venerdì 4 dicembre 2015
Domiziano Cristopharo e Tiziano Cella in dvd
Mi è capitato qualche volta di recensire in questo blog dei film italiani di produzione indipendente non ancora usciti sul mercato dell’home video e quindi di difficile reperibilità. Mi sembra quindi opportuno segnalare la loro uscita in dvd e lo faccio adesso, raggruppandone un po’, di uscita più o meno recente, ma comunque ancora di pronta disponibilità, così chi è intenzionato a vederli sa come procurarseli.
Di Subject 0: Shattered Memories di Tiziano Cella ho scritto qui: adesso è uscito il dvd italiano e lo potete trovare, per esempio, su dvd-store, su Amazon, o su Bloodbuster.
Di Domiziano Cristopharo ho recensito diversi film che nel frattempo sono usciti in dvd: The Museum of Wonders, per esempio, disponibile su Amazon o su dvd-store; Shock - My Abstraction of Death (in collaborazione con Alessandro Redaelli) che potete trovare qui e qui, tra l'altro; nonché i film collettivi, cui ha partecipato, P.O.E. Project of Evil (lo trovate tra l'altro qui: attenzione che è il dvd tedesco con l'audio in tedesco o in inglese) e P.O.E. Poetry of Eerie (lo trovate per esempio qui e qui). I primi due li trovate anche su Bloodbuster.
Dopo questi consigli per gli acquisti, una breve considerazione: se questi film vi interessano, acquistate i dvd, non cercate scorciatoie. È anche questo un modo per supportare i loro autori e fare in modo che possano continuare a produrre film che ci interessa vedere.
mercoledì 25 novembre 2015
The Visit
Esce anche in Italia The Visit, l'ultimo film di M. Night Shyamalan: è il suo ritorno all'horror ed è pertanto di particolare interesse dato che proprio in questo genere il regista si era fatto notare realizzando la sua pellicola di maggior successo e riscontro critico (Il sesto senso, giusto per la precisione).
The Visit ha precisi rimandi al mondo delle fiabe (ne vengono due, in particolare, in mente), costituendone una versione macabra ed esplicitamente horror, ma chi vuole sapere cosa ne penso deve solo andare qui, sul sito di MYmovies, per leggere la mia recensione.
Qui sopra, invece, un'immagine della giovane Olivia DeJonge, protagonista del film.
The Visit ha precisi rimandi al mondo delle fiabe (ne vengono due, in particolare, in mente), costituendone una versione macabra ed esplicitamente horror, ma chi vuole sapere cosa ne penso deve solo andare qui, sul sito di MYmovies, per leggere la mia recensione.
Qui sopra, invece, un'immagine della giovane Olivia DeJonge, protagonista del film.
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venerdì 20 novembre 2015
Segnocinema 196
Sul numero 196 di Segnocinema (novembre-dicembre 2015), attualmente in distribuzione, il SegnoSpeciale è dedicato alla cinefilia. Nell'ambito dello speciale vi è anche una breve sezione - intitolata, quasi crocianamente, "Perché non posso non dirmi cinefilo" - nella quale venti critici "svelano la propria passione per i film". Tra questi venti critici, ci sono anch'io, che pure proprio critico non posso definirmi: chi vuole leggere il poco che ho da dire sull'argomento può acquistare Segnocinema.
Ma a parte le mie poche righe, il nuovo numero di Segnocinema è come sempre un must per i suoi contenuti complessivi, tra i quali mi sento di segnalare, oltre al suddetto speciale (molto ampio e articolato) e a una messe di recensioni, almeno l'interessante articolo di Roberto Pugliese su Wes Craven (La maschera e il sogno).
Ma a parte le mie poche righe, il nuovo numero di Segnocinema è come sempre un must per i suoi contenuti complessivi, tra i quali mi sento di segnalare, oltre al suddetto speciale (molto ampio e articolato) e a una messe di recensioni, almeno l'interessante articolo di Roberto Pugliese su Wes Craven (La maschera e il sogno).
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venerdì 6 novembre 2015
Billy il bugiardo sul Messaggero dei Ragazzi
Dopo Un goal in più, un nuovo fumetto da me sceneggiato compare sul Messaggero dei Ragazzi, nel numero attualmente in distribuzione (il n. 994 datato novembre 2015). La storia questa volta si chiama Billy il bugiardo (sì, qualche volta mi piace indulgere in citazioni non necessariamente pertinenti) ed è di ambientazione perifericamente scolastica, nel senso che descrive disavventure derivate dalla frequenza scolastica e da una certa sottovalutazione delle conseguenze delle proprie azioni.
I disegni e i colori sono ancora, rispettivamente, di Davide Perconti e di Giorgia Catelan, che confermano le loro qualità. La storia, questa volta, è di 10 pagine e la durata leggermente maggiore consente di sviluppare una narrazione un po' più distesa. Il Messaggero dei Ragazzi è acquistabile solo su abbonamento: chi fosse interessato può trovare le informazioni qui.
I disegni e i colori sono ancora, rispettivamente, di Davide Perconti e di Giorgia Catelan, che confermano le loro qualità. La storia, questa volta, è di 10 pagine e la durata leggermente maggiore consente di sviluppare una narrazione un po' più distesa. Il Messaggero dei Ragazzi è acquistabile solo su abbonamento: chi fosse interessato può trovare le informazioni qui.
venerdì 30 ottobre 2015
The Last Witch Hunter
Dopo Pitch Black - e passando per una lunga serie di film alcuni dei quali di grande successo - il dinamico Vin Diesel torna sugli schermi nei panni di un immortale cacciatore di streghe in The Last Witch Hunter, il nuovo film di Breck Eisner, quello del remake di La città verrà distrutta all'alba.
Nel cast anche Michael Caine, per il quale ormai si sono spesi tutti gli aggettivi (quelli positivi, intendo), Elijah Wood (che qualcuno di voi forse ricorderà nei film di una certa famosa trilogia) e Rose Leslie.
Il film accomuna azione e horror, assieme a una discreta dose di ironia e a qualche spruzzata di fantasy: chi vule leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non ha che da cliccare qui.
Qui sopra invece un'immagine di Rose Leslie, che nel film interpreta il ruolo della proprietaria di un locale riservato a maghi e streghe. Nientemeno.
Nel cast anche Michael Caine, per il quale ormai si sono spesi tutti gli aggettivi (quelli positivi, intendo), Elijah Wood (che qualcuno di voi forse ricorderà nei film di una certa famosa trilogia) e Rose Leslie.
Il film accomuna azione e horror, assieme a una discreta dose di ironia e a qualche spruzzata di fantasy: chi vule leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non ha che da cliccare qui.
Qui sopra invece un'immagine di Rose Leslie, che nel film interpreta il ruolo della proprietaria di un locale riservato a maghi e streghe. Nientemeno.
giovedì 8 ottobre 2015
Hal vs Bob: il nuovo spot di Bob Dylan
A dimostrare ancora una volta quanto Bob Dylan ami fare quello che secondo i suoi esegeti più rigorosi non dovrebbe fare arriva un nuovo spot pubblicitario - stavolta per la IBM - che lo vede protagonista assieme a un computer parlante, Watson (naturalmente semplifico: in realtà è qualcosa di più complesso, sviluppato per dialogare con gli utenti).
L'effetto è curioso e anche divertente. L'incontro è breve e Watson vi fa la classica figura del nerd saputello, mentre Bob Dylan è cool come sempre. Anzi, forse più del solito, per quanto riguarda gli spot. Non so cosa si aspetti la IBM da questo commercial, ma la sensazione è che si tratti più di uno spot per Dylan che per il loro computer, che si presenta come una nuova versione neanche troppo aggiornata del prototipo di tutte le intelligenze artificiali, l'Hal di 2001: Odissea nello spazio, un film, vale la pena di sottolinearlo, di appena 47 anni fa.
Da un punto di vista della messa in scena, lo spot è austero ed efficace. Condotto con mano ferma, vede un Dylan chiaramente divertito e tongue-in-cheek scambiare alcune parole con Watson e andarsene quando si rende conto di aver ben poco interesse per quel che può dirgli (o, per essere più precisi, cantargli).
Lo spot lo trovate più o meno dappertutto in rete (ma un ottimo posto dove trovarlo è Maggie's Farm: guardate nella sezione di mercoledì 7 ottobre): dura una trentina di secondi e vale senz'altro la pena di guardarlo.
martedì 6 ottobre 2015
Un goal in più sul Messaggero dei Ragazzi
Nel numero 993 (ottobre 2015) della storica rivista Messaggero dei Ragazzi c'è un fumetto che ho scritto. Il fumetto si intitola Un goal in più ed è di ambiente, come si può intuire facilmente, calcistico. In particolare, è ambientato nel mondo del calcio giovanile e mi auguro che possa rappresentare un punto di vista interessante e a sollevare quesiti importanti oltre a essere una storia gradevole da leggere (cosa che è essenziale). Nel corso degli anni ho scritto molte storie di ambiente calcistico, per Topolino, per Il Giornalino e anche per il Messaggero dei Ragazzi, ma il calcio è un argomento sul quale non mancano mai le idee, tanto è centrale nell'immaginario e negli interessi di ragazzi e adulti.
I disegni sono del bravo Davide Perconti, disegnatore bonelliano, con cui ho collaborato anche per il fumetto La scelta. I colori sono di Giorgia Catelan. La storia è di otto pagine, quindi è una storia breve, ma spesso la brevità non è per niente un difetto, come pensano in genere coloro che si apprestano ad ascoltare un discorso.
giovedì 24 settembre 2015
Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 6 José Ramon Larraz
Per logica ineluttabile, non poteva che arrivare la fine della presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni). Dopo i primi cinque capitoli dedicati a Pete Walker, Jean Rollin, Jesus Franco, Paul Naschy e Norman J. Warren, è quindi la volta del sesto e ultimo capitolo dedicato allo spagnolo José Ramon Larraz.
Quando ero ragazzino e collezionavo gli albi editi dai Fratelli Spada (non preoccupatevi: ce li ho ancora tutti, gli albi) mi aveva colpito un disegnatore che si firmava Larraz e, con stile eminentemente raymondiano, illustrava le avventure di un paio di eroi di contorno, che venivano pubblicati all’interno, dopo le storie di Mandrake o dell’Uomo Mascherato. Il tratto era elegante, fluido, molto professionale. Si capiva che si trattava di strisce giornaliere, o almeno così sembrava, ma chiaramente d’impronta francese, quindi vagamente esotiche. Com’erano comparse, quelle storie poi scomparvero dopo qualche numero per essere rimpiazzate da altre. Ne avrei lette volentieri ancora, per il clima leggermente adulto che le permeava, ma non successe.
Quando qualche anno dopo mi imbattei in un Larraz regista di film di exploitation assai particolari non mi venne minimamente in mente il collegamento. Il dubbio mi venne dopo, quando mi imbattei di nuovo nei miei vecchi albi, ma la certezza la ebbi soltanto diversi anni dopo quando lessi della doppia (o tripla, è stato anche un notevole fotografo professionista) vita di Larraz, capace di essere disegnatore sopraffino per molti anni e di passare, con in mezzo la fotografia, alla regia cinematografica senza alcun problema, realizzando film del tutto diversi, per tematica e spirito, dai suoi fumetti, ma altrettanto ricchi di personalità. Conosciamo altri fumettisti che, per poco o per molto, si sono prestati al cinema, ma quello di Larraz è un caso del tutto particolare perché è forse l’unico capace di essere un professionista in entrambi i campi.
Nel capitolo dedicato a Larraz, scritto appositamente per questo libro, questo aspetto viene esaminato compiutamente, dando conto anche della singolare personalità del regista, emersa anche in un recente libro autobiografico, Memorias - del tebeo al cine, con mujeres de pelicula (EDT, 2012), in cui fa la summa della sua tumultuosa vita, divisa tra la Spagna, la Francia e la Gran Bretagna.
Nel corso di una lunga carriera cinematografica, Larraz ha diretto molti film, quasi tutti interessanti e particolari. Alcuni, molto interessanti e particolari. Tra questi mi sembra il caso di segnalare almeno Symptoms l’incubo dei sensi e Ossessione carnale, i più celebri. Ma anche L’ombra dell’assassino ed Emma, puertas oscuras o il curioso La morte incerta (con Rosalba Neri) sono notevoli e lo stesso si può dire per diversi dei suoi film del ritorno in Spagna, come Vedova di giorno amante di notte o il torbido La ocasion.
Nel libro la carriera di Larraz è ripercorsa nei dettagli e penso possa essere un’opportunità per scoprire o riscoprire in tutte le sue sfaccettature un autore notevole e ricco di personalità.
lunedì 14 settembre 2015
Segnocinema 195 - Tutti i film dell'anno
Anche quest'anno, con encomiabile puntualità, è arrivato il momento del Segnocinema speciale che passa in rassegna a tutti - ma proprio tutti - i film usciti nella passata stagione. Si tratta del numero 195 (settembre-ottobre), attualmente in distribuzione.
