, per non sbagliarsi, va alla grande con l'enfasi. Mi ricordo che quando il film è uscito credevo, con quel titolo, che fosse una parodia. Poi quando sono andato a vederlo mi ha fatto piacere constatare che non lo era (che fosse quella la disposizione d'animo giusta?), ma di certo non si è avverata la solenne profezia del flano e il film non è stato annoverato tra i classici del terrore. Non ancora, almeno. E dato che la profezia non ha una data di scadenza non è da escludere che il film possa essere considerato un classico nel futuro, chissà tra qualche secolo magari quando l'essere derivativo sarà ritenuto un pregio assoluto. Di sicuro, però, Blacula non è diventato il padrone del mondo, né nella realtà né nel film (e nemmeno nel seguito Scream, Blacula, Scream, inedito in Italia). Assetato, però, lo era certamente e su questo il flano non si sbaglia.
Bei tempi, quando si vedevano flani del genere e uscivano al cinema cose di questo tipo. C'era se non altro più varietà. Comunque, se vi capita dategli un'occhiata: nel Dizionario dei film horror gli ho dato due stellette e mezza, non male.
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Leo & Lou
Per una serie di ragioni, non leggo molti fumetti ultimamente, ma ho letto questo volume e ne sono rimasto favorevolmente impressionato, perciò mi sembra opportuno segnalarvelo. Il titolo è Leo & Lou (come i più avvertiti avranno anticipato dal titolo del post) e l’autrice è Agata Matteucci: 82 pagine in bianco e nero, grande formato, brossurato, Edizioni Il Foglio.
I due del titolo sono fidanzati e la particolarità del fumetto, articolato in pagine singole con gag finale, è quella di vederli sempre in camera da letto, prevalentemente a letto, mentre parlano di questo e di quello. La tradizione è quindi quella del fumetto comico-intellettuale che una volta trovava spazio nelle riviste di fumetti che adesso sostanzialmente non ci sono più. L’autrice, nell’interessante postfazione, rivela le proprie ispirazioni, che vanno da Watterson a Schulz a, in particolare, Claire Bretecher. Segue quindi la tradizione alla quale ho accennato prima, ma lo fa con sufficiente garbo e inventiva da smarcarsene proponendo un piccolo universo del tutto personale. Il segno grafico è semplice, ma accattivante e ben eseguito: ci sono qua e là reminiscenze manga e la cosa non stona nel contesto. I testi sono spesso brillanti, con battute conclusive che riescono quasi sempre a dare un senso compiuto e spiazzante alla fase preparatoria. Anche se il tono è di frequente disilluso, le vicende sono pervase da un’umanità che le positivizza e le allontana, per esempio, dal pessimismo funzionale ed efficace, ma programmatico, della Bretecher. La lettura è piacevole e seguire la dialettica tra questi due personaggi - in parte schematici ma ben tratteggiati nel contrasto - fa desiderare, una volta concluso il libro, che possano tornare in un’altra serie di avventure immobili.
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venerdì 18 novembre 2011
Rosco, Sonny e il fantasma della prigione
Sul n° 47 de Il Giornalino, quello attualmente in edicola, c'è una nuova avventura di Rosco e Sonny (la centottantunesima che ho scritto) intitolata Il fantasma della prigione.
Le prigioni abitate da fantasmi più o meno vendicativi sono un luogo narrativo, un topos come potrebbero forse dire i colti, non molto frequentato, ma non sconosciuto. Per citare solo un film, ricordo Prison di Renny Harlin, regista poi approdato a super produzioni come 58 minuti per morire, ma spesso frequentatore dell'ambiente horror (da Nightmare 4 a The Covenant, per non parlare dell'Esorcista - La genesi, quello ufficiale).
Nella storia di Rosco e Sonny spira tutt'altra aria, ma l'intrico è, come si dice, intricato e potrebbe consentire un quarto d'ora di divertimento.
I disegni sono come sempre dell'ottimo Rodolfo Torti e qui sopra ne vedete un esempio.
giovedì 10 novembre 2011
Bob Dylan e Mark Knopfler a Padova: una recensione.
Di nuovo a Padova a distanza di poco più di un anno (del precedente concerto ho parlato qui). E con Mark Knopfler. Da non credere per la comodità (per me, naturalmente). Diversamente dall’anno scorso, stavolta i posti a sedere nel Palafabris - caratterizzato ahimè da un’acustica ben poco commendevole - non sono davanti al palco, ma in fondo e ai lati, nelle tribune e gradinate del palazzetto. Il campo da gioco, invece, è riservato ai posti in piedi. Evidentemente, si è preso atto dell’impossibilità di impedire l’accesso al fronte palco ai soliti noti.
Comunque. Il Palafabris era assai gremito. Non ce l’ho fatta a contare tutti i presenti perché ho subito finito le dita delle mani, ma il colpo d’occhio era imponente. Con perfetta puntualità, notevole professionalità e grande cordialità, Mark Knopfler si è presentato sul palco circa alle nove con una nutrita band di sette elementi (più Knopfler) con chitarre e altri strumenti a corda in bella evidenza. Come anticipato dagli altri concerti del tour, il set è stato composto prevalentemente da pezzi del repertorio “solo” di Knopfler, perlopiù ignoti al pubblico che ha però dimostrato educatamente di gradire. Il tono era da folk-rock alla britannica, soft e sufficientemente delicato, con ampi spazi per virtuosismi strumentali non solo di Knopfler. I momenti topici, nei quali il pubblico si è sicuramente scaldato di più (al di là del fatto che la temperatura media del palazzetto era torrida) sono stati quelli dell’esecuzione di due vecchi e gloriosi cavalli di battaglia dei Dire Straits: la fantastica e sempre struggente Brother in Arms e la coinvolgente So Far Away, eseguite come di consueto quale premio finale alla disponibilità della folla.
Qualche minuto per la risistemazione del palco ed è stata la volta di Bob Dylan, accompagnato dalla sua solita band di cinque elementi (l’immarcescibile Tony Garnier al basso, George Recile alla batteria, Stu Kimball alla chitarra ritmica, Charlie Sexton alla chitarra più o meno solista e Donnie Herron a tutto il resto). Nei primi quattro brani, com’è divenuta consuetudine di questo tour, si è unito a loro Mark Knopfler, come guest star alla chitarra.
Il confronto tra la band di Dylan e quella di Knopfler sulle prime può sembrare impietoso: più elegante, raffinata, tecnicamente ineccepibile e maggiormente “colorata” nei toni e nelle sfumature del ricamo musicale quella dell’ex Dire Straits. Però è probabile che il sound attuale del gruppo di Dylan sia rispondente a una scelta precisa. Sexton, per fare un esempio, è chitarrista abile e virtuoso: se adesso brilla poco e ha poco spazio per assoli trascinanti non è perché non li sappia fare. Dylan, forse anche per lo stato della sua voce (rotta, strappata, gracchiante: anche se, curiosamente, non sempre), punta a un rock-blues tosto, duro, aspro, molto percussivo e ritmato, a volte troppo quadrato forse, ma anche capace di suadenti nuance. Non c’è più spazio per l’arpeggio elettrico alla Grateful Dead di una volta o al gioco chitarristico acustico che era tipico dei concerti degli anni ‘90. Il sound attuale è evidentemente quello che Dylan vuole e la band lo realizza con adesione. Possono esserci rimpianti per ciò che non c’è più, ma, per quanto mi riguarda, preferisco godermi quello che c’è, che non è affatto poco.
