La terza edizione del Dizionario dei film horror (Bloodbuster) contiene, salvo errori di calcolo, 4129 film. Quindi, un bel po’. Ogni tanto però qualcuno mi chiede ma perché non c’è quel film o quell’altro film? Oppure, anche, ma perché c’è quel film o quell’altro film? O ancora, come mai non c’è quel film se c’è quell’altro? La risposta è semplice come ho detto più volte. Un film non c’è perché non l’ho ritenuto horror o perché mi è sfuggito. Alcuni film che mi sono sfuggiti sono stati inseriti nella seconda edizione e altri anche nella terza. Ci sono però, come detto, dei casi di film che non ci sono perché non li ho ritenuti horror. I criteri li ho spiegati nel Dizionario facendo anche qualche esempio però è chiaro che, per quanto abbia cercato d’essere obiettivo e di avere criteri sistematici coerenti, alla fine ho deciso io. Non c’è un comitato scientifico che decide a maggioranza. Ho deciso io sulla base di quello che ho ritenuto giusto. Del resto, il Dizionario l’ho scritto io. Non potevo far decidere qualcun altro anche se sono sempre stato aperto a consigli e suggerimenti.
Detto questo, dubbi e incertezze ne ho avuti spesso. Se voi guardate Imdb, per esempio, vedrete che molti film hanno tre o quattro o più generi di appartenenza e tra questi spesso c'è anche l’horror per cui il termine viene usato con una certa disinvoltura. Perciò, molte volte mi è capitato di dover vedere dei film perché qualcuno aveva suggerito avessero aspetti horror significativi. Come ho raccontato più volte ho un file nel mio computer contenente svariate centinaia di film che ho considerato e poi scartato per il Dizionario. Ma c’è di più. Ci sono dei film che sono arrivati alla fase successiva. Film per i quali ho concretamente scritto le schede che poi, in ultima analisi, ho scartato. Poiché le ho scritte e non me ne faccio niente, ho pensato di pubblicarne qualcuna qui, a titolo esemplificativo. Ecco quindi qui di seguito alcune delle schede scartate appartenenti a film che non ci sono nel Dizionario ed è bene che non ci siano, ma sono comunque delle recensioni che ho scritto. Non sono tutte, magari in futuro ne posterò qualcun altra. Sono comunque in ordine sparso. Quindici. Sono un po’ grezze, magari, e non rifinite, ma tant’è.Aberrazioni sessuali in un penitenziario femminile
(Las melancőlicas, SP 1971) di Rafael Moreno Alba con Analia Gadé, Francisco Rabal, Espartaco Santoni, Maria Asquerino. 110’
In un manicomio femminile, sorvegliato da un guardiano (Francisco Rabal) sempre sudato e bevuto e coadiuvato da suore, è rinchiusa una donna, Tania (Analia Gadé). Al manicomio arriva un nuovo dottore (Espartaco Santoni), pieno di buona volontà e di idee liberali e umanitarie, oltre che sostenitore dell’ipnotismo a fini curativi. Il nuovo dottore si scontra con le rigidità del regolamento del manicomio e si concentra su Tania, cercando di aiutarla. Ma nel passato di Tania c’è un terribile segreto. Melodramma manicomiale pieno delle cose che ci si può aspettare vi siano, ma il tasso exploitativo è confinato in sostanza in una sola sequenza in particolare (essendo un film spagnolo prima del destape è probabile che si tratti di una sequenza prodotta per il mercato estero). L’elemento orrorifico, davvero minimale, è ridotto all’ultima parte del film e ha un sottofondo esorcistico ante litteram. L’ambientazione, abbastanza accurata, è fine ‘800. Nell’insieme il film è un po’ greve anche se benintenzionato. Vigorosa, anche se un po’ monolitica, l’interpretazione di Espartaco Santoni. (Le vergini cavalcano la morte). Più sfaccettata e duttile la prova del bravo e rinomato Francisco Rabal (Dagon - La mutazione del male). Graficamente suggestivi e ben realizzati i titoli di testa, sullo sfondo di una musica dissonante con vari richiami religiosi. Il penitenziario femminile del titolo italiano non c’è, così come mancano le aberrazioni sessuali. ★★