Se l'anno scorso avevo sottolineato l'enorme numero di film usciti (e recensiti), quest'anno il numero è ancora aumentato arrivando a un totale davvero incredibile (467), un numero spropositato se si pensa soltanto a quanto si era abituati a vedere sino a pochi anni fa. Che sia la proiezione in digitale a favorire la moltiplicazione delle uscite, che siano altri fattori (uscite tecniche, esigenze dei multiplex), il fatto è che i film sono tantissimi e pertanto ancor più encomiabile è lo sforzo di Segnocinema (lo speciale è curato, come ogni anno, da Mario Calderale) di tracciare mappe e confini cinematografici (anche) a futura memoria. Ogni recensione, va sottolineato, è corredata dai dati tecnici e da una foto, a rendere pregevole lo speciale anche dal punto di vista iconografico. Inutile dire, quindi, che, se Segnocinema vale sempre comunque la pena di leggerlo, questo numero in particolare è imperdibile.
Nel mio piccolo ho contribuito anch'io con nove minirecensioni: Liberaci dal male, The Lazarus Effect, Le origini del male, Ouija, Nurse 3D, Insidious 3, La piramide, The Perfect Husband e Ossessione omicida.
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mercoledì 2 settembre 2015
Vittore Baroni ha recensito Il cinema dell'eccesso su Blow Up
Sul numero attualmente in edicola della rivista Blow Up (il n. 208 del settembre 2015, per l'esattezza), Vittore Baroni - che ringrazio molto per l'attenzione - ha recensito il mio libro Il cinema dell'eccesso (CRAC Edizioni): per me è sempre un piacere vedere recensito uno dei miei libri e quando ciò avviene in una rivista così prestigiosa il piacere è ancora maggiore.
Blow Up è una storica rivista musicale che - con un nome così ricco di echi cinematografici - non può che dedicare anche parte del suo spazio al cinema. In questo numero mi permetto di consigliarvi un interessante excursus sulle avventure cinematografiche di Patricia Highsmith, firmato da Roberto Curti, un nome una garanzia, verrebbe da dire (e diciamolo, come puntualizzerebbe Totò: un critico cinematografico di cui è sempre interessante leggere cosa scrive). Patricia Highsmith, poi, è una delle mie scrittrici preferite (sul, credo, più recente dei film tratti dalla sua opera, I due volti di gennaio, potete leggere qui cosa ho scritto). L'articolo di Curti è incentrato soprattutto sul suo antieroe prototipico, Tom Ripley, che ha visto molti interpreti avvicendarsi nel corso degli anni, ma che per me ha trovato incarnazione perfetta nell'attore che meno ha seguito il ritratto delineato dalla scrittrice, e cioè l'indimenticabile Dennis Hopper de L'amico americano. Cose che capitano. Leggete l'articolo. E leggete anche Il cinema dell'eccesso.
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lunedì 31 agosto 2015
Wes Craven (1939-2015)
Creare una franchise di successo è già una cosa che definisce e valorizza una carriera. Crearne due è una cosa addirittura eccezionale. Riuscire inoltre a piazzare un altro paio di film che, senza arrivare ai successi delle due franchise, sono stati comunque capaci di influenzare e di generare sequel e remake è il segno di una personalità di forte creatività. Fare tutto questo nell'ambito del genere horror, oltre tutto, è quasi un miracolo.
Wes Craven, che se n’è andato ieri dopo una lunga malattia, era riuscito a fare tutto questo. Partito nell’ambito dell’horror profondamente - e forse anche confusamente - radicato nella metafora politico-sociologica (L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi) era poi passato a orrori più astratti e psicanalitici con la geniale intuizione del Freddie Krueger della serie di Nightmare on Elm Street. Poi era fatalmente - ma genialmente - finito a riflettere non senza autoironia sulla natura stessa del genere cinematografico di cui era diventato un alfiere, con la serie iniziata con Scream - Chi urla muore.
In mezzo c’erano stati tanti film anche poco riusciti, che lasciavano sempre il dubbio su come fosse possibile che fossero stati diretti dalla stessa persona che era stata capace di prove eccezionali. Ma forse era stato il desiderio di sperimentare, di cambiare, ad averlo talvolta tradito. Oppure, nella confusa fase della sua carriera seguita a Le colline hanno gli occhi, magari erano state le esigenze commerciali a convincerlo/costringerlo ad accettare progetti poco promettenti.
Ma al di là dei passi falsi resta quanto di buono Craven è riuscito a fare, che, come sopra delineato, non è stato per niente poco. Craven è una sorta di congiunzione tra l’horror “cattivo” degli anni ‘70 e quello tecnologico - e spesso inerte - dell’ultimo paio di decenni (parliamo del cinema americano). Uno degli ultimi artigiani dell’orrore, in grado però di stupire quando meno te lo aspettavi.
Wes Craven, che se n’è andato ieri dopo una lunga malattia, era riuscito a fare tutto questo. Partito nell’ambito dell’horror profondamente - e forse anche confusamente - radicato nella metafora politico-sociologica (L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi) era poi passato a orrori più astratti e psicanalitici con la geniale intuizione del Freddie Krueger della serie di Nightmare on Elm Street. Poi era fatalmente - ma genialmente - finito a riflettere non senza autoironia sulla natura stessa del genere cinematografico di cui era diventato un alfiere, con la serie iniziata con Scream - Chi urla muore.
In mezzo c’erano stati tanti film anche poco riusciti, che lasciavano sempre il dubbio su come fosse possibile che fossero stati diretti dalla stessa persona che era stata capace di prove eccezionali. Ma forse era stato il desiderio di sperimentare, di cambiare, ad averlo talvolta tradito. Oppure, nella confusa fase della sua carriera seguita a Le colline hanno gli occhi, magari erano state le esigenze commerciali a convincerlo/costringerlo ad accettare progetti poco promettenti.
Ma al di là dei passi falsi resta quanto di buono Craven è riuscito a fare, che, come sopra delineato, non è stato per niente poco. Craven è una sorta di congiunzione tra l’horror “cattivo” degli anni ‘70 e quello tecnologico - e spesso inerte - dell’ultimo paio di decenni (parliamo del cinema americano). Uno degli ultimi artigiani dell’orrore, in grado però di stupire quando meno te lo aspettavi.
venerdì 31 luglio 2015
Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 5 Norman J. Warren
Implacabile come la condanna licantropesca di Oliver Reed nel film hammeriano di Terence Fisher, proseguo nella presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni). Dopo i primi quattro capitoli dedicati a Pete Walker, Jean Rollin, Jesus Franco e Paul Naschy, tocca con inevitabilità matematica al protagonista del quarto capitolo, il britannico Norman J. Warren.
Questo capitolo è completamente nuovo, scritto appositamente per il libro e non è quindi mai apparso altrove, non essendo stato parte della serie di articoli Kings of Exploitation.
Figura in una certa misura minore del panorama dell’horror e dell’exploitation, Warren si è inserito nel cinema di genere inglese quando stava già cominciando a mostrare segni di cedimento commerciale, ma è comunque riuscito a lasciare un’impronta interessante e personale.
Come Pete Walker, Warren ha cominciato con film in cui l’erotismo era la caratteristica dominante e, come Walker, ha poi usato David McGillivray come sceneggiatore nel momento in cui è passato all’horror.
La sua carriera non conta molti titoli, ma presenta notevoli motivi di interesse. Nel capitolo a lui dedicato cerco di tracciarne l’evoluzione, a partire dai cortometraggi, che mostrano un regista raffinato e capace di raccontare con le immagini in modo elegante ed efficace. Il suo lungometraggio d’esordio, Her Private Hell denota la voglia di sperimentare e segnala uno sguardo attento alle sperimentazioni del cinema continentale. Ne è protagonista Lucia Modugno, attrice italiana incontrata più volte nell’exploitation nostrana (memorabile è il suo ruolo nella versione cinematografica del fumetto Isabella).
Quando si affaccia all’horror, con Satan’s Slave, Warren lo fa in modo spavaldo evivace, aiutato da McGillivray e da una sontuosa intepretazione di quel grande gigione dell’horror che fu Michael Gough. I film successivi sono diseguali, ma Terrore ad Amityville Park, torrido fantahorror erotico, è senz’altro da segnalare e anche l’argentiano Delirium House ha i suoi meriti, soprattutto per la brillantezza visuale e della messa in scena. Per non parlare del delirante Inseminoid, variante ginecologica di Alien.
L’ultima regia è Bloody New Year, un film curioso, se non proprio riuscito. Poi il crollo dell’industria cinematografica britannica lo allontana dalla regia, ma non lo fa dimenticare a tutti coloro che sono interessati a un cinema coraggioso e, a volte, fuori dagli schemi.
Questo capitolo è completamente nuovo, scritto appositamente per il libro e non è quindi mai apparso altrove, non essendo stato parte della serie di articoli Kings of Exploitation.
Figura in una certa misura minore del panorama dell’horror e dell’exploitation, Warren si è inserito nel cinema di genere inglese quando stava già cominciando a mostrare segni di cedimento commerciale, ma è comunque riuscito a lasciare un’impronta interessante e personale.
Come Pete Walker, Warren ha cominciato con film in cui l’erotismo era la caratteristica dominante e, come Walker, ha poi usato David McGillivray come sceneggiatore nel momento in cui è passato all’horror.
La sua carriera non conta molti titoli, ma presenta notevoli motivi di interesse. Nel capitolo a lui dedicato cerco di tracciarne l’evoluzione, a partire dai cortometraggi, che mostrano un regista raffinato e capace di raccontare con le immagini in modo elegante ed efficace. Il suo lungometraggio d’esordio, Her Private Hell denota la voglia di sperimentare e segnala uno sguardo attento alle sperimentazioni del cinema continentale. Ne è protagonista Lucia Modugno, attrice italiana incontrata più volte nell’exploitation nostrana (memorabile è il suo ruolo nella versione cinematografica del fumetto Isabella).
Quando si affaccia all’horror, con Satan’s Slave, Warren lo fa in modo spavaldo evivace, aiutato da McGillivray e da una sontuosa intepretazione di quel grande gigione dell’horror che fu Michael Gough. I film successivi sono diseguali, ma Terrore ad Amityville Park, torrido fantahorror erotico, è senz’altro da segnalare e anche l’argentiano Delirium House ha i suoi meriti, soprattutto per la brillantezza visuale e della messa in scena. Per non parlare del delirante Inseminoid, variante ginecologica di Alien.
L’ultima regia è Bloody New Year, un film curioso, se non proprio riuscito. Poi il crollo dell’industria cinematografica britannica lo allontana dalla regia, ma non lo fa dimenticare a tutti coloro che sono interessati a un cinema coraggioso e, a volte, fuori dagli schemi.
giovedì 23 luglio 2015
Kristy
Mettere una bella ragazza al centro di un intrico di pericoli è sempre stato uno dei leitmotiv del cinema thriller e horror. Le ragioni sono intuibili: è più naturale parteggiare (e quindi temere) per una persona apparentemente indifesa come può essere un'appartenente al cosiddetto sesso debole. Poi in realtà - e questo è forse l'aspetto più interessante - la ragazza spesso si dimostra tutt'altro che debole e indifesa. E questo anche tralasciando la "final girl" degli slasher.
Kristy di Olly Blackburn (Donkey Punch) è in uscita nei prossimi giorni nelle sale italiane e appartiene agli horror con le suddette caratteristiche. Ne è ottima protagonista Haley Bennett e se volete leggere la mia recensione per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un'immagine dal film, con Haley Bennett in versione strong.
Kristy di Olly Blackburn (Donkey Punch) è in uscita nei prossimi giorni nelle sale italiane e appartiene agli horror con le suddette caratteristiche. Ne è ottima protagonista Haley Bennett e se volete leggere la mia recensione per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un'immagine dal film, con Haley Bennett in versione strong.
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mercoledì 22 luglio 2015
Burqa di Marco Pavone
Alan Burlesque è un uomo popolare, ricchissimo, di successo. Gaudente e donnaiolo, se la spassa alla grande con il suo harem personale. Ha un cagnolino di nome Vespasiano che lo accompagna e a cui è affezionato. Tutti lo chiamano il Capitano perché una volta salvò migliaia di persone con una manovra spericolata mentre si era trovato al timone di una nave. Capo del governo, attrae parlamentari dell’opposizione che si uniscono a lui chiedendogli soldi e offrendogli completa solidarietà. Il giornalista Agatangelos lo avversa e lo pressa e per il suo talk show preannuncia come ospite una ragazza che afferma d’essere stata in un’orgia con lui. Se qualcuno a questo punto comincia a cogliere qualche elemento di similitudine, il fatto che Burlesque abbia il volto di Berlusconi rende chiara la metafora. Burlesque gioca a biliardo con un cannoncino colpendo delle grandi palle da biliardo con dentro amici e personale. Ha contatti con consorterie segrete che rappresentano i poteri forti. Vuole costruire un grande grattacielo ed è divertito nel sentire che c’è chi lo ritiene un simbolo della sua potenza fallica. Ma ha i suoi problemi: è tormentato da incubi nei quali compare la morte con tanto di falce e dei magistrati dall’aria savonarolesca gli appaiono ovunque armati di avvisi di garanzia. Ma soprattutto, una misteriosa donna in burqa lo tormenta, comparendo ovunque in modo minaccioso.
