Il settimo capitolo del mio libro Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac edizioni) è dedicato a Nam Nai Choi (noto, o ignoto, con varie altre traslitterazioni), una delle più curiose e insieme misteriose figure tra quelle già piuttosto variegate dei registi di cui mi sono occupato nei due volumi de Il cinema dell’eccesso.
Nam Nai Choi appartiene a una filmografia turbolenta e irrequieta, quella di Hong Kong negli anni ‘80 e ‘90, capace veramente di tutto. E alcuni dei suoi film sono tra i più significativi in questo senso perché dimostrano la grande capacità di mescolare generi e tematiche in modo sfrontato e dinamico, del tutto privo di condizionamenti che non siano eventualmente (ma molto eventualmente) quelli del mercato.
Direttore della fotografia per quella grande fucina di film che fu la Shaw Borthers, Choi si lascia convincere dall’attore e amico Danny Lee a esordire alla regia in coppia con lui nel film One Way Only, che ancora poco dice di quelle che saranno le sue tematiche e inclinazioni. Ma poi, un po’ alla volta, in un’attività frenetica e scoppiettante i film si succedono ai film, sempre più strani e sempre più eccessivi. Ci sono noir devastanti, con episodi di grande bizzarria come il feroce combattimento di pugilato tra l’eroe e un canguro in Killer’s Nocturne, e ci sono cupissimi rape & revenge come Her Vengeance, ma ci sono anche e soprattutto horror spesso uniti a frammenti di action, con ricche dosi di erotismo, come nel caso di The Seventh Curse, che è uno dei suoi film migliori. Il protagonista è nientemeno che la super star di Hong Kong per eccellenza (a parte, naturalmente, il fuori gara Jackie Chan), vale a dire Chow Yun Fat, che interpreta il ruolo di Wisely, tratto dai romanzi di Ni Kuang, anche sceneggiatore di vaglia che fa un divertito cameo nel film. Rapido, scatenato, ricco di cambiamenti di umore e di scena, è un film da non perdere.
Ma c’è molto altro ancora, come si può leggere nel capitolo dedicato a Nam Nai Choi: i due ultimi suoi film sono anche i più selvaggi. The Cat è un horror incredibile che riprende il personaggio di Wisely e va per la tangente dell’iperbole, mentre Story of Ricky, be’ è un film che va visto per credere che davvero esista, la summa del cinema bizzarro e selvaggio, senza freni, di Nam Nai Choi, un fantasmagorico e rutilante viaggio nell’atrocità sarcastica, diretto con mano ferma e determinata, da vero autore.
Dopo di che, com’era inziata, la carriera di Choi finisce lasciando il rimpianto di ciò che non è (più) stato, ma la consapevolezza di un autore da tenere presente e, se non lo si conosce, da scoprire.
Qui sopra un'immagine da Killer's Nocturne.
giovedì 29 dicembre 2016
mercoledì 30 novembre 2016
Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 6 Teruo Ishii
Il sesto capitolo del mio libro Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac edizioni) è dedicato a un regista giapponese dei più particolari, Teruo Ishii. Tra gli autori che ho esaminato nel libro è di sicuro uno tra i più affascinanti, capace di cose incredibili e di film assolutamente unici.
Cresciuto all’interno del rigido sistema produttivo giapponese si è fatto le ossa con dei noir sempre più atipici e con dei bizzarri film di super eroi (Spaceman contro i vampiri e I satelliti contro la Terra, per esempio) che appartengono al regno delle stranezze assolute. Poi è stato capace di creare una serie carceraria (almeno all’inizio) di enorme successo in Giappone (Abashiri bangaichi) nella quale ha fatto vedere delle qualità registiche innegabili e delle doti inventive di rara brillantezza. Sempre desideroso di cambiare e di cimentarsi con i limiti dell’apparato produttivo, Ishii si è poi dedicato a film estremi che anche adesso sono in grado di sorprendere, con al centro vicende truci e selvagge ambientate in quello che si può definire il Medio Evo giapponese. Con effetti speciali rudimentali, ma efficaci, Ishii ha tracciato un solco poi seguito da molti, quello del cinema della tortura: l’ha fatto senza particolare condivisione spirituale, ma con il desiderio di fare comunque del suo meglio. Riuscendoci.
I successi commerciali gli hanno permesso di dedicarsi a progetti più personali come il suo capolavoro assoluto, Horrors of Malformed Men, tratto dall’opera di Edogawa Rampo, scrittore del mistero e dell’orrore giapponese (che aveva assunto uno pseudonimo che foneticamente richiamava il nome di Edgar Allan Poe, il suo nume tutelare). Il film è un turbinoso insieme di bizzarria, inventiva, orrori malsani e tortuosi deliri psicologici: assolutamente da vedere. Purtroppo, è anche un insuccesso commerciale che si ripercuote un po’ sulla carriera di Ishii, costretto a dedicarsi anche a progetti meno personali. La sua carriera successiva comprende però capolavori come Bohachi Bushido, mirabile sinfonia di morte ed erotismo incentrata sulla ieratica figura di un samurai interpretato dal grande Tetsuro Tamba.
Dopo uno iato ultradecennale, Ishii, anziano ma mai domo, ritornò alla regia con una serie di film a basso budget totalmente liberi, spesso tratti dai manga, con esiti alterni, ma di notevole interesse. Nel corposo capitolo a lui dedicato ho cercato di tracciare nel dettaglio la sua incredibile e lunga carriera: meno celebrato di altri registi giapponesi, è però uno degli autori più interessanti provenienti da quella cinematografia. Se non tutto quello che ha fatto è eccellente, quasi tutto è godibile, molto è notevole e parecchio è imperdibile.
Cresciuto all’interno del rigido sistema produttivo giapponese si è fatto le ossa con dei noir sempre più atipici e con dei bizzarri film di super eroi (Spaceman contro i vampiri e I satelliti contro la Terra, per esempio) che appartengono al regno delle stranezze assolute. Poi è stato capace di creare una serie carceraria (almeno all’inizio) di enorme successo in Giappone (Abashiri bangaichi) nella quale ha fatto vedere delle qualità registiche innegabili e delle doti inventive di rara brillantezza. Sempre desideroso di cambiare e di cimentarsi con i limiti dell’apparato produttivo, Ishii si è poi dedicato a film estremi che anche adesso sono in grado di sorprendere, con al centro vicende truci e selvagge ambientate in quello che si può definire il Medio Evo giapponese. Con effetti speciali rudimentali, ma efficaci, Ishii ha tracciato un solco poi seguito da molti, quello del cinema della tortura: l’ha fatto senza particolare condivisione spirituale, ma con il desiderio di fare comunque del suo meglio. Riuscendoci.
I successi commerciali gli hanno permesso di dedicarsi a progetti più personali come il suo capolavoro assoluto, Horrors of Malformed Men, tratto dall’opera di Edogawa Rampo, scrittore del mistero e dell’orrore giapponese (che aveva assunto uno pseudonimo che foneticamente richiamava il nome di Edgar Allan Poe, il suo nume tutelare). Il film è un turbinoso insieme di bizzarria, inventiva, orrori malsani e tortuosi deliri psicologici: assolutamente da vedere. Purtroppo, è anche un insuccesso commerciale che si ripercuote un po’ sulla carriera di Ishii, costretto a dedicarsi anche a progetti meno personali. La sua carriera successiva comprende però capolavori come Bohachi Bushido, mirabile sinfonia di morte ed erotismo incentrata sulla ieratica figura di un samurai interpretato dal grande Tetsuro Tamba.