La scaletta è stata il consueto alternarsi tra pezzi scatenati e pezzi più riflessivi.
Leopard-Skin Pill-Box Hat ha aperto il concerto con la giusta enfasi sul ritmo, arricchito dai florilegi chitarristici di Mark Knopfler a dare respiro musicale. È un vecchio cavallo di battaglia un po’ abusato, ma sempre capace di scaldare l’ambiente.
It Ain’t Me, Babe è tra i vecchi pezzi uno di quelli che più soffre per l’arrangiamento duro cui è stato sottoposto. Nonostante gli interventi di Knopfler, si è persa l’atmosfera suggestiva di un vero e proprio manifesto dell’indipendenza sentimentale. Eppure, all’epoca del tour del ‘66 e della Rolling Thunder Revue, It Ain’t Me, Babe era stato elettrificato e roccheggiato in modo assai convincente. Bello l’assolo di armonica, comunque.
Things Have Changed è invece una canzone che migliora con gli anni, sempre più attuale, sempre più simbolo di anni di disillusione. Superba la resa di Dylan che “recita” simpaticamente i versi senza detrarne significato, ma anzi aggiungendo amara e ironica consapevolezza. Notevole il lavoro di Knopfler alla chitarra e strepitosa l’armonica di Dylan, stridente e agghiacciante (non quanto quella di Mama You Been On My Mind ai Festival di Phoenix, ma ci siamo vicini).
Mississippi: versione dira e spigolosa di una delle migliori canzoni del repertorio recente di Dylan. Knopfler, alla sua ultima partecipazione, la arricchisce con la sua inconfondibile chitarra e la potenza della canzone emerge fumante e tagliente.
Honest With Me, con Dylan alla chitarra, è il classico pezzo funzionale a intervallare canzoni più pregnanti. Devo dire che è un brano che non mi ha mai detto granché e continua a non dirmelo, ma è un bluesaccio elettrico che mantiene quello che promette.
Tangled Up in Blue: un altro classico, ultimamente rivitalizzato da un ennesimo nuovo arrangiamento che se non altro ne rinvigorisce l’indubbio fascino (è una delle più belle canzoni di Blood on the Tracks). Notevole il lavoro all’armonica di Dylan.
The Levee’s Gonna Break, in tempi di inondazioni ha la sua attualità (High Water sarebbe stata ancora più pregnante, oltre che più bella) e svolge una funzione simile a quella di Honest With Me, ma con maggiore qualità.
Desolation Row è tra i super classici, una canzone che per definizione non può deludere. L’arrangiamento è quello ormai consueto da decenni, con appena qualche spigolosità in più. La parata di mostri resta sempre amaramente vera.
Highway 61 Revisited: questa non manca mai, immutabile e immarcescibile.
Man in the Long Black Coat: una delle canzoni più profonde, belle di Dylan, da un album di eccezionale spessore (Oh Mercy), in un nuovo arrangiamento, soft e ritmato,arricchito da un’armonica straziante. Forse il punto più alto della serata, inquieto e inquietante.
Thunder on the Mountain: divertissement eseguito con brio e con gusto.
Ballad of a Thin Man: un’altra canzone che non delude mai e che, semplicemente, Dylan non riesce a eseguire male. Un’altra ottima versione, senza i giochi di luce che eravamo abituasti a vedere, ma con una sostanza concreta e spiazzante che non ha perso un grammo della sua forza nonostante i 46 anni d’età.
All Along the Watchtower: ha occupato per anni il terzo slot della scaletta e tuttora è una delle canzoni più eseguite in concerto. Anche questa è una canzone che riesce sempre bene, ma stavolta è stata un po’ in tono minore, senza lo sviluppo devastante e trascinante cui siamo stati abituati. Non male, comunque.
Like A Rolling Stone è stata la degna conclusione con la sua rabbia classica nella descrizione di una caduta precipitosa dal benessere che non è solo il destino di un singolo ma, di questi tempi, sembra poter essere quello di intere nazioni che forse scopriranno come ci si sente a non avere più una direzione verso casa. Devastante e scatenata.
Non c’è spazio per i bis, consuetudine rarissima in questo tour da doppio programma. Non ci si può però lamentare: dalle nove sin quasi a mezzanotte di musica serrata e senza pause. Niente male.
Il bello delle migliori canzoni di Bob Dylan è di rifiutarsi di essere datate, di acquistare sempre nuovi significati in aderenza con i tempi che cambiano, senza che esse abbiano bisogno di cambiare.
Dylan è apparso vivace, di buon umore, ha dispensato sorrisi e ha accennato a passi di danza: la sua voce è rotta, ma resta espressiva. Sembra piacergli quello che fa. E piace anche a me (quello che fa lui).
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martedì 1 novembre 2011
Recensione di Franco Pezzini al Dizionario dei film horror nuova edizione
Segnalo con piacere questa recensione di Franco Pezzini - che ringrazio per l'attenzione - al Dizionario dei film horror nuova edizione. La recensione è stata pubblicata sul blog dell'Indice dei libri del mese - gloriosa e indispensabile rivista sulle uscite librarie e non solo - e la trovate facendo un clic su questo link.
venerdì 28 ottobre 2011
Insidious
Oggi esce nei cinema Insidious, il nuovo film di James Wan, quello di Saw, per intenderci. Stavolta si occupa, sostanzialmente, di fantasmi e, se volete sapere cosa ne penso, potete leggere la recensione che ho scritto per MyMovies. Questo è il link alla recensione.
Qui sopra un’immagine dal film, con Lin Shaye in evidenza.
I Fantastici Quattro: tempo di anniversari
Sul sito fumettistico Lo Spazio Bianco sta per avviarsi la celebrazione del cinquantenario dei Fantastici Quattro. Questo è il link all’articolo di presentazione dell’iniziativa, scritto dal prode Davide Occhicone. Leggetelo perché vi troverete i dettagli della lunga celebrazione, che durerà per tutto il mese di novembre e anche oltre, rilasciando quotidianamente omaggi grafici (a comporre qualcosa di decisamente singolare) e articoli in tema. I collaboratori sono di primo piano e alcuni di loro sono già svelati nell’articolo di Davide: non li anticipo qui per non rovinare la sorpresa.