Marco Pavone ha già dato buona prova di sé con alcuni cortometraggi d’animazione (il meritevole L’ultimo metrò è senz’altro da segnalare) nei quali il suo trascorso di disegnatore di fumetti si rende evidente e con questo film - Burqa - ha coraggiosamente affrontato la notevole sfida del lungometraggio animato.
L’animazione digitale è abbastanza fluida e gradevole anche se non ineccepibile (risente probabilmente del budget), ma i disegni sono di sicuro appeal, con un realismo trasfigurato che crea un’atmosfera curiosa, cupa e bizzarra. Lo stile è molto personale e i personaggi sono tratteggiati con abilità ed efficacia. L’uso del colore è attento e inventivo dando luogo a immagini fortemente caratterizzate e tenebrosamente attraenti. La storia prende spunto dalla realtà, ma ne dà una versione surreale, spesso trasformata, alterata, attraverso simbolismi e viluppi onirici in una rilettura psicanalitica della storia politica italiana degli ultimi decenni.
La storia (dello stesso Pavone che ha anche sceneggiato assieme a Giuseppe Sepe) è raccontata con qualche lentezza e qualche ripetizione. Come una sorta di Charles Foster Kane, Burlesque è visto in tutte le sue sfaccettature, nella sua grande potenza e nelle sue debolezze causate anche dal suo delirio di onnipotenza.
Alla fine la meditazione più che su Berlusconi è sul potere più o meno assoluto e su ciò che comporta in chi lo cerca o cerca di praticarlo. Burlesque ha il volto di Berlusconi per un effetto simbolico, ma il personaggio in sé è la sublimazione di un prototipoa sé stante e assume caratteristiche autonome tra analogie e diversità.
Incentrato su un mistero che monta sempre più, il film diventa quasi un delirante thriller psicanalitico, una specie di tenebroso viaggio nella psiche del potere.
Un po’ troppo lungo per il suo stesso bene, avrebbe beneficiato di un ritmo più serrato e di una rappresentazione più contenuta del lungo delirio finale, che presenta immagini suggestive, ma è forse troppo insistito. Il finale è adeguatamente spiazzante anche se forse un po’ troppo furbo nel rimescolamento delle carte.
Nell’insieme, Pavone dimostra capacità e ambizioni che fanno ben sperare per il prosieguo della sua carriera.
Marco Pavone ha già dato buona prova di sé con alcuni cortometraggi d’animazione (il meritevole L’ultimo metrò è senz’altro da segnalare) nei quali il suo trascorso di disegnatore di fumetti si rende evidente e con questo film - Burqa - ha coraggiosamente affrontato la notevole sfida del lungometraggio animato.
L’animazione digitale è abbastanza fluida e gradevole anche se non ineccepibile (risente probabilmente del budget), ma i disegni sono di sicuro appeal, con un realismo trasfigurato che crea un’atmosfera curiosa, cupa e bizzarra. Lo stile è molto personale e i personaggi sono tratteggiati con abilità ed efficacia. L’uso del colore è attento e inventivo dando luogo a immagini fortemente caratterizzate e tenebrosamente attraenti. La storia prende spunto dalla realtà, ma ne dà una versione surreale, spesso trasformata, alterata, attraverso simbolismi e viluppi onirici in una rilettura psicanalitica della storia politica italiana degli ultimi decenni.
La storia (dello stesso Pavone che ha anche sceneggiato assieme a Giuseppe Sepe) è raccontata con qualche lentezza e qualche ripetizione. Come una sorta di Charles Foster Kane, Burlesque è visto in tutte le sue sfaccettature, nella sua grande potenza e nelle sue debolezze causate anche dal suo delirio di onnipotenza.
Alla fine la meditazione più che su Berlusconi è sul potere più o meno assoluto e su ciò che comporta in chi lo cerca o cerca di praticarlo. Burlesque ha il volto di Berlusconi per un effetto simbolico, ma il personaggio in sé è la sublimazione di un prototipoa sé stante e assume caratteristiche autonome tra analogie e diversità.
Incentrato su un mistero che monta sempre più, il film diventa quasi un delirante thriller psicanalitico, una specie di tenebroso viaggio nella psiche del potere.
Un po’ troppo lungo per il suo stesso bene, avrebbe beneficiato di un ritmo più serrato e di una rappresentazione più contenuta del lungo delirio finale, che presenta immagini suggestive, ma è forse troppo insistito. Il finale è adeguatamente spiazzante anche se forse un po’ troppo furbo nel rimescolamento delle carte.
Nell’insieme, Pavone dimostra capacità e ambizioni che fanno ben sperare per il prosieguo della sua carriera.
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domenica 19 luglio 2015
The Transparent Woman di Domiziano Cristopharo
A causa di problemi finanziari, la coppia formata da Anna (Roberta Gemma) e Carlo (Arian Levanael) deve riposizionarsi: abbandonato l’appartamento in città, i due traslocano in una vecchia casa in campagna, dove un tempo Carlo abitava. Anna - che è cieca - non è contenta del cambiamento, ma Carlo la circonda d’affetto per farle superare i problemi di ambientamento. Carlo però deve lasciare sola Anna per impegni di lavoro. La donna sa badare a se stessa, anche grazie all’ausilio del suo telefonino, e non si preoccupa troppo. Ma qualcosa inizia a turbare la sua sicurezza: il disco che ascolta si interrompe, telefonate a vuoto. Piccole cose. Il ritorno di Carlo la sera rasserena l’ambiente. Ma nel cuore della notte Anna si sveglia e trova Carlo intento a fare qualcosa di misterioso. Le telefonate a vuoto si ripetono. Strani rumori incombono. Quando Anna comincia a spaventarsi, Carlo ricompare. Ma è chiaro che le cose non sono per niente tranquille. Anche perché c’è una stanza, la “sua” stanza, in cui Anna non dovrebbe entrare.
The Transparent Woman è il nuovo film di Domiziano Delvaux Cristopharo - giovane regista indipendente italiano di cui ho scritto spesso in questo blog - ed è sceneggiato da Andrea Cavaletto (che per Cristopharo ha già scritto Doll Syndrome), su soggetto dello stesso Cristopharo, Francesco Massaccesi (sceneggiatore, tra l’altro, di Weekend tra amici di Stefano Simone) ed Elio Mancuso (che per Cristopharo è stato attore nel segmento da lui diretto di E.N.D. The Movie, oltre ad aver scritto The Museum of Wonders).
L’inizio del film è rilassato, quasi circospetto: mostra i due personaggi mentre affrontano la nuova vita facendo leva sul loro affiatamento. La regia esplora la casa assieme ai protagonisti cercando di misurarne gli spazi e le oscurità. Gli elementi di disturbo, com’è tradizione degli horror ambientati in luoghi chiusi, vengono introdotti poco alla volta, dapprima come accenni.
Il ritmo è molto lento. La routine quotidiana della vita solitaria di Anna, rimasta sola dopo la partenza del marito, è mostrata senza fretta, con grande utilizzo di musica di accompagnamento per creare un’atmosfera languida e, per certi versi, serena. Anche l’uso del vinile, invece del digitale, dà un’impronta rétro, di cose perdute, come la musica suonata, ma ha una sua funzione narrativa sia per l’aspetto visuale del braccio e della puntina che scorre sul disco sia per la possibilità - utilizzata - di una interruzione brusca e preoccupante.
Cristopharo si concentra sulle immagini più che sulla storia - decisamente esile - e produce un insieme di immagini affascinanti e visualmente eleganti, con uno stile perfettamente riconoscibile, ma meno confrontazionale rispetto ai suoi film più controversi ed “estremi” (per le tematiche).
I dialoghi per larghi tratti sono ridotti all’osso per lasciare spazio al suggestivo mélange di immagini, colori e musica. L’atmosfera creata è sospesa, misteriosa. Il tempo però passa, ma i personaggi non vengono più di tanto approfonditi. Si resta nella superficie della loro psicologia e questo non aiuta a creare coinvolgimento nello spettatore.
La situazione della donna priva di vista e soggetta a oscure minacce rimanda a thriller di molti anni fa da Terrore cieco a Gli occhi della notte, mentre la situazione della moglie vittima di strane circostanze fa venire in mente miriadi di thriller, tra cui, non so perché, mi è passato per la testa Latidos de panico. La stanza chiusa, che nasconde segreti, rimanda - per la presenza di un rapporto di coppia in pericolo e la presenza di un pregresso misterioso - ex multis al classico di Fritz Lang, Dietro la porta chiusa. Ma la cecità rende la protagonista in un certo senso più pronta a fronteggiare gli inganni, poiché a volte la vista è un inganno in più.
Piccola digressione sistematica. Il film è un thriller-horror claustrofobico su una donna vulnerabile in pericolo. Il format è noto. Su tutto c’è un problema di base. Quando ci sono solo due personaggi, sostanzialmente, non è facile reggere un racconto basato su un mistero che si frappone tra i due. Sarebbe necessario alimentare una tensione sotterranea, un clima di reale incertezza che ci renda partecipi delle dinamiche relazionali, che ci faccia temere per una o entrambe le parti del rapporto o ci faccia dubitare di loro o di una di loro. Non è impossibile farlo, ma non è facile. Il problema è proprio di tecnica narrativa. Quando fai un thriller o un horror con un numero limitato di personaggi e un mistero sulla cui risoluzione punti tutto ai fini narrativi è molto difficile riuscire a trovare una soluzione che sia sorprendente, che cioè il pubblico non si aspetti: è una questione quasi matematica. Per questo esistono i red herrings e i falsi red herrings. Per questo si cerca di solito di mescolare le carte, ma se le carte sono poche (nel senso di personaggi) non è facile. Allora serve la soluzione del tutto a sorpresa. Un piccolo vecchio horror anni ’80 diretto da Arthur Allan Seidelman era tipico sotto questo profilo: La morte avrà i suoi occhi. Pretestuoso, certo, ma con un finale che spiazzava. Non da prendere a esempio, naturalmente, ma indicativo di un tentativo di superare il problema. Lì, peraltro, c’era Malcolm McDowell. Anche un film come Gli insospettabili - non certo un horror - resta un paradigma in questo senso, ma lì il gioco è tutto di sceneggiatura.
Cristopharo, come già accennato, è molto più interessato agli aspetti visuali e sotto questo profilo mostra una notevole maturità muovendo con discrezione ed efficacia la camera, senza strafare inutilmente, ricercando inquadrature efficaci, anche insolite quando serve, cambiando angolature per dare respiro e imprevedibilità alla visione. Anche l’uso del colore non è mai banale e costituisce sempre un valore aggiunto, che impreziosisce l’immagine. In sostanza, il regista manifesta uno stile sicuro e inventivo. Alcune sequenze sono particolarmente riuscite sotto questo profilo, come la ricerca delle perle da parte di Anna. Anche l’utilizzo del telefonino a descrivere le immagini alla donna non vedente è ingegnoso e porta al miglior momento del film, a livello di sorpresa.
La storia prende corpo soltanto verso la fine del film, quando cominciano a precisarsi i contorni del mistero che lega Carlo al suo passato, ma la sostanza non è molta e il ritmo narrativo non decolla, tendendo ad assecondare una visione estetizzante che se conferma, come detto, le qualità visuali di Cristopharo non risolve il problema dell’esilità della storia che sfocia in un finale che, arricchito da qualche dettaglio gore, è adeguato, ma non sorprendente.
Padre Mario è il classico elemento di dissonanza, di disturbo, non un vero red herring, ma qualcosa che gli assomiglia per il fatto di allargare, sia pure di poco, il parco dei personaggi in modo da instillare qualche incertezza. Anche perché Padre Mario, interpretato con esuberanza da Giovanna Nocetti, è davvero una presenza singolare, un piccolo colpo di genio di casting, che esprime una natura dissonante e disturbante in modo discreto senza che quasi lo spettatore se ne accorga. Il disagio, nel vederlo, è curioso e insinuante. Ha chiaramente la funzione di fornire informazioni (allo spettatore e alla protagonista), ma lo fa in modo inquietante. I due protagonisti sono in parte e garantiscono una resa funzionale dei loro personaggi.
Molto interessante e appropriata la colonna sonora (con musica originale di Salvatore Sangiovanni, Susan Dibona e musica addizionale Giovanna Nocetti), capace di arricchire in modo sinuoso ed efficace l’atmosfera. All’inizio, con i suoi fraseggi vocali di accompagnamento, sembra fare il verso ai thriller italiani degli anni ’70.
Molto belli anche i titoli di testa (e di coda) di Alessandro Redaelli (autore di uno degli episodi di Shock - My Abstraction of Death), con giochi di geometrie quasi a ricordare Saul Bass.