Dopo uno iato ultradecennale, Ishii, anziano ma mai domo, ritornò alla regia con una serie di film a basso budget totalmente liberi, spesso tratti dai manga, con esiti alterni, ma di notevole interesse. Nel corposo capitolo a lui dedicato ho cercato di tracciare nel dettaglio la sua incredibile e lunga carriera: meno celebrato di altri registi giapponesi, è però uno degli autori più interessanti provenienti da quella cinematografia. Se non tutto quello che ha fatto è eccellente, quasi tutto è godibile, molto è notevole e parecchio è imperdibile.
venerdì 11 novembre 2016
Il cinema del disastro su Segnocinema 202
Nel numero 202 (novembre-dicembre 2016) di Segnocinema, quello attualmente in distribuzione, c'è la prima parte di un lungo articolo che ho scritto. L'articolo si intitola Il cinema del disastro e proprio di quello parla: del cinema catastrofico, uno dei generi che prediligo. L'articolo - la cui frase di richiamo è: "Tormentata genesi e incerte prospettive del cinema catastrofico" - in questa prima parte traccia la storia del cinema catastrofico nel suo divenire, nei suoi tentativi, cioè, di arrivare alla solidificazione di una formula che l'avrebbe trasformato in un genere vero e proprio. Ciò sarebbe successo solo con i kolossal degli anni '70, di cui, assieme a ciò che avvenne dopo, si occupa la seconda parte dell'articolo, che verrà pubblicata nel prossimo numero di Segnocinema. In questa prima parte, quindi, spazio ai precursori che nel corso di vari decenni hanno cercato di trovare la via alla catastrofe. Inoltre, qualche riflessione sulla fascinazione invincibile verso le catastrofi rappresentate sullo schermo (diversamente, è il caso di dirlo, da quelle reali, che affascinano ben poco e anzi atterriscono e sgomentano).
Se l'argomento vi interessa, penso che possa interessarvi anche l'articolo (non si sa mai). In ogni caso, come sempre, il numero di Segnocinema presenta parecchie altre cose interessanti, a partire dallo speciale L'uomo immaginario del XXI secolo a cura di Luca Bandirali e Stefano Cristante, passando poi per le numerose recensioni e le puntuali rubriche.
Qui sopra la copertina del dvd di La crociera del terrore, uno dei film protocatstrofici di cui parlo nell'articolo. Bel film, tra l'altro.
Se l'argomento vi interessa, penso che possa interessarvi anche l'articolo (non si sa mai). In ogni caso, come sempre, il numero di Segnocinema presenta parecchie altre cose interessanti, a partire dallo speciale L'uomo immaginario del XXI secolo a cura di Luca Bandirali e Stefano Cristante, passando poi per le numerose recensioni e le puntuali rubriche.
Qui sopra la copertina del dvd di La crociera del terrore, uno dei film protocatstrofici di cui parlo nell'articolo. Bel film, tra l'altro.
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mercoledì 9 novembre 2016
Morgan
Oggi esce Morgan, un film diretto da Luke (figlio di Ridley, nipote di Tony) Scott che rielabora in chiave fantahorror il classico mito di Frankenstein, ponendo la classica domanda sui confini tra etica e scienza. Se vi interessa leggere la recensione che ho scritto per MYmovies, non avete che da cliccare qui ed essere catapultati sulla giusta pagina del sito di MYmovies dove, poi, se vorrete potrete soffermarvi anche per molte altre cose interessanti.
Qui sopra un'immagine dal film, con la protagonista Anya Taylor-Joy in evidenza. Forse qualcuno di voi se la ricorderà come protagonista del recente horror The Witch: io me la ricordavo di certo. Nel cast c'è anche Jennifer Jason Leigh, un po' lontana dai suoi fasti, ma sempre efficace, anche se in un piccolo ruolo.
Qui sopra un'immagine dal film, con la protagonista Anya Taylor-Joy in evidenza. Forse qualcuno di voi se la ricorderà come protagonista del recente horror The Witch: io me la ricordavo di certo. Nel cast c'è anche Jennifer Jason Leigh, un po' lontana dai suoi fasti, ma sempre efficace, anche se in un piccolo ruolo.
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Evil Selfie di Eros Bosi
Tempo fa ho scritto di un film, La mano infernale, di cui Eros Bosi era protagonista. Adesso ho potuto vedere un cortometraggio, Evil Selfie, di circa undici minuti di cui Eros Bosi è regista, oltre che essere interprete principale. Diciamo subito che si tratta di un corto simpatico, che non si prende troppo sul serio (e fa bene). L’idea è quella di ironizzare sulla manie dei selfie e di farlo all’interno di un contesto horror di stampo tradizionale, con qualche richiamo all’iconografia dell’horror giapponese, ma senza farsi troppe domande sul perché certi fenomeni soprannaturali avvengano.
La storia è semplice, come si conviene a un corto. Isabella (Chiara Palombi) rompe inavvertitamente uno specchio e per evitare la conseguente sfortuna mette in atto un rimedio trovato su internet. Porta i frammenti, tenuti sotto acqua per una settimana, tra la vegetazione, ma l’effetto non è proprio quello sperato. Il padre (Maurizio Bolli) la cerca di notte e trova uno dei frammenti dello specchio, insanguinato. Poi, nel buio, gli si presenta la figura fantasmatica della figlia. Tempo dopo una coppietta - Fabiano (Eros Bosi) e Mara (Diletta Vedovelli) - si apparta in auto nel prato vicino. Lui è sbronzo e si addormenta, lei insiste per fare dei selfie. Quando lui si sveglia vede, nel selfie contenuto nel telefonino di Mara, che non c’è più (è andata, vedremo, in un boschetto per bisogni fisiologici), la figura zombesca di Isabella, che gli compare minacciosa anche nella realtà. Fabiano è braccato da Isabella, ma riesce a fermarla facendole delle foto, dato che lei è sensibile alla cosa e si presta mettendosi in posa. Quando Mara torna e vede le foto di Isabella nel telefonino di Fabiano si ingelosisce e si infuria incurante delle proteste di Fabiano che vorrebbe filarsela prima del ritorno di Isabella.
Il soggetto è di Eros Bosi, mentre la sceneggiatura è di Luca Alessandro: lo spunto di base è abbastanza originale e la storia è condotta con buona vivacità, pur con qualche ripetitività. Alcuni momenti propriamente horror dimostrano che, volendo, le qualità per una messa in scena più attinente al genere ci possono essere: certi passaggi nel montaggio, certe inquadrature, certe atmosfere sono suggestive. La scelta di affrontare il tema con ironia è comunque vincente e appropriata alla materia e sono diverse le scene in cui lo stravolgimento umoristico degli stilemi tipici dell’horror funziona bene. Ci sono poi altri momenti in cui l’effetto comico, ricercato, non scatta, ma sono difetti di scorrevolezza e uniformità chiaramente dovuti al budget e, probabilmente, all’inesperienza. Lo stesso può dirsi della prova del cast che alterna momenti di buona aderenza ai personaggi ad altri un po’ meno convincenti.