La morte corre sul video
(Dead Innocent, CAN 1997) di Sara Botsford con Geneviève Bujold, Nancy Beatty, Graham Greene, Emily Hampshire. 91’
Suzanne St. Laurent (Geneviève Bujold) è un’avvocatessa affermata e vive in un lussuoso appartamento assieme alla figlia adolescente Nicole (Emily Hampshire) con la quale ha un rapporto leggermente conflittuale. In casa la aiuta la colf Rosa (Susan Glover). Mentre c’è solo Rosa (che fa una brutta fine), uno sconosciuto si introduce in casa St. Laurent. Quando Suzanne torna non trova Nicole, che invece dovrebbe esserci. E, soprattutto, trova il cadavere di Rosa, sgozzata. Una voce, non si sa da dove, le parla e le dice che la controlla: se apre la porta per fuggire, sua figlia morirà. È l’inizio di un incubo. La lunga parte iniziale introduce con lentezza personaggi che, in quanto piuttosto schematici, avrebbero potuto essere abbozzati in modo più svelto e se ne sarebbero comunque comprese le caratteristiche e le psicologie. La seconda parte, con il cupo e opprimente gioco mortale guidato dalla voce fuori campo che ben presto si materializza per lo spettatore, acquista tensione grazie anche alla buona gestione del racconto, claustrofobico e ossessivo. La terza parte si apre all’azione e mantiene una discreta suspense focalizzandosi anche sul background motivazionale del crimine. Niente di troppo sorprendente, ma l’intrattenimento c’è. Unica regia dell’attrice Sara Botsford, di cui si apprezzano le doti narrative e visuali. Buono il cast con Geneviève Bujold che offre una solida interpretazione nel ruolo principale, ma l’impressione migliore la desta il bravo caratterista Graham Greene. ★★½
Sonno profondo
(Argentina 2013) di Luciano Onetti con Luciano Onetti, Daiana Garcia, Silvia Duhalde. 67’
Un misterioso assassino uccide, accoltellandola, una modella brasiliana che ha posato per Playboy. Tornato a casa, l’assassino riceve, da sotto la porta, una busta contenente foto dell’omicidio. L’assassino capisce d’essere diventato un bersaglio di qualcuno che la sa lunga e deve cercare contromisure. Luciano Onetti scrive, dirige, monta, interpreta e compone (e conduce) pure le musiche: chiara la sua intenzione di rendere omaggio, reinterpretandola, alla tradizione del giallo all’italiana degli anni ’60 e ’70 e alla particolare iconografia che l’ha contraddistinta, dall’uso dei guanti neri a quello delle armi da taglio, passando per quello di tutta una serie di oggetti vintage che servono a creare un’atmosfera e definire un periodo. Il rischio di una messa in scena puramente estetizzante non è del tutto evitato (nel film non succede molto e quel non molto consiste principalmente in una consapevole ricreazione di stilemi tipici del genere di riferimento) e il voler narrare principalmente con le immagini (dai colori tipicamente saturi), se è encomiabile, rallenta parecchio il ritmo e rende talvolta ridondante l’azione. La trama è scarna, ma non priva di ingegnosità. Insistente l’uso della soggettiva, un tantino sfibrante. In definitiva, un esercizio di stile non senza meriti, ma solo per spettatori motivati che apprezzano questo genere di cose. Esordio alla regia per l’argentino Onetti che mostra una notevole ricercatezza visuale e il piacere della ri-creazione, ★★½
1922
(Id., USA 2017) di Zak Hilditch con Thomas Jane, Molly Parker, Dylan Schmid, Kaitlyn Bernard. 102'