The Transparent Woman è il nuovo film di Domiziano Delvaux Cristopharo - giovane regista indipendente italiano di cui ho scritto spesso in questo blog - ed è sceneggiato da Andrea Cavaletto (che per Cristopharo ha già scritto Doll Syndrome), su soggetto dello stesso Cristopharo, Francesco Massaccesi (sceneggiatore, tra l’altro, di Weekend tra amici di Stefano Simone) ed Elio Mancuso (che per Cristopharo è stato attore nel segmento da lui diretto di E.N.D. The Movie, oltre ad aver scritto The Museum of Wonders).
L’inizio del film è rilassato, quasi circospetto: mostra i due personaggi mentre affrontano la nuova vita facendo leva sul loro affiatamento. La regia esplora la casa assieme ai protagonisti cercando di misurarne gli spazi e le oscurità. Gli elementi di disturbo, com’è tradizione degli horror ambientati in luoghi chiusi, vengono introdotti poco alla volta, dapprima come accenni.
Il ritmo è molto lento. La routine quotidiana della vita solitaria di Anna, rimasta sola dopo la partenza del marito, è mostrata senza fretta, con grande utilizzo di musica di accompagnamento per creare un’atmosfera languida e, per certi versi, serena. Anche l’uso del vinile, invece del digitale, dà un’impronta rétro, di cose perdute, come la musica suonata, ma ha una sua funzione narrativa sia per l’aspetto visuale del braccio e della puntina che scorre sul disco sia per la possibilità - utilizzata - di una interruzione brusca e preoccupante.
Cristopharo si concentra sulle immagini più che sulla storia - decisamente esile - e produce un insieme di immagini affascinanti e visualmente eleganti, con uno stile perfettamente riconoscibile, ma meno confrontazionale rispetto ai suoi film più controversi ed “estremi” (per le tematiche).
I dialoghi per larghi tratti sono ridotti all’osso per lasciare spazio al suggestivo mélange di immagini, colori e musica. L’atmosfera creata è sospesa, misteriosa. Il tempo però passa, ma i personaggi non vengono più di tanto approfonditi. Si resta nella superficie della loro psicologia e questo non aiuta a creare coinvolgimento nello spettatore.
La situazione della donna priva di vista e soggetta a oscure minacce rimanda a thriller di molti anni fa da Terrore cieco a Gli occhi della notte, mentre la situazione della moglie vittima di strane circostanze fa venire in mente miriadi di thriller, tra cui, non so perché, mi è passato per la testa Latidos de panico. La stanza chiusa, che nasconde segreti, rimanda - per la presenza di un rapporto di coppia in pericolo e la presenza di un pregresso misterioso - ex multis al classico di Fritz Lang, Dietro la porta chiusa. Ma la cecità rende la protagonista in un certo senso più pronta a fronteggiare gli inganni, poiché a volte la vista è un inganno in più.
Piccola digressione sistematica. Il film è un thriller-horror claustrofobico su una donna vulnerabile in pericolo. Il format è noto. Su tutto c’è un problema di base. Quando ci sono solo due personaggi, sostanzialmente, non è facile reggere un racconto basato su un mistero che si frappone tra i due. Sarebbe necessario alimentare una tensione sotterranea, un clima di reale incertezza che ci renda partecipi delle dinamiche relazionali, che ci faccia temere per una o entrambe le parti del rapporto o ci faccia dubitare di loro o di una di loro. Non è impossibile farlo, ma non è facile. Il problema è proprio di tecnica narrativa. Quando fai un thriller o un horror con un numero limitato di personaggi e un mistero sulla cui risoluzione punti tutto ai fini narrativi è molto difficile riuscire a trovare una soluzione che sia sorprendente, che cioè il pubblico non si aspetti: è una questione quasi matematica. Per questo esistono i red herrings e i falsi red herrings. Per questo si cerca di solito di mescolare le carte, ma se le carte sono poche (nel senso di personaggi) non è facile. Allora serve la soluzione del tutto a sorpresa. Un piccolo vecchio horror anni ’80 diretto da Arthur Allan Seidelman era tipico sotto questo profilo: La morte avrà i suoi occhi. Pretestuoso, certo, ma con un finale che spiazzava. Non da prendere a esempio, naturalmente, ma indicativo di un tentativo di superare il problema. Lì, peraltro, c’era Malcolm McDowell. Anche un film come Gli insospettabili - non certo un horror - resta un paradigma in questo senso, ma lì il gioco è tutto di sceneggiatura.
Cristopharo, come già accennato, è molto più interessato agli aspetti visuali e sotto questo profilo mostra una notevole maturità muovendo con discrezione ed efficacia la camera, senza strafare inutilmente, ricercando inquadrature efficaci, anche insolite quando serve, cambiando angolature per dare respiro e imprevedibilità alla visione. Anche l’uso del colore non è mai banale e costituisce sempre un valore aggiunto, che impreziosisce l’immagine. In sostanza, il regista manifesta uno stile sicuro e inventivo. Alcune sequenze sono particolarmente riuscite sotto questo profilo, come la ricerca delle perle da parte di Anna. Anche l’utilizzo del telefonino a descrivere le immagini alla donna non vedente è ingegnoso e porta al miglior momento del film, a livello di sorpresa.
La storia prende corpo soltanto verso la fine del film, quando cominciano a precisarsi i contorni del mistero che lega Carlo al suo passato, ma la sostanza non è molta e il ritmo narrativo non decolla, tendendo ad assecondare una visione estetizzante che se conferma, come detto, le qualità visuali di Cristopharo non risolve il problema dell’esilità della storia che sfocia in un finale che, arricchito da qualche dettaglio gore, è adeguato, ma non sorprendente.
Padre Mario è il classico elemento di dissonanza, di disturbo, non un vero red herring, ma qualcosa che gli assomiglia per il fatto di allargare, sia pure di poco, il parco dei personaggi in modo da instillare qualche incertezza. Anche perché Padre Mario, interpretato con esuberanza da Giovanna Nocetti, è davvero una presenza singolare, un piccolo colpo di genio di casting, che esprime una natura dissonante e disturbante in modo discreto senza che quasi lo spettatore se ne accorga. Il disagio, nel vederlo, è curioso e insinuante. Ha chiaramente la funzione di fornire informazioni (allo spettatore e alla protagonista), ma lo fa in modo inquietante. I due protagonisti sono in parte e garantiscono una resa funzionale dei loro personaggi.
Molto interessante e appropriata la colonna sonora (con musica originale di Salvatore Sangiovanni, Susan Dibona e musica addizionale Giovanna Nocetti), capace di arricchire in modo sinuoso ed efficace l’atmosfera. All’inizio, con i suoi fraseggi vocali di accompagnamento, sembra fare il verso ai thriller italiani degli anni ’70.
Molto belli anche i titoli di testa (e di coda) di Alessandro Redaelli (autore di uno degli episodi di Shock - My Abstraction of Death), con giochi di geometrie quasi a ricordare Saul Bass.
martedì 14 luglio 2015
Poltergeist
L'originale e i seguiti non bastavano, perciò ecco arrivato il remake di Poltergeist, una delle pietre miliari dell'horror degli anni '80. Ancora si dibatte se a dirigere l'originale davvero sia stato Tobe Hooper o Steven Spielberg (che figura come produttore), ma penso che questa volta non ci saranno dispute sulla paternità del film, tra Gil Kenan (regista) e Sam Raimi (uno dei produttori).
Chi è interessato a sapere cosa penso del film, può andare qui e leggersi la recensione che ho scritto (un paio di settimane fa, ma mi sono dimenticato di segnalarlo qui) per MYmovies.
Qui sopra un'immagine dal film (ma sono certo che l'avreste intuito anche se non ve l'avessi detto).
Chi è interessato a sapere cosa penso del film, può andare qui e leggersi la recensione che ho scritto (un paio di settimane fa, ma mi sono dimenticato di segnalarlo qui) per MYmovies.
Qui sopra un'immagine dal film (ma sono certo che l'avreste intuito anche se non ve l'avessi detto).
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mercoledì 8 luglio 2015
E.N.D. The Movie di Luca Alessandro, Allegra Bernardoni, Domiziano Cristopharo, Federico Greco
Quanti film di zombie sono stati prodotti negli ultimi decenni? Molti, non direi troppi, ma molti di sicuro. Abbastanza per richiedere un approccio originale a chi voglia inserirsi nel gruppo con l’idea di lasciare il segno. E.N.D. The Movie sceglie di avvicinarsi al tema in modo inizialmente minimalista per poi approdare a una rivisitazione stilisticamente affascinante di una situazione prototipica, concludendosi infine su un tentativo relativamente ambizioso di meditazione sul significato dell’essere diventato zombie e dell’essere rimasto umano. E se è vero che gli zombie, in fondo, da Romero in poi, siamo (anche) noi, la differenza è sfuggente e ambigua.
Il film è strutturato temporalmente in episodi riferiti a giorni specifici dal momento in cui parte una virulenta epidemia di zombite.
Day # 0: Questa volta il contagio zombesco si diffonde attraverso la cocaina. Nel bagno di un locale una donna (un simpatico cameo di Regina Orioli) assume cocaina e poi azzanna l’uomo (Patrizio Cigliano) che è con lei.
Day # 1 - Day # 2: In un’agenzia di pompe funebri, il truccatore di cadaveri Giorgio (Francesco Sannicandro) e gli amici Paolo (Giuseppe Ragone) e Sandra (Ilaria Baiocco) si risvegliano dopo una notte di bagordi nella sala d’esposizione delle bare e rimettono fretolosamente le cose a posto prima dell’arrivo del principale, Massimo (Antonio Bilo Canella). Che in effetti arriva accompagnato dal signor Ricchi (Marco Di Stefano), lì per le esequie del figlio morto dopo una lunga malattia. Ricchi vuole una bara speciale, dalla quale si possa uscire. Dev’essere pronta per la mattina dopo. Il mattino dopo Giorgio si sveglia tardi sempre nella sala delle bare e consiglia agli amici di bevute Paolo e Sandra, ancora assonnati, di restare a dormire nelle bare perché non c’è tempo per rimettere a posto. Ricchi arriva: la bara è pronta. Massimo ha anche dei torbidi affari in ballo che saranno cruciali per lo sviluppo degli avvenimenti. Una ragazza affannata e spaventata arriva e chiede se non sanno davvero nulla di cosa sta accadendo. Mentre è lì la radio trasmette un allarmato comunicato del Ministero dell’Interno: un virus propagato da una partita di cocaina tagliata male sta spargendosi a vista d’occhio rendendo chi ne è vittima molto aggressivo. Pare addirittura che i morti tornino in vita.
Indeciso sull’essere horror o commedia, il film parte in modo guardingo manovrando luoghi comuni con una certa circospezione e cercando di caratterizzare personaggi che restano comunque appena abbozzati. Nel descrivere un’epidemia globale e devastante, rimane un film da camera, confinato in un luogo nel quale filtrano le notizie dall’esterno. Corretto nell’esposizione, ma poco coinvolgente, risulta un po’ monotono e piatto e non trova un’inventiva visuale tale da caratterizzare in modo autonomo gli eventi riscattandoli dalla prevedibilità. Condizionato forse, dal punto di vista narrativo, dalla necessità di introdurre la situazione, resta quindi un po’ ingessato, pur svolgendo funzionalmente il suo compito. Diretto collettivamente da Luca Alessandro, Allegra Bernardoni e Federico Greco.
Day # 1466: Il contagio si è cosparso velocemente e l’esercito statunitense interviene per creare un cordone sanitario lungo i confini italiani. Un furgoncino percorre una stradina nel bosco. A bordo, oltre al guidatore (Wayne Abbruscato), due donne, una delle quali, la più giovane (Aurora Kostova), incinta. Uno zombie compare sul sentiero. L’autista lo investe, ma la manovra blocca il furgoncino che non riparte più. Il guidatore fa scendere le donne, ma gli zombie attaccano e uccidono la donna più anziana. Benché colpita al cervello, una zombie risorge contro ogni regola romeriana. Il guidatore e la donna incinta si rifugiano in un casolare che liberano a fatica da diversi zombie. La donna avverte che il feto è morto, nonostante l’uomo le dica che si muove ancora. Hanno ragione entrambi.
Questo episodio centrale è sostanzialmente l’opposto del precedente, ambientato com’è in esterni, in una natura indifferente alle sorti degli uomini. Più dinamico e orientato all’uso degli effetti speciali, mette in scena con un certo vigore una classica lotta contro gli zombie. La situazione rimanda chiaramente a La notte dei morti viventi, ma non mancano riferimenti ad Antropophagus (la sceneggiatura è di Antonio Tentori). I dialoghi sono ridotti all’osso e l’enfasi è sugli aspetti visuali e sull’azione. Concettualmente, l’episodio non dice molto di nuovo sul tema - qualcosa sì, però, come il risvolto macabro sul rapporto tra madre e nascituro - ma è vivace, ben diretto, con un’ottima fotografia e una buona tensione. Alcune immagini sono fortemente evocative (su tutte quella della donna con il feto davanti alle mani protese dei morti viventi). Se gli altri episodi sono narrativamente collegati, questo sembra del tutto a se stante - pur rappresentando una necessaria fase intermedia nella narrazione - e si staglia sul resto del film come l’episodio migliore. La regia è di Domiziano Cristopharo (chi segue questo blog sa che ho parlato diverse volte dei suoi film: per esempio qui, qui e qui), che, dopo film decisamente tosti, sembra essersi preso una simpatica vacanza nel cuore dell’horror. Si rivede con piacere l'intensa Aurora Kostova, già in Doll Syndrome, affiancata dal vigoroso Wayne Abbruscato, perfettamente in parte.