L’intervento di Gene Gnocchi (nientemeno!) uno se lo aspetta, quantomeno avendo visto il nome nei titoli di testa, ma è comunque davvero notevole per effetto ed efficacia.
La storia è semplice, come si conviene a un corto. Isabella (Chiara Palombi) rompe inavvertitamente uno specchio e per evitare la conseguente sfortuna mette in atto un rimedio trovato su internet. Porta i frammenti, tenuti sotto acqua per una settimana, tra la vegetazione, ma l’effetto non è proprio quello sperato. Il padre (Maurizio Bolli) la cerca di notte e trova uno dei frammenti dello specchio, insanguinato. Poi, nel buio, gli si presenta la figura fantasmatica della figlia. Tempo dopo una coppietta - Fabiano (Eros Bosi) e Mara (Diletta Vedovelli) - si apparta in auto nel prato vicino. Lui è sbronzo e si addormenta, lei insiste per fare dei selfie. Quando lui si sveglia vede, nel selfie contenuto nel telefonino di Mara, che non c’è più (è andata, vedremo, in un boschetto per bisogni fisiologici), la figura zombesca di Isabella, che gli compare minacciosa anche nella realtà. Fabiano è braccato da Isabella, ma riesce a fermarla facendole delle foto, dato che lei è sensibile alla cosa e si presta mettendosi in posa. Quando Mara torna e vede le foto di Isabella nel telefonino di Fabiano si ingelosisce e si infuria incurante delle proteste di Fabiano che vorrebbe filarsela prima del ritorno di Isabella.
Il soggetto è di Eros Bosi, mentre la sceneggiatura è di Luca Alessandro: lo spunto di base è abbastanza originale e la storia è condotta con buona vivacità, pur con qualche ripetitività. Alcuni momenti propriamente horror dimostrano che, volendo, le qualità per una messa in scena più attinente al genere ci possono essere: certi passaggi nel montaggio, certe inquadrature, certe atmosfere sono suggestive. La scelta di affrontare il tema con ironia è comunque vincente e appropriata alla materia e sono diverse le scene in cui lo stravolgimento umoristico degli stilemi tipici dell’horror funziona bene. Ci sono poi altri momenti in cui l’effetto comico, ricercato, non scatta, ma sono difetti di scorrevolezza e uniformità chiaramente dovuti al budget e, probabilmente, all’inesperienza. Lo stesso può dirsi della prova del cast che alterna momenti di buona aderenza ai personaggi ad altri un po’ meno convincenti.
L’intervento di Gene Gnocchi (nientemeno!) uno se lo aspetta, quantomeno avendo visto il nome nei titoli di testa, ma è comunque davvero notevole per effetto ed efficacia.
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lunedì 31 ottobre 2016
Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 5 Juan Lopez Moctezuma
Il quinto capitolo del mio libro Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac edizioni) rimane in Messico, come per il capitolo precedente dedicato a René Cardona, ma mostra un aspetto del tutto diverso dell’exploitation messicana. Semplificando, ho descritto questo lato come quello “intellettuale”, in contrapposizione con quello “popolare” rappresentato da Cardona.
Moctezuma è stato un regista di pochi film e non tutti riusciti. Alcuni addirittura mai usciti e persi nel limbo delle visioni perdute. Nonostante ciò, è un regista significativo e importante, che non va dimenticato. Collaboratore del vulcanico Alejandro Jodorowski per le sue prime imprese messicane, Moctezuma mantiene qualcosa del surrealismo dirompente del maestro della psicomagia, ma dimostra una personalità autonoma e non irrilevante. The Mansion of Madness (o La mansion de la locura), tratto in qualche modo da Edgar Allan Poe, è un esordio fulminante e bizzarro. Mary, Mary, Bloody Mary è una conferma di talento e qualità indiscutibili. Ma Alucarda la hija de las tinieblas è l’apoteosi: un film che va assolutamente visto e che nel suo lucido delirio ha qualità visuali sorprendenti. L’ho anche inserito nella mia top ten esorcistica di cui ho parlato qualche tempo fa, ma a parte questo è un film ricchissimo di spunti e di inventiva.
Da lì in poi, l’integrità artistica di Moctezuma trova difficoltà a rapportarsi con le strettoie dell’indutria cinematografica e la sua carriera, tra qualche sussulto, termina anticipatamente. Come del resto la sua vita, nel 1995, ad appena 63 anni per un attacco di cuore. Spero che le poche pagine che gli ho dedicato possano incuriosire qualcuno e indurlo a vedere i suoi film. Chi lo farà non resterà deluso.
Qui sopra un'immagine da Alucarda.
Moctezuma è stato un regista di pochi film e non tutti riusciti. Alcuni addirittura mai usciti e persi nel limbo delle visioni perdute. Nonostante ciò, è un regista significativo e importante, che non va dimenticato. Collaboratore del vulcanico Alejandro Jodorowski per le sue prime imprese messicane, Moctezuma mantiene qualcosa del surrealismo dirompente del maestro della psicomagia, ma dimostra una personalità autonoma e non irrilevante. The Mansion of Madness (o La mansion de la locura), tratto in qualche modo da Edgar Allan Poe, è un esordio fulminante e bizzarro. Mary, Mary, Bloody Mary è una conferma di talento e qualità indiscutibili. Ma Alucarda la hija de las tinieblas è l’apoteosi: un film che va assolutamente visto e che nel suo lucido delirio ha qualità visuali sorprendenti. L’ho anche inserito nella mia top ten esorcistica di cui ho parlato qualche tempo fa, ma a parte questo è un film ricchissimo di spunti e di inventiva.
Da lì in poi, l’integrità artistica di Moctezuma trova difficoltà a rapportarsi con le strettoie dell’indutria cinematografica e la sua carriera, tra qualche sussulto, termina anticipatamente. Come del resto la sua vita, nel 1995, ad appena 63 anni per un attacco di cuore. Spero che le poche pagine che gli ho dedicato possano incuriosire qualcuno e indurlo a vedere i suoi film. Chi lo farà non resterà deluso.
Qui sopra un'immagine da Alucarda.
venerdì 21 ottobre 2016
Il cinema di Bob Dylan a Babel
Oggi, nel primo pomeriggio, sono stato intervistato da Fulvio Toffoli (che ringrazio per l'ospitalità) all'interno del programma Babel, su Radio Rai Friuli-Venezia Giulia. Babel è un interessante programma culturale dedicato "a chi ama il cinema".
Il motivo che ha originato l'intervista è stato il Nobel a Bob Dylan e l'argomento dell'intervista è stato il rapporto tra Bob Dylan e il cinema, sul quale mi sono dilungato con piacere. Il motivo per il quale sono stato proprio io a dilungarmi sull'argomento è che, oltre a vari articoli al riguardo, ho anche scritto un libro completamente dedicato a Bob Dylan e il cinema, vale a dire Il cinema di Bob Dylan (Le Mani).