Ci sarà anche un mio modesto contributo alla causa il cui argomento, non sorprendentemente, è, per dirla in sintesi, “I Fantastici 4 al cinema”, inteso non nel senso di una descrizione dei film che i Fantastici Quattro vanno a vedere al cinema, se e quando ci vanno, né in quello di una descrizione del loro comportamento in una sala cinematografica, sempre se e quando ci vanno: è invece, anche qui non sorprendentemente, una trattazione dei film dedicati al quartetto. Magari quando esce lo segnalo anche qui. Però chi apprezza i Fantastici Quattro farà bene a fiondarsi all’istante sul link di cui sopra.
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martedì 18 ottobre 2011
Recensione di Gordiano Lupi al Dizionario dei film horror
Gordiano Lupi - che colgo l'occasione per ringraziare - ha scritto una recensione alla nuova edizione ampliata e aggiornata del mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego). Se volete leggerla, la trovate qui.
Quella qui sopra è come sempre la gloriosa copertina del Dizionarione.
venerdì 14 ottobre 2011
Rosco e Sonny sui pattini
Sul numero 42 del Giornalino - quello attualmente in edicola - c'è una nuova avventura di Rosco e Sonny intitolata Sui pattini e, poiché un buon titolo non deve mai mentire (se non quando è utile che lo faccia), i due dinamici agenti vanno veramente sui pattini, sempre alla caccia di malviventi.
I disegni, come di consueto, sono dell'ottimo Rodolfo Torti e la sceneggiatura è mia (per l'esattezza, Sui pattini è la centosettantottesima avventura di Rosco e Sonny che ho scritto: quando si dice la precisione, eh?). Buona lettura a chi deciderà di leggerla. Quanto agli altri, Amedeo Nazzari docet.
Qui sopra un paio di vignette.
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mercoledì 12 ottobre 2011
The Museum of Wonders
Dell’esordio di Domiziano Christopharo nel lungometraggio - House of Flesh Mannequins - ho parlato nella nuova edizione del Dizionario dei film horror. Questo secondo film, The Museum of Wonders, conferma le qualità stilistica del regista in un contesto figurativamente più compatto e narrativamente più equilibrato. Il risultato è una affascinante rilettura felliniana di Freaks, senza la devastante potenza eversiva e la carica rivoluzionaria del film di Browning, la cui trama è nei fatti basilari simile, ma con una trasognata riflessività che rende il film comunque originale e interessante, ambientato com’è in una sorta di teatro-circo-cabaret dove vive una moltitudine di personaggi strani e curiosi.
Il nano Marcel (Fabiano Lioi) sta per sposarsi con Olimpia (Adele Tirante), ma ama la bella Salomè (Valentina Mio), che gli spilla soldi approfittando della sua passione e suscitando la gelosia della promessa sposa. Il rude e forzuto Sansone (Francesco Venditti) abbandona bruscamente l’amareggiata compagna per coltivare la relazione con Salomè e approfittare dei generosi lasciti di Marcel. Sansone si chiede però come mai Marcel sia così ricco. Quando scopre che si tratta della pingue eredità della nonna di Marcel, pensa a come impossessarsene assieme a Salomè. Il modo è semplice: Salomè dovrà sposare Marcel, con tutto quel che ne consegue. Ma l’avidità non potrà che portare dolore e sangue.
Un film singolare, sui generis, totalmente svincolato da mode e tendenze attuali e, anche per ciò solo, spavaldo e coraggioso, strano e affascinante. Rievocare un classico maledetto come Freaks è un progetto ambizioso. Cristopharo lo realizza enfatizzando il melodramma e accompagnandosi a celebri arie liriche che incrementano in modo naturale il pathos. Riletture, ispirazioni, citazioni e richiami sono rielaborati in modo autonomo e la cifra stilistica di Cristopharo si precisa ulteriormente acquisendo ancora maggiore personalità rispetto al già notevole House of Flesh Mannequins che, dalla sua, aveva l’efficienza e il fascino dei meccanismi horror oltre a un consistente tasso di erotismo. Costellati di aforismi taglienti e fulminanti che è sempre un piacere sentire - “Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri?” (Jean Cocteau); “Se non avessimo difetti, non proveremmo tanto piacere a notare quelli degli altri” (François de La Rochefoucauld) - i dialoghi accompagnano con forbita eloquenza le immagini cercando la profondità e talvolta trovandola. L’uso delle canzoni - con Giovanna, indimenticata protagonista della canzone italiana, in evidenza - è cruciale nell’aumentare lo straniamento teatrale e nel commentare il procedere ineluttabile del dramma. Quello che comunque più si nota è l’incessante ricerca di giochi visuali, ricchi di simbolismi surreali, di una raffinatezza che pone su un piano astratto e senza tempo la riflessione sulla marginalità e sulle differenze, sull’amara non omologabilità dei diversi che costituisce il tema centrale del film. Resta qualche compiacimento di troppo, qualche lungaggine un po’ narcisistica in cui il film si specchia su se stesso e sulla bellezza delle sue immagini tralasciando il ritmo narrativo e prolungando il tempo di proiezione oltre quanto sarebbe utile e oltre quanto un montaggio più serrato e meno compiacente suggerirebbe. In questo, è compartecipe l’impostazione teatrale della rappresentazione, che si svolge sostanzialmente tutta in interni per aprirsi simbolicamente all’esterno solo nel finale. Ma sono difetti di esuberanza che non inficiano la bontà dell’insieme.
Il cast è notevole anche nei ruoli di contorno, con più di qualche illustre cameo (Maria Grazia Cucinotta e Ruggero Deodato in evidenza). Maria Rosaria Omaggio è una presenza di rilievo, mentre Valentina Mio dà cattiveria e fascino al personaggio di Salomè, la cui avidità si direbbe disumana se non fosse in realtà sin troppo umana. Le fanno da contraltare un adeguato Francesco Venditti, in un ruolo ricco di sfumature, tutt’altro che tipizzato e il bravo Fabiano Lioi. Giampiero Ingrassia e il glorioso Venantino Venantini offrono sapienti prove d’attore in ruoli analoghi che fungono da collante alla storia, commentandola, seguendola e presentandola.
Gli spettatori del museo delle meraviglie vengono a vedere le stranezze, le stupefazioni della marginalità, della diversità. Gli spettatori di questo film, in un gioco di rimandi, si trovano nella medesima situazione, ma senza, forse, lo stesso senso di colpa: li aspetta un viaggio nell’insolito che difficilmente li deluderà.
sabato 8 ottobre 2011
Final Destination 5
Il nuovo capitolo di questa saga, ormai abbonata al 3D, è uscito ieri nei cinema italiani e chi vuole può leggere la mia recensione su MyMovies: si trova qui.
Qui sopra il buon vecchio Tony Todd in un'immagine dal film (Tony Candyman Todd è presente, in un modo o nell'altro, in quattro dei cinque film della serie).
venerdì 7 ottobre 2011
Unfacebook
Questa volta diamo uno sguardo all’horror indipendente, caratterizzato da low-budget e ferma determinazione.