Wilfred Leland James (Thomas Jane) scrive la sua confessione. La causa di tutto, spiega, sono centro acri di terra nel Nebraska ereditati da sua moglie Arlette (Molly Parker). Wilfred pensava di unirli ai suoi ottanta per poi lasciare tutto al figlio Henry (Dylan Schmid), ora quattordicenne. Arlette, invece, vuole venderli per trasferirsi a Omaha, in città. Un accordo non si trova perciò Arlette propone di vendere tutto, dividere i soldi e divorziare. Arlette vorrebbe portare con sé anche Henry, che invece ama la vita in campagna. Wilfred si prende del tempo per riflettere, ma le sue riflessioni non portano a nulla di buono. Henry ha iniziato una relazione con Shannon (Kaitlyn Bernard), la figlia dei vicini, e Wilfred ne approfitta per montare il figlio contro la madre, dato che, se le cose andassero come vuole lei, Henry dovrebbe rinunciare a Shannon e alla campagna. Wilfred perciò uccide Arlette con l'aiuto di Henry e ne getta il cadavere nel pozzo. Per Wilfred le cose finirebbero lì, ma l'avvocato Lester, della compagnia cui Arlette voleva vendere il terreno, vuole vederci chiaro. Lo sceriffo indaga, ma si accontenta di poco. Tutto sembra quindi procedere per il meglio, ma in realtà è l'inizio di un'ossessione. La parte preparatoria dell'omicidio è realizzata con cura e buona efficacia, aiutata anche da una suggestiva ambientazione anni '20: soprattutto il personaggio di Arlette - donna volitiva in un'epoca difficile, che non si rende conto del pericolo che corre – è tratteggiato con sensibilità, in particolare nella parte in cui, credendo d'aver raggiunto lo scopo sperato, si lascia andare, felice di non aver perso – crede lei – l'amore dei suoi familiari. La parte successiva, in cui cresce non il rimorso, ma la presa di coscienza dell'inutilità del gesto, con la disgregazione della famiglia e le cose che non vanno per il verso giusto, è di impianto più convenzionale, ma è comunque realizzata con buona professionalità. La metafora dei topi, quali personificazione del male compiuto che ritorna senza poter essere scacciato, è un po' risaputa, ma di buona efficacia anche visuale. Cupo e deprimente, ricco di atmosfera, ma un po' troppo prevedibile. Echi shakespeariani anche nell'utilizzo dello spettro della moglie in stile spirito di Banquo. Tratto da un racconto di Stephen King. Buona la prova del cast, in particolare di Thomas Jane e Molly Parker. ★★½
Last Dance
(Id., USA 1992) di Anthony Markes con Cynthia Stanton, Rod Streetwater, Erica Ringstrom, Jason Logan. 83’
In un locale notturno deve tenersi uno spettacolo che verrà ripreso in diretta televisiva (dalla famosa rete DTV): le votazioni dei telespettatori permetteranno di eleggere la ragazza DTV dell'anno, tra le cinque ballerine che dovranno esibirsi. Però cominciano alcune defezioni: la prima, una certa Franci (Heidi Lands) viene fatta fuori all'inizio, dopo la classica doccia, le altre seguono a intervalli regolari. L’intreccio di flirt del titolare del locale è la chiave dei delitti: scopriremo, infatti, che l’assassina è Kelly (Elaine Hendrix), una delle ballerine concorrenti. Kelly, però, non uccide perché vuole vincere il titolo, uccide perché non sopporta che il titolare se le faccia tutte e quelle che non riesce a farsele, se le vorrebbe fare. L’ultima, infatti, non è ancora riuscito a farsela, ma Kelly tenta di farla fuori lo stesso. Quest'ultima, Jaime (Cynthia Stanton), è più tosta di lei, però, e la mette fuori combattimento sia nel finale sia nell'incredibile e outlandish sottofinale. Filmetto paratelevisivo con poche sorprese e qualche battuta con poche pretese. Gli omicidi sono intervallati da continue esibizioni delle ballerine, non particolarmente eccitanti. Da notare un subplot con la coreografa (Kimberley Speiss) che, vecchia fiamma del titolare, approfitta delle defezioni per esibirsi in luogo delle mancanti, ottenendo un buon riscontro di pubblico prima d’essere fatta fuori. Ancora di più da notare un fatto: ci sono due scene erotiche nel film e in entrambi i casi il body double è chiaramente lo stesso (la stessa) anche se le due scene dovrebbero essere con due donne diverse. ★