Le interviste radiofoniche in diretta mi generano sempre un po' di apprensione, ma in questo caso il clima è stato molto piacevole e rilassato, pur nella brevità della cosa.
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martedì 18 ottobre 2016
Il premio Nobel Bob Dylan e il cinema
Per restare in argomento, segnalo il corposo articolo che ho scritto per MYmovies: in occasione del Nobel a Bob Dylan e alla moderata controversia che ne è nata (ben più grande è stato il plauso, com'è giusto), ripercorro il rapporto tra Dylan e il cinema, che di controversie ne ha suscitate ben di più. L'argomento è quello del mio libro Il cinema di Bob Dylan, ça va sans dire, ma questo articolo può essere un'utile introduzione e compendio. L'articolo potete leggerlo qui, sul sito di MYmovies.
Qui sopra un'immagine da Masked and Anonymous.
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giovedì 13 ottobre 2016
Il Nobel per la letteratura a Bob Dylan
Dopo una ventina d'anni dalla prima segnalazione all'Accademia svedese, Bob Dylan ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura, vale a dire il più prestigioso premio letterario. La notizia è di quelle destinate a suscitare reazioni contrastanti, ma non certo in me, che ritengo il premio come il naturale riconoscimento per un merito culturale innegabile. E' ovvio che c'è chi non è d'accordo per questioni soprattutto di "mezzo espressivo". La canzone non sarebbe letteratura perché è qualcosa che è previsto debba essere eseguita e non ha valore letterario assoluto a sé stante. Lo stesso si potrebbe dire per il lavoro dei commediografi, peraltro, che è scritto per essere rappresentato e non, di fatto, per essere letto (ma nulla vieta di leggerlo, come nulla vieta di leggere le canzoni di Bob Dylan). Peraltro, penso che pochi dubitino che se il Nobel fosse esistito ai tempi di Shakespeare questi non avrebbe meritato d'essere preso in considerazione. Ho letto di uno scrittore che commentava dicendo che allora adesso lui sperava di vincere un Grammy. Sì, certo. Come no. Se la qualità delle battute è questa, siamo a posto. Del resto, si sa che ogni volta che si propone qualcosa di inconsueto subito compaiono gli acidi custodi dell'ortodossia, campioni della forma sulla sostanza.
Ma queste sono questioni assolutamente insignificanti, controversie inutili che si possono lasciare a chi ama questo genere di cose. Bob Dylan, del resto, è abituato a dividere, anche in campo musicale. Non è mai stato per tutti.
C'è anche stato chi, entrando più nel merito, ha sottolineato come il premio dato a Bob Dylan significhi in qualche misura lo sdoganamento del testo per canzoni e il suo inserimento nella letteratura tout court (qualora non fosse già così). Credo sia vero solo in parte. Il premio a Dylan significa soprattutto un riconoscimento alla qualità elevata della sua scrittura, elevata al punto da trascendere il mezzo in cui ha scelto di operare. Nessuno, tra i songwriters, ha saputo creare un opus così ampio e ricco qualitativamente. Per cui, sì, potrebbe anche essere che un domani qualche altro cantautore lo raggiunga o lo superi, ma per il momento è proprio la sua unicità, anche nel campo, ad aver fatto la differenza. Un po' come successe per Dario Fo, scomparso proprio oggi.
A chi, comunque, continua a ritenere che il Nobel a un cantante sia una cosa assurda, consiglio di prendersi un po' di tempo per andarsi a leggere cosa ha scritto Bob Dylan, possibilmente in inglese o in subordine nella traduzione (validissima, per quel che è possibile) di Alessandro Carrera. Se lo farà senza pregiudizi (o magari anche con pregiudizi: potrebbe sorprendersi) si renderà conto del perché così tanti letterati e studiosi lo ritengono un poeta dei migliori. La profondità e la complessità della sua opera, la varietà tematica, l'insuperabile abilità nell'utilizzo delle parole, il rigore e la brillantezza della scrittura, la capacità di toccare il cuore e l'anima delle persone: tutte cose, assieme a molte altre, che lo qualificano come un artista del massimo livello. Personalmente non credevo che l'Accademia avrebbe mai avuto il buon senso e forse anche il coraggio di compiere una scelta così controcorrente, ma sono contento che l'abbia fatto. E adesso aspettiamo di vedere cosa dirà Dylan al momento di accettare il Nobel: la storia ci insegna che i suoi discorsi di accettazione - dal laconico al logorroico - sono spesso pieni di sorprese.
Ma queste sono questioni assolutamente insignificanti, controversie inutili che si possono lasciare a chi ama questo genere di cose. Bob Dylan, del resto, è abituato a dividere, anche in campo musicale. Non è mai stato per tutti.
C'è anche stato chi, entrando più nel merito, ha sottolineato come il premio dato a Bob Dylan significhi in qualche misura lo sdoganamento del testo per canzoni e il suo inserimento nella letteratura tout court (qualora non fosse già così). Credo sia vero solo in parte. Il premio a Dylan significa soprattutto un riconoscimento alla qualità elevata della sua scrittura, elevata al punto da trascendere il mezzo in cui ha scelto di operare. Nessuno, tra i songwriters, ha saputo creare un opus così ampio e ricco qualitativamente. Per cui, sì, potrebbe anche essere che un domani qualche altro cantautore lo raggiunga o lo superi, ma per il momento è proprio la sua unicità, anche nel campo, ad aver fatto la differenza. Un po' come successe per Dario Fo, scomparso proprio oggi.
A chi, comunque, continua a ritenere che il Nobel a un cantante sia una cosa assurda, consiglio di prendersi un po' di tempo per andarsi a leggere cosa ha scritto Bob Dylan, possibilmente in inglese o in subordine nella traduzione (validissima, per quel che è possibile) di Alessandro Carrera. Se lo farà senza pregiudizi (o magari anche con pregiudizi: potrebbe sorprendersi) si renderà conto del perché così tanti letterati e studiosi lo ritengono un poeta dei migliori. La profondità e la complessità della sua opera, la varietà tematica, l'insuperabile abilità nell'utilizzo delle parole, il rigore e la brillantezza della scrittura, la capacità di toccare il cuore e l'anima delle persone: tutte cose, assieme a molte altre, che lo qualificano come un artista del massimo livello. Personalmente non credevo che l'Accademia avrebbe mai avuto il buon senso e forse anche il coraggio di compiere una scelta così controcorrente, ma sono contento che l'abbia fatto. E adesso aspettiamo di vedere cosa dirà Dylan al momento di accettare il Nobel: la storia ci insegna che i suoi discorsi di accettazione - dal laconico al logorroico - sono spesso pieni di sorprese.
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lunedì 10 ottobre 2016
La Banda sul Messaggero dei Ragazzi n. 1005!
Nel numero 1005 del Messaggero dei Ragazzi (ottobre 2016), attualmente in distribuzione, c'è un nuovo episodio (il sesto) della serie che sto scrivendo. La seria, come ormai dovrebbe essere noto, si intitola La Banda e l'episodio in questione si intitola Halloween, in buona sintonia con il periodo.