Dopo diversi cortometraggi horror e un lungometraggio di carattere religioso (Una vita nel mistero), il giovane regista pugliese Stefano Simone si dedica al thriller con Unfacebook, interamente girato a Manfredonia e tratto da un racconto (Il prete) di Gordiano Lupi. La storia percorre i desolati sentieri del disagio urbano cospargendoli di sangue.
Un bambino è testimone di un delitto a sangue freddo commesso da due giovani ai danni di un terzo. Anni dopo, un giovane prete svolge la sua missione in una zona popolare cittadina, trovandosi a confronto con indifferenza e miserie di quella realtà, sia insegnando a una classe di studenti svogliati e sviati sia raccogliendo torbidi segreti in confessionale. A un certo punto, la misura si colma e il prete prende a bersagliare i peccatori ricordando loro le colpe commesse. La conseguenza è un triplice e sanguinoso suicidio. Un commissario indaga pressato dal questore, mentre il prete prosegue nella sua opera e nasce una nuova misteriosa chat per i giovani chiamata Unfacebook, che è molto più di quel che sembra.
La buona volontà c’è e non mancano di evidenziarsi qualità soprattutto di regia, ma il film si scontra con alcuni difetti strutturali che ne minano in parte l’efficacia. Narrativamente, la materia sarebbe stata più adatta a un corto o mediometraggio, oppure, per essere adattata a lungometraggio, avrebbe avuto bisogno di un maggiore approfondimento di personaggi e situazioni. La sceneggiatura tralascia di curare la psicologia dei personaggi che restano appena sbozzati, anche quelli cruciali per la giustificazione del percorso narrativo. Non a caso, le sequenze migliori sono quelle di pura azione, svincolate dalle parole e dalle necessità narrative nelle quali la regia può dispiegarsi più liberamente: su tutte, quelle della aggressioni che punteggiano la fase centrale del film, risolte con buona tecnica e adeguata tensione. Superate le fasi introduttive ed esposte le premesse alla storia, infatti, il film acquista adeguati toni da incubo quotidiano e non mancano scene di suggestiva e crudele bellezza che dimostrano la buona mano di Simone. Le fasi espositive, con i loro lunghi dialoghi, sono in genere meno riuscite anche a causa di una recitazione non sempre all’altezza (un difetto, questo, endemico nelle produzioni indipendenti). Il film risulta quindi suddiviso tra sequenze raccontate quasi esclusivamente per immagini - generalmente efficaci e riuscite - e sequenze molto dialogate, meno centrate.
Lo spunto narrativo è interessante e richiama antichi e gloriosi precedenti nel cinema degli anni ’70 (da Pete Walker a diverso cinema italiano di genere) fondendoli con pulsioni "elettroniche" più aggiornate, ma, a parte lo schematismo caratteriale che riduce l’impatto e attenua il discorso morale, è sviluppato in modo talvolta sbrigativo. La soluzione dell’enigma - o meglio la traccia che porta alla soluzione - è un po’ tirata per i capelli, sembrando una scorciatoia semplicistica (basta una rivista di informatica per generare un sospetto) per arrivare al dunque.
Esteticamente, il film mostra segnali di ricercatezza. Il gioco con i colori trasfigura efficacemente la realtà, anche se è talvolta ripetitivo. La fotografia (dello stesso Simone) passa da un iperrealismo che tende volontariamente ad abbruttire e abbrutire a immagini più soffuse che ammantano di contorni sognanti il passato e altri aspetti del concreto: da segnalare la trasformazione quasi fumettistica di alcune sequenze urbane, figurativamente singolare e riuscita. L’uso della macchina a mano è talora eccessivo: asseconda la concitazione, ma la sottolinea sin troppo. L’ambientazione è molto azzeccata soprattutto nella scelta degli esterni, che accompagnano spesso con il degrado ambientale quello dell’anima. Tra gli interpreti si fanno notare per disinvoltura, in ruoli di supporto, Pia Conoscitore (anche coautrice della sceneggiatura) e Tonino Pesante, già protagonista di Una vita nel mistero. Da segnalare la musica di Luca Auriemma che dà alle immagini la giusta suggestione.
Nell’insieme un film non privo di pecche, ma che si fa vedere volentieri e le cui qualità segnano un ulteriore passo avanti nella maturazione del regista.
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lunedì 26 settembre 2011
Il Dizionario dei film horror nuova edizione e i film a cinque stelle
Le stellette sono state un’invenzione simpatica, ideale per una sintesi del giudizio critico che aveva tanto più valore quanto più il giudizio era forzatamente ridotto ai minimi termini, come nei paginoni dei quotidiani che presentavano l’elenco dei film in programmazione. Un’usanza, quella, propria soprattutto dei quotidiani della sera che, in un’epoca in cui gli aggiornamenti delle notizie non avevano ancora raggiunto lo spasmodico ritmo delle reti di sole news o di internet, avevano ancora una funzione. Mi divertivo a guardare le paginate della Notte o del Corriere d’informazione per sapere le stellette di questo o di quel film e leggere la riga (o al massimo due) di commento. Ma dovevo stare attento: quella riga era spesso capace - soprattutto nel caso della Notte - di svelare il finale riassumendo tutto il film in una frase.
Oggi le stellette abbondano soprattutto nei Dizionari di cinema, ma restano comunque un divertissement. I critici seri e paludati spesso le aborrono perché sembrano come i voti dati a scuola e le opere d’arte non si meritano voti di quel genere. Io, che non sono per nulla paludato (ricordate, non vuol indicare qualcuno immerso in una palude) e che a volte mi diverto ancora, le ho regolarmente messe nel mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego). E non ho potuto fare a meno di notare come qui e là ci sia stata qualche piccola discussione su questo o quel numero di stellette assegnato. È normale e anche giusto. La cosa più difficile in questi casi è riuscire a garantire una certa uniformità di giudizio. Nel caso dei dizionari con più collaboratori questa uniformità mi pare una chimera. Nel caso dei dizionari, come il mio, scritti da un’unica persona questo dovrebbe essere più facile. E lo è, ma nonostante questo talvolta la deriva del momento può portare a premiare qualche film con una mezza stella in più e a penalizzare un altro con una mezza stella in meno.
Ricordo che alla presentazione della vecchia edizione al PesarHorror Fest (un bel festival di cui si sente la mancanza: spero che possa tornare), un lettore mi aveva fatto notare che il primo Halloween, per la sua importanza anche storica, era stato un po’ penalizzato con le su tre stelle e mezza. Avevo convenuto, promettendo di portarlo a quattro stelle nella successiva edizione. Cosa che ho fatto. Come questo, possono esserci altri casi e in effetti altri film sono stati soggetti a variazioni di stellette: invito però a ricordare che per la sua stessa natura il giudizio in stellette è solo una sintesi approssimativa, ciò che conta è quanto scritto prima delle stellette, da cui dovrebbero capirsi in modio più preciso limiti e qualità del film.