Amiche cattive
(Jawbreaker, USA 1999) di Darren Stein con Rose McGowan, Rebecca Gayheart, Julie Benz, Judy Greer. 87’
Questo film vorrebbe inserirsi nel filone delle commedie nere "cattive" e "anticonformistiche" che ha generato qualche prodotto interessante negli ultimi tempi. Però non ha il coraggio di andare troppo a fondo e, soprattutto, non riesce, pur usando qualche montaggio fumettistico e addirittura lo split-screen, a dare un corpo all'effervescenza nichilista che pretenderebbe di possedere. La storia riguarda l'omicidio accidentale compiuto da tre amiche nei confronti di una quarta, che intendevano rapire per burla nel giorno del suo compleanno. La cosa che va storta è uno "spaccamascelle" (il Jawbreaker del titolo originale), una caramella grossa e dura che messa in bocca alla ragazza rapita le finisce giù in gola e ne provoca la morte. Le ragazze sono scosse, ma Courtney (Rose McGowan), che è la loro leader, elabora una messa in scena con finto stupro e nasconde tutto. Se non che un'altra ragazza, timida e imbranata, è andata a portare i compiti alla morta e scopre tutto. Per evitare che parli, Courtney le offre la trasformazione da brutto anatroccolo a cigno, nome compreso (da Fern Mayo a Violet), così da prendere il posto della morta nel quartetto delle "dive" della scuola. La ragazza, che idolatrava quelle perfette ragazze, accetta. Julie (Rebecca Gayheart), invece, una delle tre coinvolte nel delitto sia pure con una parte puramente passiva, comincia a provare dei sensi di colpa, si allontana dalle altre e si confida con il suo nuovo fidanzato. Nel frattempo, il rude detective di polizia Vera Cruz (Pam Grier) fa le sue indagini dando sempre l'impressione di capire tutto e non capendo invece mai niente. Alla fine, ci penserà Julie che sbugiarderà Courtney proprio la sera della sua premiazione a reginetta (con più di qualche rimando iconografico e contestuale a Carrie). Darren Stein cerca di dare brio al procedimento, ma non ci riesce spesso. La trama poteva essere interessante, ma lo spunto di partenza non è sviluppato. Le ragazze sono personaggi del tutto monodimensionali e, oltretutto, la loro recitazione è a tratti insopportabile, soprattutto in Rose McGowan che probabilmente deve aver pensato che enfatizzare moine e ammiccamenti avrebbe dato spessore al suo personaggio. L'unico aspetto di qualche interesse è dato dalla trasformazione della secchiona in vamp, che dà un po' di respiro a una storia che si era fatta già asfittica dopo il primo quarto d'ora, ma il moralismo banale con cui è condotta (l'apparenza non conta, può essere spazzata via in un attimo) la priva di una sostanziale rilevanza. È curioso l'utilizzo di Pam Grier per il suo puro valore di icona del cinema d'azione: il suo detective ha ben poco da fare, ma lo fa con grinta. C'è anche William Katt in una parte microscopica di qualche secondo, come padre dell'assassinata. Per non parlare di Carol Kane, nel ruolo della svampita preside. ★½
Dolce assassina
(Sweet Murder, 1990) di Percival Rubens con Embeth Davidtz, Rex Garner, John Hussey, Helene Udy. 101’