In questa nuova storia, che stavolta eccezionalmente dura 9 pagine in luogo delle consuete 8, i ragazzi della Banda sono alle prese con la festa di Halloween che sono costretti a rivisitare in un modo per loro un po' inconsueto. Ai disegni (dopo Luca Salvagno, creatore grafico della serie, Francesco Frosi e Giorgia Catelan), arriva il bravo Isacco Saccoman, che se la cava più che egregiamente, sia nel'uso dei personaggi e delle ambientazioni sia in quello della leggibilità del fumetto.
Qui sopra alcune vignette tratte dalla storia. E buona lettura (a chi se la leggerà).
In questa nuova storia, che stavolta eccezionalmente dura 9 pagine in luogo delle consuete 8, i ragazzi della Banda sono alle prese con la festa di Halloween che sono costretti a rivisitare in un modo per loro un po' inconsueto. Ai disegni (dopo Luca Salvagno, creatore grafico della serie, Francesco Frosi e Giorgia Catelan), arriva il bravo Isacco Saccoman, che se la cava più che egregiamente, sia nel'uso dei personaggi e delle ambientazioni sia in quello della leggibilità del fumetto.
Qui sopra alcune vignette tratte dalla storia. E buona lettura (a chi se la leggerà).
lunedì 3 ottobre 2016
L'esorcista
Sulla scia, probabilmente, della mia top ten sui film esorcistici, ho scritto per MYmovies una nuova recensione del film esorcistico per eccellenza, L'esorcista di William Friedkin. Se volete leggerla, cliccate qui, e fatevi trasportare in una rivisitazione di un classico senza tempo.
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domenica 2 ottobre 2016
Red Net di Tiziano Cella
Una giovane hacker cracca un sistema di sicurezza e ottiene l’accesso a dei video nei quali un uomo (David White) è legato e torturato da una donna (Beatrice Gattai) perché non vuole rispondere alle sue domande. La donna carica la pistola con una sola pallottola e parte a formulare le domande: ogni volta che lui mentirà o non risponderà, premerà il grilletto, in una sorta di roulette russa ben poco volontaria. L’uomo ammette di chiamarsi Alex Spears e di essere a Roma per il suo lavoro alla Media Dab. La donna - che sa che lui è inglese ed è esperto di computer - vuole sapere di più sullo specifico cliente per il quale lui è a Roma. Alex spiega che si tratta di una persona che gli aveva chiesto di controllare il suo sistema di sicurezza. Ma la donna non ci crede e vuole conoscere che cosa lui sappia della Red Net. Si scopre che anche Julia (Claudia Marasca), compagna di Alex, è prigioniera, legata e imbavagliata. Lo scopo della sua prigionia è quello di fungere da stimolo ad Alex perché riveli quello che sa. Julia teme che i rapitori vogliano un riscatto perché lui lavora per una grande multinazionale, magari l’hanno scambiato per qualcuno di importante. Alex sembra non capirci nulla. Ma le cose sono destinate a complicarsi sempre più.
Dopo Subject 0: Shattered Memories, l’attore e regista Tiziano Cella (qui solo nella seconda veste: come attore lo ricordiamo in Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo) torna con un nuovo film del tutto diverso. Il format è in sostanza quello del found footage movie, nel quale riprese “ritrovate” o “scoperte” rappresentano la “realtà” di ciò che è avvenuto. Il format è molto in voga negli ultimi anni, ma presenta vantaggi e svantaggi di natura strutturale che richiedono particolare cura e inventiva per arrivare a risultati positivi. Un difetto consueto è quello delle lungaggini determinate dalla mancanza di un montaggio di tipo tradizionale. Un altro è quello delle immagini volutamente mosse per mimare riprese amatoriali o comunque non professionali: alla lunga, per quanto possa essere verosimile che riprese del genere vengano effettuate così (ma verosimile sino a un certo punto: se si deve riprendere un interrogatorio è più probabile che si piazzi una camera fissa su un cavalletto, puntata sull’interrogato), dal punto di vista dello spettatore la cosa può essere un po’ stancante. Cella non evita questi difetti, ma cerca di neutralizzarli per quanto possibile puntando sulla creazione di un mistero e sul suo progressivo disvelarsi in una sorta di duello psicologico tra l’inquisitrice e l’inquisito nel quale ci si può aspettare ogni tipo di bugia. Lo sviluppo narrativo è un po’ lento e il gioco intellettuale tra i due presenta qualche momento di stanca, ma la vicenda mantiene, nel complesso, sufficientemente desta l’attenzione dello spettatore.
L’idea di realizzare una sorta di spy-movie con possibili riflessi catastrofici (c’è di mezzo un virus) come film da camera è piuttosto ambiziosa e curiosa, ma, come il McGuffin di Hitchcock, ogni motivo è buono per suscitare tensione (o, meglio, interesse a conoscere la soluzione) e creare un elemento di motivazione per il confronto. Inoltre, la tematica di fondo è suggestiva.
Austero e trattenuto anche nell’esposizione della violenza, il film si risolve in un confronto continuo tra gli antagonisti in cui le sorprese non sono estreme (l’identità della ragazza che nasconde il proprio volto non è tropo difficile da indovinare), ma il colpo di scena finale funziona. Tiziano Cella - che oltre a dirigere scrive la sceneggiatura insieme all'interprete principale David White - conferma buone doti di messa in scena, dovendo avere a che fare con un budget che si presume assai ridotto.
Buona prova dei due protagonisti che devono reggere quasi da soli il film: in particolare Beatrice Gattai, perfettamente a suo agio nel ruolo, mostra una buona gamma interpretativa. Suggestivo ed efficace il brano Last Dawn di Ross Bugden.
Dopo Subject 0: Shattered Memories, l’attore e regista Tiziano Cella (qui solo nella seconda veste: come attore lo ricordiamo in Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo) torna con un nuovo film del tutto diverso. Il format è in sostanza quello del found footage movie, nel quale riprese “ritrovate” o “scoperte” rappresentano la “realtà” di ciò che è avvenuto. Il format è molto in voga negli ultimi anni, ma presenta vantaggi e svantaggi di natura strutturale che richiedono particolare cura e inventiva per arrivare a risultati positivi. Un difetto consueto è quello delle lungaggini determinate dalla mancanza di un montaggio di tipo tradizionale. Un altro è quello delle immagini volutamente mosse per mimare riprese amatoriali o comunque non professionali: alla lunga, per quanto possa essere verosimile che riprese del genere vengano effettuate così (ma verosimile sino a un certo punto: se si deve riprendere un interrogatorio è più probabile che si piazzi una camera fissa su un cavalletto, puntata sull’interrogato), dal punto di vista dello spettatore la cosa può essere un po’ stancante. Cella non evita questi difetti, ma cerca di neutralizzarli per quanto possibile puntando sulla creazione di un mistero e sul suo progressivo disvelarsi in una sorta di duello psicologico tra l’inquisitrice e l’inquisito nel quale ci si può aspettare ogni tipo di bugia. Lo sviluppo narrativo è un po’ lento e il gioco intellettuale tra i due presenta qualche momento di stanca, ma la vicenda mantiene, nel complesso, sufficientemente desta l’attenzione dello spettatore.