Day # 2333: Un rapporto radiofonico criptato rivela che le armi da fuoco non fanno più effetto contro gli zombie e neanche colpirli alla testa serve più. Non si può più ucciderli, ma solo renderli inermi. Il numero dei contagiati ha superato quello dei sani. Il dottor Mengels, però, a Roma, città da dove è partito tutto, sta perfezionando un veleno anti-zombie. In un bunker sotterraneo alcuni zombie sono tenuti prigionieri dai soldati. Tra gli zombie, Giorgio che viene liberato da uno dei soldati, in realtà anch’egli zombie, il figlio del signor Ricchi. Gli zombie infatti si sono organizzati, ragionano e hanno strategie.
Se l’episodio precedente rimandava a La notte dei morti viventi, questo richiama Il giorno degli zombi, invertendone in qualche misura la situazione e fornendone una sorta di parodia nella quale l’ironia la fa da padrona, con gli zombie che parlano tra loro grugnendo mentre i sottotitoli ci decifrano i loro versi gutturali. Il risultato è a tratti simpatico per l’inversione dei ruoli e la dinamica relazionale. E la riflessione sul ruolo degli zombie, attuata dal punto di vista degli zombie stessi (anche loro in fondo vittime della situazione), è interessante e originale, pur se non proprio chiaramente definita. L’episodio ripropone i personaggi dell’inizio mostrandone il destino. Federico Greco - coautore del non dimenticato Il mistero di Lovecraft - Road to L. (ben dieci anni fa: è proprio il caso di dire che il tempo vola) - lo dirige con buona mano, indulgendo forse un po’ troppo nel privilegiare, visivamente, tonalità oscure e tenebrose che non sempre aiutano a dipanare una narrazione talvolta confusa.
Come tutti i film diretti a più mani, il film è inevitabilmente diseguale, ma diversamente dai classici film a episodi mantiene un’apprezzabile unitarietà tematica e narrativa. Le sia pur relative novità che propone e, soprattutto, la qualità che traspare lo rendono un tentativo positivo di portare un nuovo mattone alla costruzione dell’epopea zombie. Apprezzabile, nell'insieme, la prova del cast.
Il film è strutturato temporalmente in episodi riferiti a giorni specifici dal momento in cui parte una virulenta epidemia di zombite.
Day # 0: Questa volta il contagio zombesco si diffonde attraverso la cocaina. Nel bagno di un locale una donna (un simpatico cameo di Regina Orioli) assume cocaina e poi azzanna l’uomo (Patrizio Cigliano) che è con lei.
Day # 1 - Day # 2: In un’agenzia di pompe funebri, il truccatore di cadaveri Giorgio (Francesco Sannicandro) e gli amici Paolo (Giuseppe Ragone) e Sandra (Ilaria Baiocco) si risvegliano dopo una notte di bagordi nella sala d’esposizione delle bare e rimettono fretolosamente le cose a posto prima dell’arrivo del principale, Massimo (Antonio Bilo Canella). Che in effetti arriva accompagnato dal signor Ricchi (Marco Di Stefano), lì per le esequie del figlio morto dopo una lunga malattia. Ricchi vuole una bara speciale, dalla quale si possa uscire. Dev’essere pronta per la mattina dopo. Il mattino dopo Giorgio si sveglia tardi sempre nella sala delle bare e consiglia agli amici di bevute Paolo e Sandra, ancora assonnati, di restare a dormire nelle bare perché non c’è tempo per rimettere a posto. Ricchi arriva: la bara è pronta. Massimo ha anche dei torbidi affari in ballo che saranno cruciali per lo sviluppo degli avvenimenti. Una ragazza affannata e spaventata arriva e chiede se non sanno davvero nulla di cosa sta accadendo. Mentre è lì la radio trasmette un allarmato comunicato del Ministero dell’Interno: un virus propagato da una partita di cocaina tagliata male sta spargendosi a vista d’occhio rendendo chi ne è vittima molto aggressivo. Pare addirittura che i morti tornino in vita.
Indeciso sull’essere horror o commedia, il film parte in modo guardingo manovrando luoghi comuni con una certa circospezione e cercando di caratterizzare personaggi che restano comunque appena abbozzati. Nel descrivere un’epidemia globale e devastante, rimane un film da camera, confinato in un luogo nel quale filtrano le notizie dall’esterno. Corretto nell’esposizione, ma poco coinvolgente, risulta un po’ monotono e piatto e non trova un’inventiva visuale tale da caratterizzare in modo autonomo gli eventi riscattandoli dalla prevedibilità. Condizionato forse, dal punto di vista narrativo, dalla necessità di introdurre la situazione, resta quindi un po’ ingessato, pur svolgendo funzionalmente il suo compito. Diretto collettivamente da Luca Alessandro, Allegra Bernardoni e Federico Greco.
Day # 1466: Il contagio si è cosparso velocemente e l’esercito statunitense interviene per creare un cordone sanitario lungo i confini italiani. Un furgoncino percorre una stradina nel bosco. A bordo, oltre al guidatore (Wayne Abbruscato), due donne, una delle quali, la più giovane (Aurora Kostova), incinta. Uno zombie compare sul sentiero. L’autista lo investe, ma la manovra blocca il furgoncino che non riparte più. Il guidatore fa scendere le donne, ma gli zombie attaccano e uccidono la donna più anziana. Benché colpita al cervello, una zombie risorge contro ogni regola romeriana. Il guidatore e la donna incinta si rifugiano in un casolare che liberano a fatica da diversi zombie. La donna avverte che il feto è morto, nonostante l’uomo le dica che si muove ancora. Hanno ragione entrambi.
Questo episodio centrale è sostanzialmente l’opposto del precedente, ambientato com’è in esterni, in una natura indifferente alle sorti degli uomini. Più dinamico e orientato all’uso degli effetti speciali, mette in scena con un certo vigore una classica lotta contro gli zombie. La situazione rimanda chiaramente a La notte dei morti viventi, ma non mancano riferimenti ad Antropophagus (la sceneggiatura è di Antonio Tentori). I dialoghi sono ridotti all’osso e l’enfasi è sugli aspetti visuali e sull’azione. Concettualmente, l’episodio non dice molto di nuovo sul tema - qualcosa sì, però, come il risvolto macabro sul rapporto tra madre e nascituro - ma è vivace, ben diretto, con un’ottima fotografia e una buona tensione. Alcune immagini sono fortemente evocative (su tutte quella della donna con il feto davanti alle mani protese dei morti viventi). Se gli altri episodi sono narrativamente collegati, questo sembra del tutto a se stante - pur rappresentando una necessaria fase intermedia nella narrazione - e si staglia sul resto del film come l’episodio migliore. La regia è di Domiziano Cristopharo (chi segue questo blog sa che ho parlato diverse volte dei suoi film: per esempio qui, qui e qui), che, dopo film decisamente tosti, sembra essersi preso una simpatica vacanza nel cuore dell’horror. Si rivede con piacere l'intensa Aurora Kostova, già in Doll Syndrome, affiancata dal vigoroso Wayne Abbruscato, perfettamente in parte.
Day # 2333: Un rapporto radiofonico criptato rivela che le armi da fuoco non fanno più effetto contro gli zombie e neanche colpirli alla testa serve più. Non si può più ucciderli, ma solo renderli inermi. Il numero dei contagiati ha superato quello dei sani. Il dottor Mengels, però, a Roma, città da dove è partito tutto, sta perfezionando un veleno anti-zombie. In un bunker sotterraneo alcuni zombie sono tenuti prigionieri dai soldati. Tra gli zombie, Giorgio che viene liberato da uno dei soldati, in realtà anch’egli zombie, il figlio del signor Ricchi. Gli zombie infatti si sono organizzati, ragionano e hanno strategie.
Se l’episodio precedente rimandava a La notte dei morti viventi, questo richiama Il giorno degli zombi, invertendone in qualche misura la situazione e fornendone una sorta di parodia nella quale l’ironia la fa da padrona, con gli zombie che parlano tra loro grugnendo mentre i sottotitoli ci decifrano i loro versi gutturali. Il risultato è a tratti simpatico per l’inversione dei ruoli e la dinamica relazionale. E la riflessione sul ruolo degli zombie, attuata dal punto di vista degli zombie stessi (anche loro in fondo vittime della situazione), è interessante e originale, pur se non proprio chiaramente definita. L’episodio ripropone i personaggi dell’inizio mostrandone il destino. Federico Greco - coautore del non dimenticato Il mistero di Lovecraft - Road to L. (ben dieci anni fa: è proprio il caso di dire che il tempo vola) - lo dirige con buona mano, indulgendo forse un po’ troppo nel privilegiare, visivamente, tonalità oscure e tenebrose che non sempre aiutano a dipanare una narrazione talvolta confusa.
Come tutti i film diretti a più mani, il film è inevitabilmente diseguale, ma diversamente dai classici film a episodi mantiene un’apprezzabile unitarietà tematica e narrativa. Le sia pur relative novità che propone e, soprattutto, la qualità che traspare lo rendono un tentativo positivo di portare un nuovo mattone alla costruzione dell’epopea zombie. Apprezzabile, nell'insieme, la prova del cast.
domenica 28 giugno 2015
Bob Dylan a San Daniele del Friuli, 27 giugno 2015
Nella mia esperienza di concerti dylaniani all’aperto mi è capitato raramente di potervi assistere senza subire, direttamente o nelle conseguenze, le inclemenze atmosferiche. La mia è naturalmente un’esperienza limitata e non può assurgere ad alcun carattere di scientificità, ma per quanto mi riguarda è molto significativa. In sostanza mi sono rassegnato all’inevitabilità del meteo avverso, ma ogni volta mi stupisco. Modena ‘87 e Ferrara ‘96 sono stati esempi del tutto positivi, ma già Verona ‘84, Correggio ‘92, Sonoria ‘94, Passariano '96, Udine '01 (con il concerto addirittura annullato: caso credo unico nella storia dylaniana, a parte l'influenza di Praga), Strà 2004 (grandine, nientemeno) e via dicendo mi hanno segnato. Questa volta il meteo - almeno quello che ho consultato io - faceva prevedere buone cose e invece mi sono fatto tutto il viaggio sotto un nubifragio e quando sono arrivato a San Daniele del Friuli non sono stato accolto solo da un eccezionale arcobaleno, ma anche da una plurichilometrica coda che non faceva presagire nulla di buono. E quasi nulla di buono c’è stato, infatti, perché la pioggia ha prodotto conseguenze notevoli a livello organizzativo, con molti parcheggi chiusi. Per farla breve, dopo indicazioni contraddittorie e una botta di fortuna, sono riuscito ad arrivare al concerto quando questo era già iniziato da tempo. Da un lato mi è dispiaciuto, dall’altro non potevo credere di esserci comunque arrivato dopo tutto quello che avevo dovuto passare. E tenete presente che, come mia consuetudine, mi ero mosso con largo anticipo e che non sono stato certo il solo ad arrivare però tardi al concerto per difficoltà sopravvenute.
Il concerto però è stato ottimo, confermando la positiva impressione avuta in quelli degli ultimi anni e, anzi, aumentandola. La voce di Bob è in ottima forma. Questa volta ha cantato con toni bassi, in modo molto chiaro e ricco di nuances e suggestioni. Il fatto che il concerto fosse all’aperto non ha compromesso la qualità del suono che, a mio avviso e dalla mia postazione, è stata ottima, anche è soprattutto a livello di missaggio, con la voce in bella evidenza. La formazione è quella solita e ha dato ottima prova di sé.
Il mio concerto, purtroppo, è cominciato con le ultime note di Duquesne Whistle (versione più che accettabile, per quel che ho sentito) e quindi mi sono perso le prime canzoni, vale a dire Things Have Chjanged, She Belongs to Me, Beyond Here Lies Nothin’ e Workingman’s Blues #2 (vera disdetta, soprattutto quest’ultima, che ci avrei tenuto parecchio a sentire). Il concerto è poi proseguito con questa scaletta.
Waiting For You: il buon vecchio valzerone scritto per la colonna sonora di I sublimi segreti delle Ya-Ya Sisters continua a essere una canzona dalla discreta resa in concerto, ma senza il fascino rétro che riusciva a sviluppare nella versione su disco, grazie anche alle morbide variazioni musicali. Gradevole, ma non molto di più.