Laurie Shannon (Embeth Davidtz) è una bella ragazzona sana che, appena arrivata in città, cerca un posto dove abitare. Per sua sfortuna, sceglie di dividere l'appartamento con l'occhialuta e complessata Lisa Smith (Helene Udy) che comincia a nutrire per lei qualcosa che, più che all'amicizia, somiglia all'invidia. Laurie ha un lavoro e trova subito un bel ragazzo: cose che Lisa non ha. L'elemento scatenante è una cospicua eredità che raggiunge a sorpresa Laurie, rintracciata dopo anni di ricerca da uno studio notarile. Lisa coglie al volo l'occasione. Laurie non è conosciuta, non ha parenti: non dovrebbe essere difficile sostituirsi a lei e incassare l'eredità. Dapprima Lisa cerca la collaborazione del ragazzo di Laurie (dopo esserselo fatto, tanto per metterlo di buonumore), ma questi inorridisce all’idea e lei lo ammazza. Poi uccide anche Laurie e mette in atto il suo piano, per realizzare il quale, però, deve uccidere ancora, correndo il rischio di essere scoperta. Per alcuni aspetti (la relazione tra le due ragazze, la coabitazione fortuita, la seduzione da parte dell'invidiosa del ragazzo dell'altra), questo film anticipa il più riuscito Inserzione pericolosa di Barbet Schroeder, ma l'atmosfera non si fa mai malata come in quel film e gli accadimenti si svolgono in modo più naturale, con la conseguenzialità delle cose andate male che prendono la mano. Lisa è costretta a uccidere più persone per non perdere la chance che si è costruita e dimostra una amoralità totale, incongruamente sconfessata, però, nell'attimo di smarrimento che ne provoca la morte. Percival Rubens - che dirige con una certa professionale piattezza - aveva cercato di metterla più volte in situazioni tipicamente hitchcockiane, anche riuscite, come quando due poliziotti le sostituiscono la ruota, spostando, per prendere quella di scorta, la valigia con l’ultimo cadavere. Lo studio caratteriale ha elementi di sottigliezza, ma il finale, inutilmente moralistico, ribalta ciò che abbiamo imparato a conoscere di Lisa e compromette la riuscita di un film che, pur con una prima parte decisamente lenta e troppo dedicata alla sola costruzione dei personaggi, aveva preso vigore nella seconda. ★½
The Michelle Apts.
(Id., CAN 1995) di John Pozer con Henry Czerny, David Sparrow, Richard McMillan, Maria Vacratsis. 91’
Un contabile governativo, Alex (Henry Czerny), va a fare un'ispezione in una fabbrica chimica in una cittadina di provincia, trovandosi a essere il classico pesce fuor d'acqua, tra stranezze inquietanti e personaggi sempre sul filo della follia. Va a vivere in un residence (The Michelle Apts. del titolo) in un appartamento liberatosi per l'improvvisa e, forse, misteriosa morte dell'occupante. Tra macchie sul soffitto, affascinanti vicine con mariti violenti ed estratti conto mancanti, il contabile cerca di barcamenarsi, senza apparentemente riuscirvi. Poi il marito geloso e manesco sembra morire accidentalmente e la vicenda vira sul noir con tanto di dark lady al cubo che si giostra amabilmente il contabile, il padrone della ditta e il padrone del residence prima di venire sepolta dal crollo del soffitto dell'appartamento, ormai marcio per le perdite, proprio mentre sta per coronare il suo piano facendo uccidere anche il contabile che ormai non le serve più. Sempre sul punto di deragliare sugli accidentati e temibili percorsi di una demenzialità kafkiana, il film si mantiene fermamente sui binari grazie a una sceneggiatura molto solida in cui tutto, alla fine, torna e a una regia attenta alle sfumature caratteriali e alle notazioni bizzarre, sempre guidata dallo stimolo a non banalizzare. Un piccolo gioiello canadese. ★★★
Mille pezzi di un delirio
(Track 29, 1987) di Nicolas Roeg con Theresa Russell, Gary Oldman, Christopher Lloyd, Colleen Camp.