L’idea di realizzare una sorta di spy-movie con possibili riflessi catastrofici (c’è di mezzo un virus) come film da camera è piuttosto ambiziosa e curiosa, ma, come il McGuffin di Hitchcock, ogni motivo è buono per suscitare tensione (o, meglio, interesse a conoscere la soluzione) e creare un elemento di motivazione per il confronto. Inoltre, la tematica di fondo è suggestiva.
Austero e trattenuto anche nell’esposizione della violenza, il film si risolve in un confronto continuo tra gli antagonisti in cui le sorprese non sono estreme (l’identità della ragazza che nasconde il proprio volto non è tropo difficile da indovinare), ma il colpo di scena finale funziona. Tiziano Cella - che oltre a dirigere scrive la sceneggiatura insieme all'interprete principale David White - conferma buone doti di messa in scena, dovendo avere a che fare con un budget che si presume assai ridotto.
Buona prova dei due protagonisti che devono reggere quasi da soli il film: in particolare Beatrice Gattai, perfettamente a suo agio nel ruolo, mostra una buona gamma interpretativa. Suggestivo ed efficace il brano Last Dawn di Ross Bugden.
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giovedì 29 settembre 2016
La mia top ten dei film esorcistici
In occasione dell'uscita di un interessante e risucito documentario sui veri esorcismi - Liberami di Federica Di Giacomo - ho elaborato per MYmovies una top ten dei film esorcistici. Non è stato facile sceglierli e alcune scelte sono un po' particolari, ma ogni top ten risente per forza del gusto di chi la compila e può non incontrare l'approvazione di chi ha gusti diversi. La cosa utile di queste top ten è comunque quella, penso, di attirare l'attenzione su film meritevoli e in questo senso mi sono mosso. La top ten la trovate qui, su MYmovies.
Una precisazione: le stellette che accompagnano i film della top ten non sono state attribuite da me, ma sono quelle attribuite ai film da MYmovies nel suo dizionario globale. Per esempio, a The Possession io darei 3 stellette, mentre i film che non sono recensiti nel loro database sono senza stellette (tipo Hex e Alucarda): per quelli fate riferimento al mio Dizionario dei film horror, che certamente avrete in bella evidenza nella vostra libreria.
Qui sopra un'immagine da Hex, uno dei film della top ten.
Una precisazione: le stellette che accompagnano i film della top ten non sono state attribuite da me, ma sono quelle attribuite ai film da MYmovies nel suo dizionario globale. Per esempio, a The Possession io darei 3 stellette, mentre i film che non sono recensiti nel loro database sono senza stellette (tipo Hex e Alucarda): per quelli fate riferimento al mio Dizionario dei film horror, che certamente avrete in bella evidenza nella vostra libreria.
Qui sopra un'immagine da Hex, uno dei film della top ten.
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giovedì 22 settembre 2016
Curtis Hanson (1945-2016)
Ci sono registi da cui ti aspetti sempre il colpo d’ala che porti a compimento la loro carriera dandole una sommità che realizzi appieno il potenziale. Il colpo d’ala sembra non arrivare mai e poi arriva invece la morte del regista a porre compimento alla sua carriera e anche a tutto il resto. Allora guardi indietro e vedi che in effetti, invece, la carriera è stata una bella carriera e i film realizzati erano già un corpus notevole. Curtis Hanson era, per me, uno di questi registi. Forse non ha diretto capolavori, ma ha fatto parecchi film interessanti.
A partire dai primi, Sensualità morbosa (1972) ed Evil Town (1977), ha fatto capire di non disdegnare di sporcarsi le mani con i generi “bassi”. Poi ha trovato modo di salire di categoria e di farsi notare con un gioiellino come l’hitchockiano La finestra della camera da letto (1987) che all’epoca mi colpì per la nitidezza degli intenti e la bravura registica che palesava. Dopo la conferma con Cattive compagnie (1990), La mano sulla culla (1992), uno psycho-thriller pressoché perfetto con una Rebecca DeMornay grandissima. Quando le ambizioni autoriali crescono, emergono opere talvolta affascinanti, ma spesso imperfette. L.A. Confidential (1997), pur geniale rivisitazione del noir, sembra mancare del mordente del romanzo di Ellroy, in parte smussato negli angoli e “nostalgizzato”, probabilmente per una precisa scelta di campo. Wonder Boys (2000) resta un film con molti pregi, ma anche con qualcosa di irrisolto nel sottofondo non direi buonista, ma forse sin troppo ottimista. Lo stesso, ma con un grado di irresolutezza maggiore, può dirsi di Le regole del gioco, un film che affronta una tematica classica del cinema hollywoodiano senza forse riuscire ad attualizzarla. E poi ci sono altri film, anche di grande successo, come 8 Mile. Una carriera che forse poteva essere più cospicua, ma non è per nulla irrilevante.
E soprattutto, per quel che mi riguarda, è interessante il rapporto che ha legato Hanson a Bob Dylan, che per lui ha scritto due delle sue rare canzoni per il cinema. Una è la meravigliosa Things Have Changed (per Wonder Boys) e l’altra è la toccante Huck’s Tune (per Le regole del gioco). In entrambi i casi, Dylan è riuscito a cogliere l’essenza dei film, approfondendola e portandola a vette di concisa perfezione. In particolare Things Have Changed, come, se ci si pensa, Knockin' on Heaven's Door, ha la peculiarità di essere perfettamente aderente allo scopo e funzionale al film e di essere al tempo stesso così autonoma da guadagnare col tempo significati ulteriori e così profondi da renderla sempre attuale.
A partire dai primi, Sensualità morbosa (1972) ed Evil Town (1977), ha fatto capire di non disdegnare di sporcarsi le mani con i generi “bassi”. Poi ha trovato modo di salire di categoria e di farsi notare con un gioiellino come l’hitchockiano La finestra della camera da letto (1987) che all’epoca mi colpì per la nitidezza degli intenti e la bravura registica che palesava. Dopo la conferma con Cattive compagnie (1990), La mano sulla culla (1992), uno psycho-thriller pressoché perfetto con una Rebecca DeMornay grandissima. Quando le ambizioni autoriali crescono, emergono opere talvolta affascinanti, ma spesso imperfette. L.A. Confidential (1997), pur geniale rivisitazione del noir, sembra mancare del mordente del romanzo di Ellroy, in parte smussato negli angoli e “nostalgizzato”, probabilmente per una precisa scelta di campo. Wonder Boys (2000) resta un film con molti pregi, ma anche con qualcosa di irrisolto nel sottofondo non direi buonista, ma forse sin troppo ottimista. Lo stesso, ma con un grado di irresolutezza maggiore, può dirsi di Le regole del gioco, un film che affronta una tematica classica del cinema hollywoodiano senza forse riuscire ad attualizzarla. E poi ci sono altri film, anche di grande successo, come 8 Mile. Una carriera che forse poteva essere più cospicua, ma non è per nulla irrilevante.