Detto questo, la gradazione in stellette consente anche di individuare il ristretto numero di film premiato con il massimo dei voti e anche questo ha avuto i suoi risvolti problematici, per me. Fermo restando che con due stellette un film è sufficiente, con tre è buono, con quattro è ottimo, con cinque (vale a dire eccezionale) dev’essere un capolavoro, non del singolo regista, ma in assoluto. E i capolavori, per la loro stessa natura, sono pochi. Quando ho dato le stellette non pensato a contingentare la categoria: ho dato le cinque stellette quando mi pareva giusto. Alla fine, mi è stato fatto notare da chi aveva fatto i conti che i film a cinque stelle della prima edizione erano venti (su 2404). Magari per qualcuno potevano esserci dei film al posto di altri, ma la percentuale, se si riferisce a capolavori, mi pare accettabile.
In questa seconda edizione, i film a cinque stelle diventano 22, con l’aggiunta di due titoli stagionati ma non comparsi nella prima edizione (erano e restano inediti in Italia). Si tratta di Horrors of Malformed Men di Teruo Ishii e di Jigoku di Nobuo Nakagawa, due film giapponesi molto diversi ma egualmente importanti, che consiglio vivamente di vedere a ogni appassionato non tanto e non solo di horror quanto di cinema.
giovedì 22 settembre 2011
Camp Hope
La nuova puntata della mia rubrica Horror Frames su MyMovies si occupa di Camp Hope, un film di George VanBuskirk che cerca di toccare in chiave più o meno horror il tema dell'estrema ortodossia religiosa e delle sue possibili conseguenze. Se volete leggere cosa ne penso, basta che andiate qui.
Mi sembra solo il caso di aggiungere che nel cast ci sono un paio di vecchie volpi come Bruce Davison - il cui personaggio è centrale nella storia e lui lo interpreta molto bene - e Andrew McCarthy in quello che può essere classificato come un cameo esteso. Davison, per chi se lo fosse dimenticato, è stato, tra le tantissime sue interpretazioni, il Willard originale, quello di Willard e i topi. McCarthy ha un pedigree meno illustre, ma qualche commedia simpatica lo ha visto tra i protagonisti (per esempio Weekend con il morto che all'epoca ebbe un sorprendente successo qui da noi).
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lunedì 12 settembre 2011
I maggiori incassi horror della stagione cinematografica 2010/2011
L’avevo già fatto l'anno scorso e lo rifaccio anche quest’anno (non è che ogni anno rifaccio quello che ho fatto l’anno precedente, ma questa cosa sì) e quindi compilo la classifica degli incassi dei film horror nella stagione cinematografica da poco conclusa. Le motivazioni per questo genere di operazione sono contenute nel post dell’anno scorso che potete sempre trovare qui e pertanto non mi dilungo.
Come l’altra volta ho preso i dati dalla classifica dei Top 100 come potete trovarla nel sito di MyMovies (se vi interessa - e come può non interessarvi? - la trovate qui), estrapolando gli horror e tirandone fuori questa classifica: la posizione tra parentesi è quella che il film occupa nella classifica generale dei Top 100 tanto per dare un’idea dell’impatto degli horror nella classifica complessiva. Il periodo di riferimento è quello della classica stagione cinematografica che va dall’agosto a luglio e la classifica è questa:
1 (37) Saw 3D € 5.360.768
2 (42) Mordimi € 4.353.522
3 (44) Resident Evil - Afterlife € 4.121.104
4 (49) Il rito € 3.543.708
5 (65) Paranormal Activity 2 € 2.791.283
6 (75) Dylan Dog - Il film € 2.379.964
7 (87) L’ultimo esorcismo € 1.828.254
8 (88) Cappuccetto rosso sangue € 1.825.722
9 (91) ESP - Fenomeni paranormali € 1.663.857
Paragonando la classifica attuale a quella dell’anno scorso risulta subito evidente il minore impatto del genere tra le uscite cinematografiche: è mancato il film fenomeno - come la stagione scorsa era stato Paranormal Activity (il seguito ha avuto minore impatto) - e la presenza complessiva si è ridotta, arrivando ad appena nove titoli su 100. Inoltre, siamo orfani, per il momento, degli stratosferici incassi dei film romantico-vampireschi di Twilight (ma, per chi ne sente la mancanza, torneranno). Nessuno dei film in classifica presenta caratteristiche di particolare novità e questo non è un bene. Ci sono, ai primi posti, due capitoli di lunghe franchise ormai spompate - Saw e Resident Evil, entrambe esteticamente rivitalizzate dall’ormai quasi altrettanto spompato 3D - e una parodia dal fiato corto. Poi ci sono un paio di film esorcistici e ben tre reality horror (L’ultimo esorcismo appartiene a entrambe le tipologie ed è anche probabilmente il più interessante) a testimoniare i colpi di coda di un meccanismo narrativo ormai entrato in corto circuito. Cappuccetto rosso sangue cerca di rinnovare i fasti del sentimental horror attraverso una rivisitazione sin troppo poco iconoclasta di una classica fiaba. Dylan Dog rappresenta invece il solo horror tradizionale, facendo sorgere l’inevitabile domanda: era necessario scomodare un personaggio dei fumetti per denaturalizzarlo così tanto?
Altri film da cui ci si sarebbe aspettato di più hanno fallito l’ingresso nella top 100, primo fra tutti Scream 4, che ha floppato anche negli USA segnalando come fosse un film uscito veramente fuori tempo massimo. L’incasso italiano (€ 1.276.000 è davvero poca cosa). Un’altra franchise storica che ha mancato l’ingresso nei top 100 è Nightmare, il cui reboot ci è arrivato comunque vicino (incasso di circa un milione e mezzo di euro) mancando il colpo per la mancanza di novità e del “vero” Freddy Krueger, Robert Englund. Ma se anche questi due film fossero in classifica non avrebbero cambiato ovviamente il giudizio complessivo sulla carenza di innovazione.
Speriamo di meglio in futuro e speriamo soprattutto che i distributori nostrani diano uno sguardo un po’ più ampio al panorama, scegliendo di distribuire qualcuno dei non pochi horror interessanti provenienti da varie parti del mondo.