Pay in Blood: ottimo pezzo da Tempest, mantiene sempre la sua ruvidezza e la sua cattiveria. La band asseconda il cantato feroce di Dylan con un’orchestrazione “sporca” e molto concentrata. Una canzone che rimane di ottima presa a ricordarci la continua pregnanze dell’ultimo Dylan.
Tangles Up in Blue: quando pensi di esserti stancato di sentire per l’ennesima volta questa pur bellissima canzone, ti devi spesso, come stavolta, ricredere. Una versione ottima, fresca, arricchita dall’armonica e da un cantato preciso e suadente. Uno dei punti alti della serata.
Full Moon and Empty Arms: istintivamente, quando l’ho sentita ho guardato in alto, ma no, la luna non era piena. Comunque il pezzo, così notturno e soffuso, era perfettamente in linea con il momento, buio e nuvoloso (anche se, per fortuna, non ha più piovuto). Tratta dal recente album che omaggia Frank Sinatra, è una canzone che Dylan interpreta con perizia e umiltà. Un grande pezzo d’atmosfera.
Dopo l’intervallo il concerto è ripreso con questi pezzi.
High Water: per me una delle tre migliori della serata (le altre due sono Forgetful Heart e Long and Wasted Years, con Tangled Up in Blue subito dopo). Dopo anni in cui l’arrangiamento, pur mantenendosi gradevole, le aveva fatto perdere un po’ di mordente, la canzone è tornata a essere pienamente coesa, forte, che va dritta sul punto. Dylan l’ha interpretata in modo magistrale, riuscendo a rendere evidente e coinvolgente il suo sarcasmo apocalittico. Visto il momento meteo, poi, era particolarmente appropriata.
Simple Twist of Fate: come Tangled Up in Blue, anche questa è stata rivitalizzata in modo molto efficace grazie a un arrangiamento soft e molto gradevole. Una grande canzone che non tradisce mai.
Early Roman Kings: canzone che ho sempre considerato tra le più deboli, relativamente, di Tempest (grande album), soprattutto per il suo riff musicale derivativo che però accompagna un testo di raro mistero e fascino. Dal vivo, comunque è una canzone che anno dopo anno continua a crescere e stavolta mi ha davvero convinto: una versione più riflessiva, intensa, in cui anche il riff blues è camuffato, ammorbidito.
Forgetful Heart: ogni volta che la sento, mi colpisce per il tono disarmante e indifeso con cui Dylan la canta, caricandola di significati che vanno ben al di là di un testo intenso ma non eccezionale. Il segreto e il mistero sono nell'interpretazione, intensa e strabocchevole di suggestioni con assoli di armonica assolutamente strazianti. Un must assoluto del Dylan live di questi anni.
Spirit on the Water: ancora acqua. Forse è la canzone che ha coinvolto di più gli spettatori che si sono lasciati trascinare da una melodia, appunto, trascinante. Un pezzo che mi piace, senza che mi convinca del tutto, reso in modo molto professionale e sentito.
Scarlet Town: oscuro e minaccioso, da Tempest, è un brano di notevole bellezza che Dylan rende sempre molto bene anche in concerto. Questa versione l’ho trovata in linea con le precedenti, di ottima fattura, capace di portare l’ascoltatore in un mondo cupo e ristretto dal quale sembra impossibile poter evadere. Se qualcuno trova affinità con il mondo reale, be’, non credo si sbagli.
Soon After Midnight: altra canzone perfetta per il momento. Melodia accattivante, cantato suadente: una canzone d’amore tra le migliori del Dylan degli ultimi decenni in una versione perfetta e coinvolgente.
Long and Wasted Years: che dire? Meravigliosa. Cattiva e puntuta. Credevo che fosse così perfetta da non essere modificabile e invece questa versione presenta delle novità, soprattutto nello smussamento dell’inevitabilità del riff, con un effetto in minima parte spiazzante e in ogni caso molto efficace: uno dei capolavori del Dylan degli ultimi decenni.
Autumn Leaves: altra canzone da Shadows in the Night in un’esecuzione perfetta che dovrebbe togliere ogni dubbio a chi pensa che Dylan non abbia più voce. Intensa e profondamente sentita, la versione di Dylan ha creato un’atmosfera magica assolutamente in tono con il momento.
Gli encores sono stati la consueta, vivace e per me molto riuscita, versione di Blowin’ in the Wind che la rende una sorta di inno alla positività e un’ottima resa di Love Sick, altra canzone che dal vivo ha sempre funzionato e che in questa versione è particolarmente efficace.
Alla fine, il concerto, come prevedibile, con la sua qualità, ha ridotto il disappunto per quanto era successo prima e per l’irreparabile perdita delle prime canzoni. Tant’è. La mia speranza, come sempre, è di poter vedere concerti al chiuso e non all’aperto perché sarà pur vero che l’Italia è il paese del sole, ma, quando si tratta di concerti dylaniani, ciò non si direbbe.
Un ultimo appunto per la mia classica domanda: perché mai un sacco di gente paga il biglietto per venire a vedere un concerto per poi non fare altro che schiamazzare con amici e vicini?
venerdì 26 giugno 2015
Subject 0: Shattered Memories di Tiziano Cella
Una donna si sveglia felice sul suo letto dopo, evidentemente, una notte d’amore. Allunga la mano verso il suo partner, girato di lato, e la ritrae sporca di sangue: l’uomo è stato massacrato. La donna si chiama Lauren (Lauren Jane Matic) ed è la moglie di Robert Williams (David White) che, assieme al socio Giuseppe Torre (Giuseppe Ragone), è al momento impegnato in una trattativa per un misterioso prodotto che la sua società sta proponendo a un’interessata che rappresenta un governo straniero. Katia (Martina Palmitesta) e Daniel (Daniel Brooks) sono una coppia di fidanzati: Daniel vorrebbe che lei smettesse di lavorare, anche perché non gli piace il luogo in cui lavora né il suo datore di lavoro, Joshua Merlo (Tiziano Cella), sfasciacarrozze. Quando Robert arriva a casa, trova la moglie Lauren in lacrime e la polizia in loco. La polizia interroga Robert, che spiega d’essere stato al lavoro. Lauren è troppo scioccata per essere interrogata e così i poliziotti, per il momento, se ne vanno. Giuseppe telefona a Robert spiegando che c’è interesse per il loro progetto. Robert se ne compiace, ma vuole sapere dalla la moglie che cosa è successo. La rimprovera di mettere a repentaglio la sua carriera: è evidente che l’uomo trovato morto era il suo amante. Joshua, a casa, riceve le proteste di una vicina cinese per il rumore prodotto dalla televisione che sta tenendo accesa in sottofondo. Il morto si chiama Giorgio De Rosa, spiega la polizia interrogando Lauren alla presenza di Robert. Robert dice di non conoscerlo. Lauren invece ammette che era il suo amante da tempo. Robert è scagionato perché ha un alibi. La polizia, al momento, non ha indizi. Joshua trova Katia che sul lavoro bacia Daniel e la rimprovera Katia per essere in ritardo. Daniel reagisce bruscamente e Katia gli dice di andarsene, dopo aver detto a entrambi d’aver esagerato. Presto però anche Katia si rende conto che Joshua ha dei comportamenti strani e comincia ad averne paura. Lauren rivela a Robert di essere incinta, ma che lui non è il padre, perché lui è sterile. Il padre probabilmente è il morto. Robert le dice che lui l’ama ancora. Comunque, è molto preso dall’affare che sta cercando di condurre in porto e che è legato al controllo sugli altri. I delitti si susseguono e la connessione tra i vari personaggi rende evidente che c’è sotto qualcosa di terribile, che ha a che fare con ordini subliminali.
Il tema del controllo delle altre persone in funzione anche omicida, per realizzare in modo vicario ciò che non si può o non si vuole fare di persona, è affascinante e il suo utilizzo risale agli albori del cinema, sin dai tempi de Il gabinetto del dottor Caligari. Jesus Franco ne ha fatto un uso intensivo con i suoi molti automi umani spesso telecomandati con parafernalia fantascientifici non lontani concettualmente dall’apparecchio usato in questo film, ma spesso più scanzonati nell’uso e nell’ideazione. Si può ricordare, tra i tanti, anche il curioso essere biomeccanico teleguidato del bizzarro film messicano Orlak, el infierno de Frankenstein.
Per il suo esordio nel lungometraggio, Tiziano Cella sceglie un approccio visuale realistico e inserisce il gimmick come motore motivazionale di una vicenda thriller nella quale si punta a una umanizzazione dell’incolpevole colpevole (viene in mente anche il classico fantapolitico Va’ e uccidi, anche se naturalmente contesto e situazioni non potrebbero essere più diversi), inconsapevole - sino a un certo punto - strumento del male altrui. La dinamica narrativa non sempre è persuasiva (l’elemento, per così dire, fantascientifico è dato forse troppo per scontato), ma si vedono ottimi momenti di cinema. Spesso ci sono sequenze orchestrate con notevole maestria visuale e le pause nella narrazione sono gestite con suggestione: in genere l’interazione dei personaggi è ben studiata.
La storia però si presenta nella sostanza prevedibile negli sviluppi e talvolta un po’ debole. La concatenazione logica di alcune svolte, come quella che coinvolge il ragazzo delle pizze, è architettata con attenzione e funziona. La parte più debole, come spesso accade in questi casi, è quella delle indagini della polizia, ma è un difetto intrinseco per la necessità di spiegare, che invece le sequenze più immaginifiche dei delitti o della loro preparazione possono evitare: le parti investigative sono anche quelle nelle quali Cella sembra arrendersi al budget, inscenandole con una certa piattezza.
Scandito in giorni, il film è comunque in genere elegante e ben diretto. Nel complesso apprezzabile anche la prova del cast, nel quale si ritaglia una parte significativa il regista, che del resto ha già dato buone prove di interprete nel passato: chi legge questo blog può ricordare che ne ho parlato quando è stato protagonista assoluto di Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo.
Curata la fotografia e in genere adeguati i valori di produzione sia pure nell’ambito di un budget che non dev’essere stato consistente, ma è stato ben utilizzato. Una nota di merito per la colonna sonora, varia e appropriata. E di grande importanza nell’economia della narrazione spesso affidata a sequenze senza parole accompagnate dalla musica significativa anche, talvolta, nelle sue dissonanze. Valido anche il montaggio (di Valerio Perini), preciso e accurato.
La dinamica sanguinosa dei delitti e l’utilizzo, in funzione eye candy, di qualche tocco di erotismo vouyeristico, rimandano alla tradizione dei thriller all’italiana degli anni ’70 e costituiscono un rimando che non dovrebbe essere sgradito allo spettatore.
Nell’insieme, un tentativo coraggioso e fondamentalmente riuscito a livello di intrattenimento, che avrebbe beneficiato da una più solida base narrativa, ma segnala in modo inequivocabile le doti di Cella nella messa in scena e vale senz'altro la pena di vedere.
Il tema del controllo delle altre persone in funzione anche omicida, per realizzare in modo vicario ciò che non si può o non si vuole fare di persona, è affascinante e il suo utilizzo risale agli albori del cinema, sin dai tempi de Il gabinetto del dottor Caligari. Jesus Franco ne ha fatto un uso intensivo con i suoi molti automi umani spesso telecomandati con parafernalia fantascientifici non lontani concettualmente dall’apparecchio usato in questo film, ma spesso più scanzonati nell’uso e nell’ideazione. Si può ricordare, tra i tanti, anche il curioso essere biomeccanico teleguidato del bizzarro film messicano Orlak, el infierno de Frankenstein.
Per il suo esordio nel lungometraggio, Tiziano Cella sceglie un approccio visuale realistico e inserisce il gimmick come motore motivazionale di una vicenda thriller nella quale si punta a una umanizzazione dell’incolpevole colpevole (viene in mente anche il classico fantapolitico Va’ e uccidi, anche se naturalmente contesto e situazioni non potrebbero essere più diversi), inconsapevole - sino a un certo punto - strumento del male altrui. La dinamica narrativa non sempre è persuasiva (l’elemento, per così dire, fantascientifico è dato forse troppo per scontato), ma si vedono ottimi momenti di cinema. Spesso ci sono sequenze orchestrate con notevole maestria visuale e le pause nella narrazione sono gestite con suggestione: in genere l’interazione dei personaggi è ben studiata.
La storia però si presenta nella sostanza prevedibile negli sviluppi e talvolta un po’ debole. La concatenazione logica di alcune svolte, come quella che coinvolge il ragazzo delle pizze, è architettata con attenzione e funziona. La parte più debole, come spesso accade in questi casi, è quella delle indagini della polizia, ma è un difetto intrinseco per la necessità di spiegare, che invece le sequenze più immaginifiche dei delitti o della loro preparazione possono evitare: le parti investigative sono anche quelle nelle quali Cella sembra arrendersi al budget, inscenandole con una certa piattezza.
Scandito in giorni, il film è comunque in genere elegante e ben diretto. Nel complesso apprezzabile anche la prova del cast, nel quale si ritaglia una parte significativa il regista, che del resto ha già dato buone prove di interprete nel passato: chi legge questo blog può ricordare che ne ho parlato quando è stato protagonista assoluto di Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo.