E soprattutto, per quel che mi riguarda, è interessante il rapporto che ha legato Hanson a Bob Dylan, che per lui ha scritto due delle sue rare canzoni per il cinema. Una è la meravigliosa Things Have Changed (per Wonder Boys) e l’altra è la toccante Huck’s Tune (per Le regole del gioco). In entrambi i casi, Dylan è riuscito a cogliere l’essenza dei film, approfondendola e portandola a vette di concisa perfezione. In particolare Things Have Changed, come, se ci si pensa, Knockin' on Heaven's Door, ha la peculiarità di essere perfettamente aderente allo scopo e funzionale al film e di essere al tempo stesso così autonoma da guadagnare col tempo significati ulteriori e così profondi da renderla sempre attuale.
martedì 20 settembre 2016
Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 4 René Cardona
Il quarto capitolo del mio libro Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac edizioni) ci porta in Messico, una nazione dalla notevole e variegata produzione cinematografica, articolata su diversi generi, ma nota internazionalmente soprattutto per le sue cose più strane e bizzarre. Se colonne portanti del cinema messicano sono i melodrammi, le commedie e i film musicali, non c’è dubbio che gli horror e i film sui lottatori mascherati sono le pellicole che più hanno colpito il pubblico occidentale. Ebbene René Cardona si è cinemntato in ognuno di questi generi (melodrammi compresi) e in altri ancora, sempre con un’efficienza e uno stile rimarchevoli. Inoltre, era pure un ottimo attore e sotto questa veste ha girato una notevole quantità di film. Insomma, c’è molto da scoprire su di lui, per chi abbia voglia di farlo.
Nel libro cerco di seguire la sua carriera dagli inizi con alcune simpatiche commedie dopo essere espatriato da Cuba sino al consolidarsi della sua carriera, dando conto del suo incontro con alcuni tra gli attori simbolo del cinema messicano, come Antonio Aguilar e Pedro Infante e dei suoi bizzarrissimi film per ragazzi, come il suo Santa Claus (che va visto per credere davvero che sia stato fatto) o Joselito in America.
Ma, certo, i film per i quali Cardona è maggiormente ricordato sono quelli con le lottatrici mascherate e quelli con Santo, el enmascarado de plata, l’eroe un po’ panzuto, ma sommamente atletico, che ha dominato per decenni il cinema fantastico messicano in decine di film scatenati nei quali interpretava sostanzialmente se stesso, un wrestler che non si toglieva mai la maschera, ma proprio mai. Cardona li ha sempre diretti con pacata parsimonia di enfasi, dando rigore e anche eleganza, se si vuole, a un contesto del tutto sopra le righe. I titoli sono molti - tra i migliori Operacion 67 con i suoi discreti tocchi di erotismo e Santo e il tesoro di Dracula, accompagnato dalla sua versione erotica - e sono tutti degni di riscoperta e di analisi perché sono un viaggio nell’insolito e nell’incredibile.
Ancora più interessanti sono i film sulle lottatrici mascherate: il ciclo è più breve, ma contiene delle vere gemme e comprende anche, a latere, lo psychotronico per eccellenza, Korang la terrificante bestia umana, vero e proprio capolavoro dell’assurdo e dello sleaze. Quando l’ho visto la prima volta, in un piccolo cinema della mia città qualcosa come oltre 40 anni fa, non ci volevo credere: raccontato con la massima serietà, ma assolutamente insensato, è un film scoppiettante e nello stesso tempo così pieno di luoghi comuni da esserne in sostanza privo.
Non è che tutti i film di Cardona siano dei capolavori, è più probabile che nessuno lo sia, ma se si vuole vedere qualcosa di diverso, non si può trasacurare la sua opera, tutt’altro che tirata via. Se non altro, penso che questo capitolo del libro possa essere un’utile guida alla sua riscoperta, con la consapevolezza che non sono film che possono piacere a tutti (se mai ce ne sono).
Qui sopra un impagabile Santo in giacca e cravatta da Operacion 67.
lunedì 19 settembre 2016
Topostorie - Il ciclone
A volte ritornano, si dice. Nel caso delle mie storie disneyane direi che è più corretto dire che molto spesso ritornano. La questione è complessa, ma la ignoreremo. Come ha scritto Bob Dylan (in Mississippi): “You can always come back, but you can’t come back all the way”.
Anyway, nella pubblicazione Topostorie, il n. 28 è dedicato a Paperoga, è intitolato, appropriatamente, Il ciclone e contiene quattro mie storie di varie epoche. Topostorie è interessante perché, come i vecchi Classici di Walt Disney, non si limita a raccogliere storie vecchie e meno vecchie, ma le unisce con una storia cornice che le lega insieme. Ancora più interessante è il fatto che l’autore della sceneggiatura della storia cornice, nonché curatore della collana, è Massimo Marconi, principe degli editor disneyani e redattore che ricordo con molta stima e affetto con riferimento ai lunghi anni in cui ho avuto modo di collaborare con lui.
La storia cornice, in questo caso, è particolarmente riuscita e aggiunge spesso qualcosa anche alle storie, non solo collegandole adeguatamente, ma anche sviluppandone alcuni aspetti. Non è facile e bisogna dare atto a Massimo Marconi d’aver fatto un ottimo lavoro.
Come ho già scritto altre volte su questo blog, non mi occupo di segnalare tutte le ristampe delle mie storie disneyane perché tutto sommato sono ancora più rivolto al presente e al futuro che al passato, ma quando succede che siano raggruppate in modo consistente faccio delle eccezioni: come scriveva, più o meno, Lee Falk, ci sono delle volte in cui l'Ombra che Cammina percorre le strade della città come i comuni mortali e questa è una di quelle volte.
Paperino e la corsa degli audaci l’ho scritta nel 1992 ed è stata pubblicata nel 1993. L’ha disegnata il compianto Giuseppe Dalla Santa e la ricordo in particolare perché è stata la prima delle mie storie disneyane disegnate da lui, dopo che aveva disegnato una mia storia nel 1976 per tutt’altra pubblicazione. Voleva essere una storia corale e in effetti lo è. Rileggendola, non mi sembra male: quello era un periodo di ricerca, per me, di evoluzione dopo un periodo piuttosto difficile. Le due storie successive che ho scritto sono state Zio Paperone e il sogno interrotto (disegnata da Alessandor Gottardo) e Zio Paperone e l’uomo dei paperi (Giorgio Cavazzano), due storie che rendono l’idea del tipo di cambiamento che cercavo.
Paperino & Paperoga e il deposito come nuovo l’ho scritta invece nel 1994 ed è stata pubblicata nel 1996. Sono stato contento che a disegnarla sia stato Enrico Faccini, un autore completo e tra i migliori. In questo caso, il periodo era invece ottimo, per me, e la storia voleva essere lo sviluppo catastrofico di una monocoltura concettuale. Ne sono soddisfatto, rappresenta bene un momento di bulimia creativa in cui anche le cose minori, come questa, hanno un loro rilievo.
Paperoga e la giornata troppo perfetta l’ho scritta nel 1999 ed è stata pubblicata nel 2000. In un periodo di ripensamento, l’idea era quella di giocare con il personaggio e con la percezione che lui ha di se stesso, oltre alla percezione che di lui hanno gli altri. Con tutto ciò che ne consegue, anche relativamente alla volontà di trovare qualcosa di relativamente nuovo. I disegni sono di Claudio Panarese.