Linda (Theresa Russell) è l'infelice moglie di un dottore (Christopher Lloyd) con la passione dei trenini (lui ce l'ha, questa passione) e con l'insopprimibile rimpianto per la perdita di un figlio avuto a quindici anni e dal quale è stata costretta a separarsi con la forza appena nato. Martin (Gary Oldman) è un bizzarro inglese che viaggia per gli Stati Uniti alla ricerca della mamma perduta e, smontato a forza da un irascibile camionista, finisce nella cittadina dove vive Linda, incontrandola in un bar e facendone conoscenza. A questo punto le cose cominciano a complicarsi. Martin si convince che Linda sia sua mamma e la tampina senza tregua, convincendola che si tratta della verità e portandole, a questo scopo, delle prove apparentemente inoppugnabili. Il rapporto tra i due si fa sempre più morboso, incestuoso e così via, mentre il dottore approfondisce la relazione con l'infermiera Stein (Sandra Bernhard), dalla quale ama essere sculacciato, e riceve le ovazioni dei congressisti amanti dei trenini. La svolta bizzarra avviene più o meno a metà film, quando ci si rende conto che solo Linda vede Martin, che quindi è diventato solo il frutto della sua immaginazione malata, scatenata evidentemente da quell'incontro fortuito e dalla somiglianza (vera? presunta? solo nei ricordi?) di lui con il ragazzo che, al luna park tanti anni prima, l'aveva costretta a fare l'amore per la prima volta. Il meccanismo di straniamento è simile a quello di Attimi di paura di Chuck Vincent. Vediamo cioè le cose con gli occhi della protagonista, non nel senso della soggettiva, ma nel senso della realtà come la vive lei. Vediamo lei e Martin, vediamo Martin distruggere l'elaborato diorama dei trenini del dottore e vediamo Martin uccidere il dottore, ma vediamo anche ogni tanto la realtà come in effetti è (o si pensa che sia): vediamo quindi i trenini in perfetta forma, vediamo Linda parlare da sola al bar mentre parla con Martin e vediamo Linda mentre sale col coltello per ammazzare il marito. Nonostante duri solo 87', il film si trova spesso a corto di fiato. Nicolas Roeg si conferma regista dalle intuizioni geniali cui spesso non corrisponde la costanza di metterle in pratica in modo adeguato. Però il ritratto di una mancanza forte, come quello della maternità sottratta, è incisivo e la disperazione della moglie è tratteggiata con efficacia, anche se il macchiettismo dei personaggi di contorno, godibile nel breve, ma poco funzionale nell'economia complessiva del film, ne riduce grandemente l'impatto. Il cast è di attori interessanti, ma nessuno si sottrae all'esagerazione, purtroppo. Produce la Handmade di George Harrison. ★★★
Secret- Himitsu
(JPN 1999) di Yojiro Takita con Ryoko Hirosue, Kaoru Kobayashi, Ken Kaneko, Yuriko Ishida.
A causa di un incidente (l'autobus nel quale viaggiavano è precipitato per un burrone), la giovane Monami (Ryoko Hirosue) e sua mamma Naoko (Kayoko Kishimoto) sono in fin di vita. Il marito e padre accorre e riunisce le mani delle due perché possano sentirsi. Il contatto avviene proprio nel momento in cui Naoko muore, ma l’anima di Naoko trasmigra nel corpo di Monami. Quindi, lo sventurato si ritrova ad avere la moglie nel corpo della figlia, con tutte le immaginabili conseguenze. Da una premessa che avrebbe fatto felice qualche autore di commedie facili, l’autore giapponese trae un film divertente e delicato che, pur non svicolando dalle tematiche più scabrose (è possibile fare sesso con la figlia pur sapendo che nel suo corpo c'è la personalità della moglie?), si mantiene su un tono lieve e profondo al tempo stesso, evidenziando con abilità il duplice stato d’animo di Naoko che da un lato è dispiaciuta d’aver rubato, sia pure involontariamente, il corpo della figlia e dall'altro è deliziata dalla possibilità di ripartire da capo. Impressionante e ben realizzata la scena dell'incidente in apertura del film, con una regia sapiente che riesce a dare un senso di vertigine e di caduta. ★★
Passion Unbounded - Sei kap yan kong
(HK 1995) di Jon Hau con Carrie Ng, David Wu, Hilary Tsui, Christine Ng.