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mercoledì 7 settembre 2011
Alcune cose che si possono imparare dalle canzoni di Bob Dylan
L’altro giorno mi è capitato di leggere questo post in un blog, SometimesRhymes: il titolo è 10 Life Lessons from Bob Dylan. Mi ha incuriosito e l’ho trovato interessante: l’autore (R.T. Packard) trae dalle canzoni (e non solo) di Bob Dylan dieci “lezioni di vita” e spiega il motivo per il quale le considera tali. Ho pensato di farlo anch’io, per una specie di gioco, senza alcuna pretesa: non mi sono messo a elaborare teorie o a studiare i testi per trarne i versi più significativi sotto il profilo che qui interessa. Ho semplicemente elencato i versi che mi sono venuti in mente e che più si adattavano allo scopo e invece di metterne 10 ne metto 12, tanto per strafare (ma potrebbero essere 100 senza troppo sforzo). Sono a volte consigli, altre delle piccole perle di saggezza, altre ancora suggerimenti che potrebbe darvi vostra nonna, con la sapienza degli anni. Ho tralasciato quelli più noti (come To live outside the law you must be honest, che vengono subito in mente e sono ancora brillantissimi, ma sarebbero una scelta un po’ ovvia) per privilegiarne alcuni che penso meno conosciuti. Prendetelo come un divertissement, niente di più, ma se volete ascoltare le canzoni da cui sono tratti i versi, vi farete senz’altro un favore:
1. I was born here and I’ll die here against my will. Rielaborazione talmudiana, d’accordo, ma fulminante nella sua riflessione sull’impotenza umana a incidere sul proprio destino. Tratto da Not Dark Yet, inclusa nell’album Time Out of Mind del 1997.
2. God is in heaven/And we all want what’s his/But power and greed and corruptible seed/Seem to be all that there is. In poche parole, un quadro simpatico che ci spiega come mai le cose vanno come vanno: è una cosa da tenere a mente, serve per capire il mondo in cui viviamo. Tratto da Blind Willie McTell, outtake di Infidels del 1983 e incluso in The Bootleg Series 1-3 (1991).
3. Behind every beautiful thing, there’s been some kind of pain. Dove il riferimento non riguarda tanto o non solo la sofferenza dell’artista, quanto il fatto che dietro ogni cosa c’è qualcuno che ha sofferto e/o è stato sfruttato per farla. Questi versi sono anche nella lista che ho citato sopra, ma repetita iuvant. Ancora tratto da Not Dark Yet.
4. He said every man’s conscience is vile and depraved/You cannot depend on it to be your guide/When it’s you you must keep it satisfied. Il contesto è più ampio e in realtà, nella canzone, è una frase riportata, ma il succo del discorso è chiaro, la riflessione è nitida e ciò che ne risulta è una ricerca di valori trascendenti o quantomeno provenienti dall’esterno, da una morale maiuscola. In termini più noirish, è quello che si ricava da un altro verso proveniente da una delle grandi canzoni sottovalutate, Brownsville Girl, che ha il torto di essere capitata nel disco sbagliato (Knocked Out Loaded, 1986): You always said people don’t do what they believe in/They just do what’s most convenient, then they repent.
5. Some people never worked a day in their life/Don’t know what work even means. Questa è una verità che dobbiamo ricordarci per cercare di capire perché le cose siano così eminentemente sbagliate: perché questi versi non sono certo per descrivere dei disoccupati, ma delle persone che se la passano benissimo alle spalle degli altri senza nemmeno conoscere cosa sia il lavoro. E anche il verso precedente (I can live on rice and beans) è significativo nel contesto. Tratto da Workingman’s Blues #2, incluso nell’album Modern Times del 2006 (non a caso anche il titolo di un film di Chaplin sull’aberrazione del lavoro in fabbrica). Dalla stessa canzone un altro verso che va molto bene per questi tempi: The buying power of the proletariat’s gone down/Money’s getting shallow and weak, assieme all’altro: They say low wages are a reality/If we want to compete abroad. E cose come queste ci sono anche in canzoni assai antiche di Dylan come North Country Blues del 1964. Dedicato ai maestri della globalizzazione e del lavoro flessibile.
6. You got something better, you’ve got a heart of stone. Questo invece è dedicato al cinismo opportunista di chi preferisce distruggere le convinzioni altrui invece che svilupparne di proprie. Tratto da Property of Jesus, nell’album Shot of Love (1981).
7. The world is old, the world is grey/Lessons of life can’t be learned in a day. Ovvero la rassegnazione di fronte all’incessante ripetersi degli stessi errori. Come non puoi imparare la lezione di una vita in un giorno, così non puoi sperare di trasmettere ciò che hai imparato a chi vorresti non commettesse errori di inesperienza che tu magari hai già commesso. Tratto dalla maestosa e amarissima Cross the Green Mountain dalla colonna sonora del film Gods and Generals (2003).
8. When you cease to exist then who will you blame? Lo so, questa è criptica, ma fa riflettere. Da una canzone altrettanto criptica e affascinante, Angelina, un outtake di Shot of Love (1981), riemersa solo molti anni dopo in The Bootleg Series 1-3 (1991).
9. But even the President of the United States sometimes must have to stand naked. Ovvero l’aggiornamento e la rivisitazione del re è nudo: una verità che veniva accolta regolarmente con un boato nella tournée del 1974, all’epoca del Watergate. Vale ancora oggi. Tratto da It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding) dall’album Bringing It All Back Home (1965).
10. May you have a strong foundation when the winds of changes shift. Perché i venti del cambiamento non sono qui quelli del progresso sociale, ma quelli che ti fanno dimenticare le tue convinzioni e i tuoi valori per convenienza o comodità. Sembra - e forse è - una banalità, ma è un augurio sincero. È nella canzone Forever Young, una canzone piena di luoghi comuni riscattati dall’interpretazione. Ne ho già parlato ampiamente qui. Dall’album Planet Waves (1974).
11. So when you see your neighbor carryin’ somethin’/Help him with his load/And don’t go mistaking Paradise/For that home across the road. Solidarietà senza illusioni e una riflessione sulla religione istituzionalizzata. Questi versi appartengono a The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest, dall’album John Wesley Harding (1967).
12. When you think that you’ve lost everything/You find out you can always lose a little more. Un’evoluzione amara del verso “when you ain’t got nothing/you got nothing to lose” contenuto in Like a Rolling Stone: questi nuovi versi danno il senso di come nemmeno non avere nulla ti liberi sul serio: c’è sempre qualcosa in più che si può perdere con tutto quello che ne consegue. Da Tryin’ To Get to Heaven, contenuta nell’album Time Out of Mind.
E per il momento, that’s all folks.
martedì 6 settembre 2011
Stake Land
Dopo l'apocalisse può capitare di trovarsi in un mondo percorso da torme di vampiri assetati di sangue. Era successo nel romanzo Io sono leggenda e nei vari film che ne sono stati tratti (tre direttamente, altri indirettamente), succede ancora in Stake Land, nuovo film di Jim Mickle, l'autore di Mulberry Street.
Dato che non mi faccio mancare niente, l'ho visto e ne ho parlato nella rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies: se volete leggere cosa ho scritto andate qui.
Qui sopra invece Danielle Harris (scommetto che indovinate da soli quale è dei tre senza che ve lo dica io) nel film: un'attrice che ha al suo attivo ben quattro Halloween è sempre al posto giusto in un horror.