Curata la fotografia e in genere adeguati i valori di produzione sia pure nell’ambito di un budget che non dev’essere stato consistente, ma è stato ben utilizzato. Una nota di merito per la colonna sonora, varia e appropriata. E di grande importanza nell’economia della narrazione spesso affidata a sequenze senza parole accompagnate dalla musica significativa anche, talvolta, nelle sue dissonanze. Valido anche il montaggio (di Valerio Perini), preciso e accurato.
La dinamica sanguinosa dei delitti e l’utilizzo, in funzione eye candy, di qualche tocco di erotismo vouyeristico, rimandano alla tradizione dei thriller all’italiana degli anni ’70 e costituiscono un rimando che non dovrebbe essere sgradito allo spettatore.
Nell’insieme, un tentativo coraggioso e fondamentalmente riuscito a livello di intrattenimento, che avrebbe beneficiato da una più solida base narrativa, ma segnala in modo inequivocabile le doti di Cella nella messa in scena e vale senz'altro la pena di vedere.
mercoledì 24 giugno 2015
Intervista su INK n. 66
INK è una storica e pregevole rivista dedicata al fumetto. Nel numero attualmente in distribuzione - il n. 66 (aprile 2015) - segnalo che c'è una lunga intervista a me condotta da Paolo Forni, che ringrazio per l'attenzione. Trattandosi di una rivista di fumetti, l'intervista è maggiormente incentrata su questi, ma si toccano anche gli altri aspetti della mia produzione, come la saggistica cinematografica e, brevemente, i racconti. Chi è interessato alla mia attività la troverà quindi una lettura interessante, anche grazie alle domande di Paolo Forni che sono andate a toccare anche i momenti iniziali della mia carriera e in particolare la collaborazione con l'editore Sansoni e i suoi pocket orrorifici. Ma non solo, perché mi ha dato anche l'occasione di ringraziare ancora una volta il grande Pinù Intini, che tanto è stato cruciale nella mia carriera.
Nello stesso numero è anche presente - e mi fa molto piacere evidenziarlo - un'intervista, sempre condotta da Paolo Forni, a mio fratello Gianni, con il quale ho condiviso gli esordi e anche una lunga collaborazione in anni più maturi nel Messaggero dei Ragazzi. L'intervista è molto interessante e penso non lo sia solo per me.
Ma anche chi non fosse incuriosito dalle alterne vicende dei fratelli Salvagnini potrà trovare molto di interessante nella rivista che comprende anche interviste a Luigi Cozzi (grande esponente del cinema fantastico italiano sia in veste di regista, sia in quelle di autore ed editore) e al disegnatore Paolo Peruzzo, con il quale abbiamo condiviso una militanza sansoniana e di cui ho appreso con grande interesse i successivi sviluppi di carriera. Il tutto nell'ambito di un'analisi di quel particolare fenomeno che fu la rivista Horror, edita appunto da Sansoni.
Insomma, una rivista che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di fumetti. Chi fosse interessato, può trovare sul sito della rivista tutte le informazioni per acquistarla.
Nello stesso numero è anche presente - e mi fa molto piacere evidenziarlo - un'intervista, sempre condotta da Paolo Forni, a mio fratello Gianni, con il quale ho condiviso gli esordi e anche una lunga collaborazione in anni più maturi nel Messaggero dei Ragazzi. L'intervista è molto interessante e penso non lo sia solo per me.
Ma anche chi non fosse incuriosito dalle alterne vicende dei fratelli Salvagnini potrà trovare molto di interessante nella rivista che comprende anche interviste a Luigi Cozzi (grande esponente del cinema fantastico italiano sia in veste di regista, sia in quelle di autore ed editore) e al disegnatore Paolo Peruzzo, con il quale abbiamo condiviso una militanza sansoniana e di cui ho appreso con grande interesse i successivi sviluppi di carriera. Il tutto nell'ambito di un'analisi di quel particolare fenomeno che fu la rivista Horror, edita appunto da Sansoni.
Insomma, una rivista che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di fumetti. Chi fosse interessato, può trovare sul sito della rivista tutte le informazioni per acquistarla.
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lunedì 22 giugno 2015
Recensione di Paolo Spagnuolo a Il cinema dell'eccesso
Con piacere, segnalo la recensione che Paolo Spagnuolo - che ringrazio - ha gentilmente scritto sul mio libro Il cinema dell'eccesso - Vol. 1 - Europa (Crac Edizioni). La recensione è appena comparsa sul sito iyezine.com e per leggerla non avete che da cliccare qui.
Paolo Spagnuolo, tra le molte altre cose, è anche l'autore di un libro notevole, Napoli violenta (Mephite), sull'omonimo classico del poliziottesco di Umberto Lenzi: ça va sans dire, il poliziottesco è un genere davvero interessante per molti motivi. Ne riparleremo.
Paolo Spagnuolo, tra le molte altre cose, è anche l'autore di un libro notevole, Napoli violenta (Mephite), sull'omonimo classico del poliziottesco di Umberto Lenzi: ça va sans dire, il poliziottesco è un genere davvero interessante per molti motivi. Ne riparleremo.
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venerdì 12 giugno 2015
Sir Christopher Lee (1922-2015)
Sulla breccia da moltissimi anni, capace di sorprendere con interpretazioni autorevoli e intense anche in questi ultimi anni, sembrava semplicemente immortale. Eppure, anche lui alla fine se n'è andato, ultima colonna di un cinema che non c'è più, ma in fondo c'è sempre.
Internet Movie Data Base gli accredita quasi 300 interpretazioni, un numero impressionante che rende l'idea del suo attivismo, della sua voglia di recitare e del piacere che evidentemente provava nel farlo, pur non avendone la necessità nemmeno dal punto di vista artistico avendo già da molto dimostrato tutto quello che c'era da dimostrare.
Attore sapiente e multiforme più di quanto lo spettatore normale possa immaginare, Christopher Lee si è costruito con grande determinazione una carriera eccezionale, sapendo operare nel tempo delle scelte anche radicali che al momento potevano sembrare controproducenti, ma che invece dimostravano come fosse sempre perfetamente al timone della sua barca. Come la scelta di abbandonare, con qualche ritorno anche magari frequente, l'horror di cui era uno dei principi incontrastati. Oppure - e la cosa è collegata - quella di abbandonare il personaggio di Dracula, insoddisfatto del trattamento che gli era stato riservato. Diversamente dal suo grande amico Peter Cushing, Lee ha cercato subito di dare un'impronta internazionale e quanto più possibile varia alla sua carriera e ai ruoli. Ha vagato per cinematografie di molte nazioni - Italia compresa, dove lo si ricorda in molti horror ma anche in film comici come Tempi duri per i vampiri con Rascel e, molti anni dopo, L'avaro con Sordi - cercando di affrancarsi da una tipizzazione che gli sembrava riduttiva. Cercando e riuscendoci, come dimostra la mole di ruoli caratterizzanti che ha interpretato nel corso degli anni, senza alcuna connessione con l'horror: dallo Scaramanga del bondiano L'uomo dalla pistola d'oro al Saruman della saga de Il signore degli anelli al conte Dooku di Star Wars.
Ma mi piace ricordarlo nei film che l'hanno reso grande, come i capolavori della Hammer diretti da Terence Fisher (Dracula il vampiro su tutti) e come quell'affascinante affresco orrorifico filosofico che è The Wicker Man, film da lui prediletto. Un film che chiunque pensi che Christopher Lee sia un attore dal registro espressivo limitato dovrebbe vedere per capire quanto sia sbagliato questo preconcetto. Ed è bello pensare che Lee sia vissuto abbastanza a lungo da interpretare, sia pure in un semplice cameo a causa di un contrattempo di salute, The Wicker Tree, il seguito di quel film girato quasi quarant'anni dopo, nel 2011, dal regista originario Robin Hardy. Che si tratti di un seguito tutto sommato deludente, non importa. Certe volte anche la sola possibilità di riprendere un discorso è importante.
Christopher Lee non era solo un grande attore. Come Cushing, ma anche prima di lui, ha dimostrato notevoli capacità di scrittore, scrivendo un'autobiografia ripresa in mano negli anni con varie integrazioni. All'inizio si chiamava Tall, Dark and Gruesome, poi Lord of Misrule. Anche questa, purtroppo, non è stata mai tradotta in italiano, ma vi invito a leggerla perché è divertente, avvincente e, in qualche misura (nella misura consentita dalla riservatezza britannica), rivelatrice.
Nel mio piccolo, anch'io, qualche anno fa, ho reso omaggio all'attore con un saggio dedicato a lui e alla sua interazione con Terence Fisher e Christopher Lee, pubblicato all'interno del volume collettivo curato da Fabio Zanello e intitolato Christopher Lee, il principe delle tenebre (Profondo Rosso). Un libro in italiano che mi sento di consigliare a chi voglia approfondire la figura di Lee (e Cushing) è Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle Books).
Ma soprattutto guardate i suoi film, è il modo migliore per ricordarlo.
Internet Movie Data Base gli accredita quasi 300 interpretazioni, un numero impressionante che rende l'idea del suo attivismo, della sua voglia di recitare e del piacere che evidentemente provava nel farlo, pur non avendone la necessità nemmeno dal punto di vista artistico avendo già da molto dimostrato tutto quello che c'era da dimostrare.
Attore sapiente e multiforme più di quanto lo spettatore normale possa immaginare, Christopher Lee si è costruito con grande determinazione una carriera eccezionale, sapendo operare nel tempo delle scelte anche radicali che al momento potevano sembrare controproducenti, ma che invece dimostravano come fosse sempre perfetamente al timone della sua barca. Come la scelta di abbandonare, con qualche ritorno anche magari frequente, l'horror di cui era uno dei principi incontrastati. Oppure - e la cosa è collegata - quella di abbandonare il personaggio di Dracula, insoddisfatto del trattamento che gli era stato riservato. Diversamente dal suo grande amico Peter Cushing, Lee ha cercato subito di dare un'impronta internazionale e quanto più possibile varia alla sua carriera e ai ruoli. Ha vagato per cinematografie di molte nazioni - Italia compresa, dove lo si ricorda in molti horror ma anche in film comici come Tempi duri per i vampiri con Rascel e, molti anni dopo, L'avaro con Sordi - cercando di affrancarsi da una tipizzazione che gli sembrava riduttiva. Cercando e riuscendoci, come dimostra la mole di ruoli caratterizzanti che ha interpretato nel corso degli anni, senza alcuna connessione con l'horror: dallo Scaramanga del bondiano L'uomo dalla pistola d'oro al Saruman della saga de Il signore degli anelli al conte Dooku di Star Wars.
Ma mi piace ricordarlo nei film che l'hanno reso grande, come i capolavori della Hammer diretti da Terence Fisher (Dracula il vampiro su tutti) e come quell'affascinante affresco orrorifico filosofico che è The Wicker Man, film da lui prediletto. Un film che chiunque pensi che Christopher Lee sia un attore dal registro espressivo limitato dovrebbe vedere per capire quanto sia sbagliato questo preconcetto. Ed è bello pensare che Lee sia vissuto abbastanza a lungo da interpretare, sia pure in un semplice cameo a causa di un contrattempo di salute, The Wicker Tree, il seguito di quel film girato quasi quarant'anni dopo, nel 2011, dal regista originario Robin Hardy. Che si tratti di un seguito tutto sommato deludente, non importa. Certe volte anche la sola possibilità di riprendere un discorso è importante.
Christopher Lee non era solo un grande attore. Come Cushing, ma anche prima di lui, ha dimostrato notevoli capacità di scrittore, scrivendo un'autobiografia ripresa in mano negli anni con varie integrazioni. All'inizio si chiamava Tall, Dark and Gruesome, poi Lord of Misrule. Anche questa, purtroppo, non è stata mai tradotta in italiano, ma vi invito a leggerla perché è divertente, avvincente e, in qualche misura (nella misura consentita dalla riservatezza britannica), rivelatrice.
Nel mio piccolo, anch'io, qualche anno fa, ho reso omaggio all'attore con un saggio dedicato a lui e alla sua interazione con Terence Fisher e Christopher Lee, pubblicato all'interno del volume collettivo curato da Fabio Zanello e intitolato Christopher Lee, il principe delle tenebre (Profondo Rosso). Un libro in italiano che mi sento di consigliare a chi voglia approfondire la figura di Lee (e Cushing) è Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle Books).
Ma soprattutto guardate i suoi film, è il modo migliore per ricordarlo.
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lunedì 8 giugno 2015
Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 4 PaulNaschy/Jacinto Molina
Proseguo nell’opera di presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni) e, dopo i primi tre capitoli dedicati a Pete Walker, Jean Rollin e Jesus Franco, tocca al protagonista del quarto capitolo, vale a dire Paul Naschy/Jacinto Molina.