Miss Tong (Carrie Ng) è una serial killer che ammazza indiscriminatamente uomini e donne a causa di un trauma infantile (novità delle novità), costretta com'era a restare nello stesso letto, benché girata dall'altra parte, quando sua mamma, prostituta, si faceva i clienti. Da aggiungere poi che le attenzioni consolatorie della mamma avevano un vago sapore lesbico-incestuoso. A rompere il suo tran-tran di serial killer solitaria è il ritorno della sorellina dagli studi all'estero. Non ci vuole molto alla sorellina per capire che la sorellona è un po' svitata. Di sicuro, la sorellina capisce molto di più della coppia di fratelli poliziotti incaricati del caso e più interessati alle proprie vicende amorose che a trovare l'assassino. La svolta è che Miss Tong si imbatte in un vicino di casa che ha la sua stessa passione, oltre a essere epilettico (particolare che non ha una funzione narrativa, se non per caratterizzare l'intrinseca momentanea debolezza dell'uomo che consente a Miss Tong di fare breccia - aiutandolo in una crisi - nella sua spessa corteccia di solitario poco socievole). Insieme uccidono Apple, l'amica della sorellina e da lì partono per una serie di omicidi di coppia che li rende molto affiatati. Il film mesta nel torbido, unendo quel classico umorismo bizzarro e spesso poco riuscito di certi film hongkonghesi a scene di efferatezza sempre piuttosto trattenute, comunque. Le motivazioni dei personaggi - tranne quelle dei due assassini - sono piuttosto confuse e la narrazione alterna momenti banali a piccole ispirazioni, spesso slegate dal contesto (i set-up di qualche omicidio, come quello del transessuale). Poveristico e spesso ripetitivo, ha solo qualche barlume della selvaggia eccessività dei migliori esempi del genere e non è riscattato né dalla recitazione (tranne che in Carrie Ng, che però gioca molto sul sicuro) né dalla regia, che a parte qualche ricerca effettistica sul colore, non si spreca in inventiva. ★½
Poison - Istinto omicida
(Poison, CAN-GER-USA 1999) di Dennis Berry con Rosanna Arquette, Jürgen Prochnow, Mandy Schaffer, Michael Des Barres.
Traci (Mandy Schaffer) è una ragazzina patologicamente attaccata alla mamma Dana (Rosanna Arquette che interpreta la parte di un'attrice che vince un Oscar, sia pure come migliore attrice non protagonista) e, in mancanza, alle figure materne (la sua insegnante, a cui, facendolo passare per un incidente, fa fuori il fidanzato che la distraeva e le impediva di essere tutta per lei). La mancanza della mamma è dovuta al fatto che la mamma stessa si è attribuita la colpa dell'omicidio colposo del marito, in realtà ucciso proprio dalla ragazzina. Ma i tre anni di condanna sono finiti e Dana, abbandonata la carriera d'attrice, torna a riprendersi la piccola reproba e la porta nell'azienda vitivinicola che ha messo su con il taciturno Carl (Jürgen Prochnow), tutto dedito al lavoro. La ragazzina ne è entusiasta, ma ben presto si rende conto che c'è un sacco di gente che distrae da lei la sua mamma, tra cui il fratello di Carl che se la fa pure. Così, la ragazzina comincia a far fuori tutti, a cominciare dalla cameriera messicana e a finire con Carl (che, astuto, aveva mangiato la foglia e aveva detto alla ragazzina che la teneva d'occhio per poi farsi imbottigliare da lei in una botte metallica senza alcuna difficoltà) e suo fratello. Contenta, va a dire alla mamma quanto brava è stata. Rosanna Arquette recita malissimo. Mandy Schaffer è correttamente carina, non è molto espressiva come attrice, ma almeno si lascia vedere. Prochnow deve essere proprio alla frutta per accettare parti del genere. Il film riecheggia la serie dei Poison Ivy, sia pure con il cambiamento di direzione nella dinamica familiare, ma non è mai credibile né interessante. Prodotto televisivo, è piatto e banale su tutta la linea. ★
Weekend mortale
(Fear, USA 1988) di Robert A. Ferretti con Cliff De Young, Kay Lenz, Zoe Trilling, Scott Schwartz.