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lunedì 5 settembre 2011
Terence Fisher su Segnocinema
Prima o poi penso che, se ne avrò la possibilità, scriverò un libro su Terence Fisher. I motivi per farlo sono molti: è un regista grazie al quale ho scoperto il cinema horror, è un regista tutto sommato da noi ancora largamente incompreso e sottovalutato, è un regista che possiede uno stile inconfondibile a servizio di tematiche personali di cui è possibile cogliere il filo attraverso quasi la sua intera opera. Inoltre, è un regista di cui vedo e rivedo volentieri i film, il che non è un argomento da poco per un oggetto di studio.
Per il momento, però, mi sono limitato a un lungo articolo che si intitola Il fascino discreto del male - I film dimenticati di Terence Fisher. Lo trovate sul numero 171 di Segnocinema attualmente in libreria: è il numero che contiene il sontuoso speciale dedicato a Tutti i film dell’anno a cura di Mario Calderale ed è perciò imperdibile a prescindere, come diceva Totò. Sicuramente a prescindere dal mio articolo: quando molti anni fa ho scoperto, da lettore, Segnocinema in libreria è stato proprio attraverso lo speciale di Tutti i film dell’anno, un dizionario di tutte le uscite con schede sintetiche ma significative che subito mi sembrarono imprescindibili.
Tornando a Fisher, l’argomento del mio articolo è la carriera pre-horror di Terence Fisher, composta da un non trascurabile numero di film di vario genere. Spesso tralasciati da chi si occupa del regista, sono invece interessanti e premonitori della successiva grandezza. La gran parte è costituita da noir intensi e atmosferici come Home to Danger, Face the Music e The Stranger Came Home, ma non mancano film di fantascienza come il curioso Four Sided Triangle e melodrammi ai confini dell’horror come Volto rubato. I titoli sono parecchi e poco conosciuti: ve li lascio scoprire nell’articolo, se avrete la bontà di leggerlo. Potrebbe essere l’occasione per scoprire il volto nascosto di un autore complesso e tutt’altro che monocorde, tenuto anche presente che parecchi di questi film sono ora disponibili in dvd (d’accordo, solo pochi in italiano, ma ormai siamo gente di mondo e dobbiamo sapere le lingue, no?).
Storia del cinema horror italiano Vol. 1 - Il Gotico
L’horror italiano è partito con grave ritardo rispetto ad altre cinematografie, ma, quando l’ha fatto, l’ha fatto innestando il turbo, accumulando in breve tempo film originali e significativi e consacrando autori apprezzati e imitati anche all’estero. Gordiano Lupi - scrittore e critico cinematografico con un curriculum comprendente una impressionante quantità di volumi - si è posto l’obiettivo di tracciarne la storia partendo dalle origini e arrivando ai nostri giorni, quando dell’horror italiano restano solo tracce ed episodi singoli. Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone Vol. 1 - Il Gotico (Edizioni Il Foglio, 224 pagine, € 15) è il primo volume di una serie che - come si legge nel piano dell’opera con cui inizia il libro - dovrebbe comprendere altri cinque volumi con un ritmo di due uscite all’anno, se l’iniziativa incontrerà il favore del pubblico. Gli altri volumi saranno questi: Vol. 2 - Dario Argento e Lucio Fulci; Vol. 3 - Joe D’Amato e il cannibal movie; Vol. 4 - Splatter, esorcistico e horror metropolitano; Vol. 5 - Horror Anni Ottanta; Vol. 6 - Horror Anni Novanta e Duemila.
Ogni libro, al di là di considerazioni generali, va giudicato sempre in relazione agli obiettivi che si prefigge. Il risvolto di copertina indica con evidenza gli intenti dell’autore che sono quelli tracciare una storia del cinema horror italiano senza pretese di completezza, ma puntando "a fare un po’ di ordine in un panorama poco studiato". Per far questo, Lupi ha scelto di ordinare la materia per registi, aderendo all’ormai consolidata consuetudine che vede nel regista il vero “autore” dei film, fermo restando che ogni film è comunque il risultato di uno sforzo collettivo. È una convenzione non priva di fondamento, nata dalla cosiddetta politique des auteurs a opera dell’allora critico Françoise Truffaut. Per quanto riguarda i nomi principali dell’horror esaminati nel libro, c’è da dire che tale convenzione si rivela del tutto veritiera: Riccardo Freda, Mario Bava, Antonio Margheriti - per nominarne solo alcuni - sono registi che danno un’impronta personale ai loro film, tale da contraddistinguerli in modo assoluto. In particolare Mario Bava, il cui stile è così unico e originale da aver dato luogo a imitazioni in ogni epoca e latitudine: il suo uso del colore, per fare solo un esempio, è rimasto proverbiale e l’aggettivo “baviano” è tradotto in tutte le lingue.
Lupi esamina la carriera horror dei registi principali - oltre a quelli su nominati anche Giorgio Ferroni (autore dell'indimenticabile Il mulino delle donne di pietra) - ma non trascura la miriade di registi che hanno realizzato film più o meno minori o si sono dedicati al genere in modo assai sporadico, spesso realizzando solo un film. Per ogni regista traccia la parabola della carriera dando specifico risalto, naturalmente, alle loro incursioni nell’horror, anche quando talvolta è solo un elemento tra i diversi che compongono un film: è il caso di diversi pepla, che spesso prendevano una deriva fantasy sconfinante nell’orrore puro. L’approccio è quello divulgativo: la scrittura è semplice e scorrevole e non mancano dati e aneddoti. Per ogni film trattato, viene esposta la trama (anche, ahimè, raccontandone più di qualche volta colpi di scena e finale: è una questione di preferenze personali, ma io meno so di un film che devo vedere e meglio sto), seguita da un commento critico e da un breve compendio dei pareri di altri critici per dare un quadro più completo dell’accoglienza ricevuta dal film. Inoltre - e questo è un aspetto sicuramente interessante - ci sono più di qualche volta le reminiscenze di Dardano Sacchetti ed Ernesto Gastaldi, relativamente a pellicole alle quali hanno collaborato come sceneggiatori. Gastaldi - autore tra l’altro del copione di La frusta e il corpo e L’orribile segreto del dr. Hichcock, due classici dell’horror italiano - scrive anche la simpatica introduzione al volume ed è protagonista di una delle tre interessanti interviste a cura di Emanuele Mattana - gli altri intervistati sono Dardano Sacchetti e Antonio Tentori - che chiudono il libro. Nell’insieme, il volume rappresenta una buona introduzione all’argomento e può essere senz’altro di interesse a chi voglia un agile compendio su una materia su cui c’è sempre molto da scrivere.
sabato 27 agosto 2011
Jimmy Sangster (1927-2011)
Nell’ultimo post, del tutto casualmente, parlavo della Hammer e oggi torno a parlarne per commemorare uno dei suoi esponenti più brillanti e decisivi, lo sceneggiatore, produttore e regista Jimmy Sangster, morto il 19 agosto scorso a 83 anni d’età (era nato il 2 dicembre 1927).