Si tratta della stessa persona, naturalmente. Jacinto Molina è il suo vero nome, usato per firmare sceneggiature e regie, mentre Paul Naschy è lo pseudonimo utilizzato per il suo mestiere di attore. Chi conosce Paul Naschy, generalmente lo ricorda come il licantropo Waldemar Daninsky, reincarnazione - con enfasi sul melodramma - del personaggio di Larry Talbot portato al successo da Lon Chaney jr ne L’uomo lupo, il prototipo dei film sui lupi mannari. E difatti quando Jacinto Molina propose la sua idea di fare un film sui licantropi nella Spagna degli anni ‘60 la sua speranza era di convincere Chaney a esserne il protagonista. Età e salute malferma impedirono alla vecchia gloria hollywoodiana di essere della partita e allora Molina assunse il nome di Naschy e interpretò lui stesso la parte, cambiando per sempre la sua vita.
Melodramma, si diceva. Ma soprattutto exploitation, perché i film di Naschy come attore sono quasi sempre horror ad alto tasso di sesso e violenza (tra i titoli usciti anche in Italia si possono ricordare Le messe nere della contessa Dracula, I diabolici amori di Nosferatu, Il licantropo e lo yeti, Gli occhi azzurri della bambola rotta, Il mostro dell’obitorio, L’orgia dei morti e via discorrendo). Considerato da molti come una pallida imitazione sottocosto dei suoi idoli d’oltre oceano, Naschy ha percorso con notevole dignità - e anche con alcuni evidenti limiti - un tragitto non facile attraverso svariati decenni di cinema di genere. Pur non trascurando di contestualizzare la sua attività di attore, nel libro mi concentro soprattutto sulla sua attività come regista. Come Jacinto Molina, quindi.
Curiosamente, nessuna delle sue regie risulta edita in Italia ed è un peccato perché si tratta spesso di film interessanti, più di talvolta molto diversi, pur restando in un ambito di horror exploitativo, da quelli che Molina era solito interpretare. Passarli in rassegna e cogliere la sua parabola autoriale è perciò un viaggio significativo nella sua personalità e nelle sue predisposizioni e capacità. Tra i titoli più interessanti posso ricordare - ma chi leggerà il libro avrà modo di avere un quadro d’insieme molto dettagliato - Inquisición con Daniela Giordano (indimenticabile diva dell'exploitation italiana) in notevole evidenza, il cupissimo thriller d’epoca El huerto del Francés, la commedia satirica Madrid al desnudo, l’horror demoniaco-filosofico El caminante o il bronsoniano La noche del ejecutor. Per non parlare del curioso peplum Los cantabros. Ma sono tutti - quelli citati qui sopra e gli altri per i cui titoli rimando al libro - film diversi tra loro, spesso originali, testimonianze di un’irrequietezza creativa che non ci si sarebbe aspettati da un divo dell’horror minore.
Rispetto all'articolo della serie Kings of Exploitation uscito su Segnocinema nell'ormai lontano 2006, il capitolo si occupa anche di film che all'epoca non era stato possibile reperire (come il citato Los cantabros o l'incredibile Mi amigo el vagabundo e altri ancora) o che non erano ancora usciti come l'inaspettata ultima regia di Molina, Empusa, un horror che riprende e rielabora sue vecchie tematiche in un compendio crepuscolare ma per nulla depresso o deprimente.
Oltre al mio libro, mi sento anche di consigliare, per chi voglia approfondire la conoscenza della persona, la lettura dell’autobiografia di Paul Naschy, Memoirs of a Wolfman.
Si tratta della stessa persona, naturalmente. Jacinto Molina è il suo vero nome, usato per firmare sceneggiature e regie, mentre Paul Naschy è lo pseudonimo utilizzato per il suo mestiere di attore. Chi conosce Paul Naschy, generalmente lo ricorda come il licantropo Waldemar Daninsky, reincarnazione - con enfasi sul melodramma - del personaggio di Larry Talbot portato al successo da Lon Chaney jr ne L’uomo lupo, il prototipo dei film sui lupi mannari. E difatti quando Jacinto Molina propose la sua idea di fare un film sui licantropi nella Spagna degli anni ‘60 la sua speranza era di convincere Chaney a esserne il protagonista. Età e salute malferma impedirono alla vecchia gloria hollywoodiana di essere della partita e allora Molina assunse il nome di Naschy e interpretò lui stesso la parte, cambiando per sempre la sua vita.
Melodramma, si diceva. Ma soprattutto exploitation, perché i film di Naschy come attore sono quasi sempre horror ad alto tasso di sesso e violenza (tra i titoli usciti anche in Italia si possono ricordare Le messe nere della contessa Dracula, I diabolici amori di Nosferatu, Il licantropo e lo yeti, Gli occhi azzurri della bambola rotta, Il mostro dell’obitorio, L’orgia dei morti e via discorrendo). Considerato da molti come una pallida imitazione sottocosto dei suoi idoli d’oltre oceano, Naschy ha percorso con notevole dignità - e anche con alcuni evidenti limiti - un tragitto non facile attraverso svariati decenni di cinema di genere. Pur non trascurando di contestualizzare la sua attività di attore, nel libro mi concentro soprattutto sulla sua attività come regista. Come Jacinto Molina, quindi.
Curiosamente, nessuna delle sue regie risulta edita in Italia ed è un peccato perché si tratta spesso di film interessanti, più di talvolta molto diversi, pur restando in un ambito di horror exploitativo, da quelli che Molina era solito interpretare. Passarli in rassegna e cogliere la sua parabola autoriale è perciò un viaggio significativo nella sua personalità e nelle sue predisposizioni e capacità. Tra i titoli più interessanti posso ricordare - ma chi leggerà il libro avrà modo di avere un quadro d’insieme molto dettagliato - Inquisición con Daniela Giordano (indimenticabile diva dell'exploitation italiana) in notevole evidenza, il cupissimo thriller d’epoca El huerto del Francés, la commedia satirica Madrid al desnudo, l’horror demoniaco-filosofico El caminante o il bronsoniano La noche del ejecutor. Per non parlare del curioso peplum Los cantabros. Ma sono tutti - quelli citati qui sopra e gli altri per i cui titoli rimando al libro - film diversi tra loro, spesso originali, testimonianze di un’irrequietezza creativa che non ci si sarebbe aspettati da un divo dell’horror minore.
Rispetto all'articolo della serie Kings of Exploitation uscito su Segnocinema nell'ormai lontano 2006, il capitolo si occupa anche di film che all'epoca non era stato possibile reperire (come il citato Los cantabros o l'incredibile Mi amigo el vagabundo e altri ancora) o che non erano ancora usciti come l'inaspettata ultima regia di Molina, Empusa, un horror che riprende e rielabora sue vecchie tematiche in un compendio crepuscolare ma per nulla depresso o deprimente.
Oltre al mio libro, mi sento anche di consigliare, per chi voglia approfondire la conoscenza della persona, la lettura dell’autobiografia di Paul Naschy, Memoirs of a Wolfman.
giovedì 4 giugno 2015
Insidious 3 - L'inizio
Per trovare un'altra attrice di una certa età trovatasi di punto in bianco a diventare una icona dell'horror bisogna risalire ai tempi dell'indimenticabile Sheila Keith. Lin Shaye, diversamente da lei, però tende a essere dalla parte dei buoni (con qualche eccezione, naturalmente), una sorta di versione femminile del Van Helsing di Peter Cushing, con la stessa determinazione nei momenti topici. Difficile che la franchise di Insidious possa farne a meno, nonostante il suo personaggio sia in effetti morto.
Difatti, non ne fa a meno neanche in questo terzo capitolo, un prequel, che da noi si intitola Insidious 3 - L'inizio, è l'esordio alla regia di Leigh Whannell ed è uscito ieri nelle sale. Per leggere la mia recensione per MYmovies, non avete che da cliccare qui e sarete catapultati là, dove, se volete, potrete soffermarvi anche per altre cose cinematografiche.
Qui sopra Lin Shaye e Stefanie Scott in due separate immagini dal film.
Dei primi due film ho parlato qui e qui.
Difatti, non ne fa a meno neanche in questo terzo capitolo, un prequel, che da noi si intitola Insidious 3 - L'inizio, è l'esordio alla regia di Leigh Whannell ed è uscito ieri nelle sale. Per leggere la mia recensione per MYmovies, non avete che da cliccare qui e sarete catapultati là, dove, se volete, potrete soffermarvi anche per altre cose cinematografiche.
Qui sopra Lin Shaye e Stefanie Scott in due separate immagini dal film.
Dei primi due film ho parlato qui e qui.
domenica 24 maggio 2015
Bob Dylan 74
Come ogni 24 maggio non può mancare, in questo blog, un post celebrativo per il compleanno di Bob Dylan. Anche l’anno che è appena passato è stato un anno fruttuoso e pieno di cose buone, che lo vede arrivare al suo settantaquattresimo compleanno in piena attività e in pieno forma, reduce da una celebrata apparizione nella penultima puntata del leggendario Late Show with David Letterman.
Ma a parte questo l’anno trascorso ha visto l’uscita di un suo nuovo album, Shadows in the Night, che benché sia solo di cover si è presentato come di particolare interesse a testimonianza di una costante pregnanza del suo lavoro. Di notevole interesse è stata anche l’uscita del nuovo cofanetto della Bootleg Series, dedicato ai Basement Tapes (qui sopra la copertina), i nastri che Dylan registrò con la band nella quiete di Woodstock mentre, nel 1967, si riprendeva dai postumi del famoso incidente motociclistico. Monumentale raccolta di casualità e intenzionalità assortite, è una cornucopia musicale della cui importanza si è appreso nel corso dei decenni, a partire dalle molte cover di successo che di quelle canzoni fecero cantanti e gruppi dell’epoca (su tutti i Manfred Mann con The Mighty Quinn) e passando poi per il doppio album singolarmente poco fedele che uscì nel 1975 e per i vari bootleg succedutisi nel tempo.
Notevole è stata anche la partecipazione di Dylan a quella sorta di pre-Grammy che è stata la celebrazione MusiCares nel corso della quale ha tenuto un incredibile discorso di oltre mezz’ora, lucido ed esagerato al tempo stesso, brillante e per certi versi devastante, capace come sempre di essere fuori da qualunque schema e sorprendente per il modo diretto con cui ha detto alcune cose che nessuno pensava avrebbe mai detto. Una traduzione la trovate nel meritorio sito italiano dedicato a Bob Dylan, Maggie’s Farm.
E poi ci sono stati, come sempre da oltre un quarto di secolo, i concerti. Qualcuno si lamenta per la scaletta spesso bloccata, che ha tolto quell’imprevedibilità che eravamo soliti apprezzare nei concerti di qualche tempo fa. L’altra faccia di questa medaglia è che i concerti sono generalmente ottimi e che la sua voce è migliorata. Io penso che a questo punto, come sempre in fondo, sia bene prendere quello che Dylan, alla sua età, si sente di dare. Che è ancora molto.
Quest’anno torna anche in Italia e chi vuole potrà andare a vederlo. Io, naturalmente, sarò tra quelli che ci andranno.
Ma a parte questo l’anno trascorso ha visto l’uscita di un suo nuovo album, Shadows in the Night, che benché sia solo di cover si è presentato come di particolare interesse a testimonianza di una costante pregnanza del suo lavoro. Di notevole interesse è stata anche l’uscita del nuovo cofanetto della Bootleg Series, dedicato ai Basement Tapes (qui sopra la copertina), i nastri che Dylan registrò con la band nella quiete di Woodstock mentre, nel 1967, si riprendeva dai postumi del famoso incidente motociclistico. Monumentale raccolta di casualità e intenzionalità assortite, è una cornucopia musicale della cui importanza si è appreso nel corso dei decenni, a partire dalle molte cover di successo che di quelle canzoni fecero cantanti e gruppi dell’epoca (su tutti i Manfred Mann con The Mighty Quinn) e passando poi per il doppio album singolarmente poco fedele che uscì nel 1975 e per i vari bootleg succedutisi nel tempo.
Notevole è stata anche la partecipazione di Dylan a quella sorta di pre-Grammy che è stata la celebrazione MusiCares nel corso della quale ha tenuto un incredibile discorso di oltre mezz’ora, lucido ed esagerato al tempo stesso, brillante e per certi versi devastante, capace come sempre di essere fuori da qualunque schema e sorprendente per il modo diretto con cui ha detto alcune cose che nessuno pensava avrebbe mai detto. Una traduzione la trovate nel meritorio sito italiano dedicato a Bob Dylan, Maggie’s Farm.
E poi ci sono stati, come sempre da oltre un quarto di secolo, i concerti. Qualcuno si lamenta per la scaletta spesso bloccata, che ha tolto quell’imprevedibilità che eravamo soliti apprezzare nei concerti di qualche tempo fa. L’altra faccia di questa medaglia è che i concerti sono generalmente ottimi e che la sua voce è migliorata. Io penso che a questo punto, come sempre in fondo, sia bene prendere quello che Dylan, alla sua età, si sente di dare. Che è ancora molto.
Quest’anno torna anche in Italia e chi vuole potrà andare a vederlo. Io, naturalmente, sarò tra quelli che ci andranno.
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