Una famigliola in crisi (marito e moglie che bisticciano sul lavoro di lei, figlia menefreghista e figlio semideficiente oltre che adolescente) vengono presi in ostaggio da un gruppetto di evasi (grazie all'immersione, provocata, del pullman che li sta trasportando in un altro carcere) e ritrovano compattezza di fronte all'abilità volitiva del babbo che tenta, con l'aiuto di tutti, di sgominare sanguinosamente la banda di efferati criminale, tra i quali si distingue, per idiozia, il consueto reduce dal Vietnam che crede di essere ancora in Vietnam. In un ruolo di carattere c'è anche il fratello di Stallone, Frank, che viene ucciso a metà film dal reduce maniaco di cui sopra. Se la trama sembra prevedibile e banale, ebbene è proprio così. ★
Alla fine del tunnel
(Tunnel Vision, Australia 1995) di Clive Fleury con Patsy Kensit, Robert Reynolds, Rebecca Riggs, Shane Briant. 100’
Kelly (Patsy Kensit) è una poliziotta coinvolta nell'indagine per scoprire il colpevole di una serie di delitti compiuti da un maniaco che si diverte a lasciare i cadaveri (di donne) in posizioni tali da rivelare un temperamento artistico. La prima traccia che Kelly e il suo collega, neosposo e vittima di accessi di gelosia nei confronti della moglie (rea di avere un rapporto troppo amichevole con un collega di lavoro), trovano è la somiglianza tra le composizioni con i cadaveri e i quadri di un pittore che opera in zona. Scoprono che il pittore frequenta un giro sadomaso con base in un locale specializzato e vedono che anche le vittime provengono da quell’ambiente. Tentano quindi di incastrare il pittore, ma questi ha un alibi di ferro: nelle notti dei delitti stava con la moglie di un senatore, che gli fornisce un alibi, anche se apparentemente controvoglia. Nel frattempo, il ménage coniugale del focoso partner di lavoro di Kelly sta andando a rotoli. Film australiano di non grande pregio, viaggia sui binari del thriller paratelevisivo, con qualche asperità che ne rivela la natura cinematografica (i cadaveri delle vittime, il locale sadomaso, benché appena tratteggiato). Rivisita il buddy-movie appaiando un uomo e una donna, ma inserendo il motivo nuovo della gelosia donna-donna che viaggia sotterraneo, lasciando in superficie quello più apparente della gelosia uomo-donna. Il film si lascia vedere con un relativo interesse. Non arriva mai a suscitare grandi tensioni, ma, diretto in modo veloce e funzionale, cerca di percorrere non una strada nuova, ma qualche vicoletto più inconsueto. Nella parte del capo di Kelly ricompare l'hammeriano Shane Briant. ★★
Breaking Dawn
(Id., USA 2004) di Mark Edwin Robinson con Kelly Overton, James Haven, Sarah-Jane Potts, Hank Harris. 83’
Nell’ambito dei suoi studi di medicina, Eve (Kelly Overton) riceve dal professor Simon (Joe Morton) l’incarico di seguire Don Wake (James Haven), uno psicopatico chiuso in se stesso sin dai tempi di un fatto di sangue ancora avvolto nel mistero e in cui lui è stato coinvolto non si sa bene in quale misura. Più procede il suo rapporto con Don e più Eve si sente coinvolta sino a perdere il suo equilibrio e ad avere la sensazione di una conferma reale delle paranoiche visioni di Don, che le parla di un misterioso e terribile Malachi in procinto di venire a cercarla. Vecchia regola quando si punta tutto su un mistero è che almeno sia tale. Qui purtroppo la soluzione è prevedibile già a metà film, in applicazione dell’altra vecchia regola che vuole la soluzione non difficile quando i personaggi sono pochi e conseguentemente le variabili. Perciò quando la soluzione “a sorpresa” arriva è inevitabilmente una delusione anche perché il passo trasognato e lento del film ha dato ampio modo allo spettatore di chiedersi quale fosse (la soluzione). Mark Edwin Robinson (classe 1980, all’esordio) ha però un piccolo guizzo e riesce a giocarsi abbastanza bene il post-delusione creando un’atmosfera rilassata e sospesa, grazie anche a un’accattivante canzone di sottofondo. Alcuni spunti non sono malvagi, ma il tutto sa troppo di compitino pianificato alla perfezione. Kelly Overton è molto impegnata nella parte. James Haven, figlio di Jon Voight e fratello di Angelina Jolie, è appropriatamente mellifluo e sinistro. ★½