Il sarcasmo, il brillante umorismo, la capacità di trovare chiavi di lettura innovative in materiale consunto sono solo alcune delle qualità che rendono così valido il lavoro come sceneggiatore di Sangster nei primo horror della Hammer. La maschera di Frankenstein è tipica in questo senso e il ritratto complesso e articolato che Sangster fa del Barone, aiutato in questo dall’eccellente interpretazione di Peter Cushing, parla da solo. La vendetta di Frankenstein avrebbe portato alla perfezione questo insieme di umorismo nero e orrore, aggiungendovi un pathos melodrammatico tale da arricchire la tenuta e la presa della storia. Ma Sangster era anche capace di produrre copioni stringati che andavano dritti al cuore della storia, senza dilungarsi in divagazioni e scevri da quell’umorismo che pure gli era evidentemente tanto caro: Dracula il vampiro, insuperata versione del romanzo di Bram Stoker, pur con tutte le libertà che Sangster si era dovuto prendere rispetto alla fonte, è un esempio più che probante. Tutto ciò tenendo presente che Sangster non provava un particolare interesse per l’orrore gotico, essendo più orientato verso lo psycho-thriller e i meccanismi del giallo, un genere che avrebbe molto praticato anche come romanziere.
Infatti, una volta consolidata la sua posizione come sceneggiatore principe della Hammer, ne aveva approfittato per dare il via a una serie di psycho-thriller di stile hitchockiano (ma tendenzialmente un po’ più macabri e perversi) a partire con il sottile e raffinato La casa del terrore diretto da Seth Holt (un autore da riscoprire, per chi non lo conosce): sarebbero poi seguiti diversi altri titoli di questo genere, come Il rifugio dei dannati, Il maniaco, L’incubo di Janet Lind, Hysteria e il notevole Nanny la governante con un cast fantastico capitanato da Bette Davis e con Jill Bennett e Pamela Franklin in evidenza (anche la regia di quest’ultimo film è di Seth Holt).
Per quanto il distacco e la modestia lo portassero a sottovalutare con ironia il proprio apporto al genere, l'horror gli deve molto per la sua capacità di svecchiare le convenzioni e di formularne di nuove: in quei pochi anni a cavallo tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60, Sangster è stato capace di osare l'inosabile e di farlo con una levità e una brillantezza che lasciano capire come il suo talento fosse del tutto naturale, sbocciato dopo una dura gavetta che l'aveva visto partire sedicenne dai gradini più bassi della scala gerarchica dell'industria cinematografica. Uno degli ultimi testimoni di un'epoca se n'è andato, ma, naturalmente, restano le sue opere.
Il passaggio alla regia sarebbe stato più problematico. Il tentativo di Gli orrori di Frankenstein è chiaro: realizzare una commedia nerissima. Il risultato ha alcuni momenti decisamente divertenti, ma l’insieme manca di una focalizzazione precisa degli intenti. Mircalla l’amante immortale è un altro tentativo sostanzialmente fallito di abbinare horror ed erotismo, mentre Paura nella notte è forse il suo film più riuscito, anche se non necessariamente il più brillante.
Dopo aver lasciato la Hammer, Sangster ha avuto una lunga carriera spaziando per vari generi e mettendo decisamente in secondo piano l’horror, che però ha toccato ancora, come nel peraltro non troppo riuscito (ma non per colpa sua), Il testamento.
La brillantezza di scrittura, l’ironia e l’inventiva di Sangster permeano anche il suo spassoso e acuto libro di memorie, Do You Want It Good or Tuesday? (il cui titolo suona familiare a chiunque abbia dovuto lavorare nel campo dell’intrattenimento o dell’editoria popolare), che consiglio di leggere. Ne ha scritto anche un altro, Inside Hammer, più specificamente dedicato ai suoi tempi alla Hammer, ma non sono mai riuscito a trovarlo, purtroppo.
martedì 23 agosto 2011
Wake Wood
Il nome Hammer richiama subito molte cose alla memoria di chi sia interessato anche solo mareginalmente al cinema horror: la casa di produzione britannica è stata infatti responsabile della rinascita del genere in un momento - la seconda metà degli anni '50 - in cui sembrava essere stato definitivamente soppiantato dalla fantascienza e destinato a una marginalità ancora più estrema del consueto, tra film di routine e commedie spesso poco divertenti. L'astronave atomica del dottor Quatermass e, soprattutto, La maschera di Frankenstein avrebbero cambiato del tutto il panorama e dato vita a un ciclo ricco di pellicole interessanti, frutto di un approccio del tutto nuovo. Dopo anni di successi, nella seconda metà degli anni '70 la Hammer aveva cessato di produrre film per il grande schermo ed era poco a poco entrata in una sorta di coma produttivo: era ancora viva, ma non faceva praticamente niente. Dopo molti annunci e tentativi, recentemente la gloriosa casa produttrice è tornata in azione, tra l'altro con Let Me In, il remake del famoso horror svedese Lasciami entrare.
Ma ha prodotto, soprattutto, Wake Wood di David Keating, che è il film di cui mi sono occupato questa volta nella rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies. Echi da La zampa di scimmia, Zeder e Pet Sematary non impediscono al film di essere interessante, ma in ogni caso chi vuole leggere cosa ne ho scritto deve andare, come al solito, qui.
Qui sopra invece una scena dal film: quella a sinistra è Eva Birthistle, la protagonista del film.
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lunedì 22 agosto 2011
Rosco, Sonny e il ponte di corda
Sul numero 31 del Giornalino è uscita una nuova avventura di Rosco e Sonny, i personaggi creati da Claudio Nizzi e Giancarlo Alessandrini che adesso scrivo io per i disegni di Rodolfo Torti. L'avventura si intitola Il ponte di corda e si sviluppa in un contesto latino-americano mescolando umorismo e azione.
Qui sopra un paio di vignette della storia.
domenica 21 agosto 2011
Mister Vendetta
Se penso a un titolo come Mr. Vendetta mi viene subito in mente Park Chan-wook, anche se, per la verità, mi viene in mente il titolo internazionale di uno dei suoi film più noti e cioè Sympathy for Mister Vengeance, tradotto sbrigativamente da noi proprio come Mr. Vendetta. Ma poiché spesso mi occupo di pratiche più basse, il film di cui mi sono occupato nella mia rubrica Horror Frames su MyMovies è il quasi analogo - nel titolo italiano - Mister Vendetta con un ribollito Val Kilmer. Il regista è Michael Oblowitz, già noto ai cultori del genere per alcuni film più o meno divertenti (spesso meno che più): vi dice niente Sharkman - Una nuova razza di predatori?
Anyway, quello che avevo da scrivere su Mister Vendetta l'ho scritto qui: buona lettura, se vi interessa leggerlo. Se invece non vi interessa, non vi auguro buona lettura, ovviamente, perché non lo leggerete, ma adesso che ci penso forse leggerete qualcos'altro e allora l'augurio ve lo faccio lo stesso, anche se indubbiamente vi perderete qualcosa a non leggerlo (sono stato abbastanza contorto?).
Qui sopra una foto dal film.
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