Paperoga abracadabra l’ho scritta nel 2001 ed è stata pubblicata nello stesso anno. Anche in questo caso il tentativo era di giocare sulla relazione tra i paperi e sul loro desiderio, forse buonista ma sincero, di supportare Paperoga per non ferirne i sentimenti: un approccio, quindi, un po’ diverso dal solito. Alcune idee, rileggendole anche adesso, mi piacciono ancora molto. I disegni sono di Lara Molinari.
Interessante è anche il fatto che, forse casualmente, le storie sono comunque ordinate in senso cronologico. Forse vuol dire qualcosa, ma non so bene cosa.
Qui sopra una pagina della storia disegnata da Faccini.
Lo so che si tratta del numero di agosto e che nel frattempo ne è uscito un altro, ma non è che la tempestività sia sempre una delle mie priorità.
mercoledì 31 agosto 2016
La Banda sul Messaggero dei Ragazzi n. 1004!
Nel nuovo numero del Messaggero dei Ragazzi, il n. 1004 (settembre 2016) attualmente in distribuzione, c'è una nuova avventura della Banda, il gruppo di ragazzini che da qualche tempo imperversa sulle pagine della rivista. La nuova storia - come sempre, per fortuna, scritta da me - si intitola Il bambino scomparso e, in modo molto diretto, proprio di questo tratta: un bambino è scappato di casa e tutti lo cercano preoccupati, anche i ragazzi della Banda, che, lasciati da parte dagli adulti che non credono in una loro possibilità d'essere utili, vogliono risolvere il caso anche per dimostrare agli adulti che si sbagliano.
Come ho già scritto in questo blog, il creatore grafico della serie è il grande Luca Salvagno, che ha impostato graficamente i personaggi e ha disegnato, per il momento, i primi tre episodi. Il quarto episodio è stato disegnato da Francesco Frosi e stavolta è invece di turno la giovanissima Giorgia Catelan che si disimpegna con disinvoltura e bravura. Giorgia - è il caso di segnalarlo - è anche un'ottima colorista e, sotto questa veste, aveva già collaborato con me per i due fumetti disegnati, ottimamente, da Davide Perconti e pubblicati proprio sul Messaggero dei Ragazzi l'anno scorso (Un goal in più e Billy il bugiardo). Qui sopra alcune vignette da cui si può capire la qualità del lavoro di Giorgia.
Come ho già scritto in questo blog, il creatore grafico della serie è il grande Luca Salvagno, che ha impostato graficamente i personaggi e ha disegnato, per il momento, i primi tre episodi. Il quarto episodio è stato disegnato da Francesco Frosi e stavolta è invece di turno la giovanissima Giorgia Catelan che si disimpegna con disinvoltura e bravura. Giorgia - è il caso di segnalarlo - è anche un'ottima colorista e, sotto questa veste, aveva già collaborato con me per i due fumetti disegnati, ottimamente, da Davide Perconti e pubblicati proprio sul Messaggero dei Ragazzi l'anno scorso (Un goal in più e Billy il bugiardo). Qui sopra alcune vignette da cui si può capire la qualità del lavoro di Giorgia.
domenica 21 agosto 2016
il cinema dell'eccesso su FilmTV
Sul numero 33 di FilmTV, quello attualmente in edicola, compare una breve recensione - a cura della redazione, che ringrazio per l'attenzione - del mio Il cinema dell'eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac Edizioni). Inutile dire che mi fa molto piacere questa segnalazione, anche perché FilmTV si segnala da anni come una rivista insostituibile per gli appassionati di cinema, non solo in TV.
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giovedì 18 agosto 2016
The Witch
Il cinema horror, come ho già detto altre volte (e non lo dico solo io), non solo è un genere di ampia latitudine che comprende cose diversissime, ma è anche un genere che mostra sempre un'ammirevole capacità di generare prodotti interessanti, anche quando sembra attraversare periodi di stanca. Oggi esce in sala The Witch di Robert Eggers, un horror psicologico e d'atmosfera che riprende tematiche già viste (streghe, caccia alle streghe, oscurantismo bigotto nel XVII secolo), ma lo fa con notevole serietà di intenti (bastasse però essere seri saremmo capaci quasi tutti) e soprattutto con grande capacità, narrativa e visuale. Senza voler qui fare un Bignami della mia recensione, vi invito ad andare su MYmovies a leggerla: basta fare un clic qui. Per conto mio, posso aggiungere che di certo aspetto con interesse le prossime prove di Eggers.
Qui sopra un'immagine di Anya Taylor-Joy, indiscussa protagonista della vicenda, oltre all'immagine iconica principale del film.
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martedì 2 agosto 2016
Paradise Beach - Dentro l'incubo
Gli squalo-movies sono sempre con noi: sui nostri schermi, ne è infatti in arrivo un altro. Si intitola Paradise Beach - Dentro l’incubo e mette di fronte una donna intraprendente e un gigantesco squalo bianco intransigente (e famelico). Il regista è Jaume Collet-Serra che in ambito horror ci ha già dato La maschera di cera (interessante, ma non senza difetti) e soprattutto il notevole Orphan.
Se vi interessa leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un immagine dal film, con la protagonista Blake Lively in evidenza.
Se vi interessa leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un immagine dal film, con la protagonista Blake Lively in evidenza.
sabato 30 luglio 2016
Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 3 i Findlay
Proseguo nella presentazione del contenuto del mio ultimo libro, Il cinema dell’eccesso vol. 2 - Stati Uniti e Resto del mondo (Crac edizioni) arrivando al terzo capitolo, dedicato a una strana coppia dell’exploitation, formata dai coniugi Findlay, Michael e Roberta. Difficile trovare qualcosa di più strano. Negli anni in cui hanno formato un sodalizio, lui fungeva da regista e spesso da attore protagonista, mentre lei, ben più giovane, era la sua musa, interpretava spesso parti di contorno e talvolta co-firmava la regia. Siamo all’interno dell’exploitation più selvaggia, nell’ambito dei cosiddetti roughies, quel genere di film succeduti ai nudies puri e semplici, nel quale anche Doris Wishman, di cui ho parlato nel capitolo 2, si era cimentata. Come la Wishman, ma forse anche di più, Michael Findlay era un regista del tutto anomalo, particolare. Sicuramente non un regista per il quale era fondamentale girare in modo elegante, ma altrettanto sicuramente un regista capace di sorprendere per la bizzarria delle sue opere (in uno dei suoi primi film c’è persino Yoko Ono come attrice!). Talvolta grezzo, tirato via, ma spesso ricco di un fascino morboso, il suo cinema passa da nefandezze paradossali (come i suoi film “vendicativi” e misogini appartenenti alla cosiddetta Trilogia della carne) a curiosissime riflessioni erotico-bucolico-filosofiche come Mnasidika. La sua carriera, dalle prospettive diventate sempre più asfittiche col passare del tempo, ha seguito la consueta parabola dei registi di exploitation di quegli anni, caduta nel porno compresa, ma è stata segnata alla fine da un destino decisamente avverso: prima la strana vicenda del film Snuff (“read all about it”, come dicevano gli strilloni una volta, nel libro) e poi l’improvvisa morte in un incidente d’elicottero dai contorni incredibili.
Roberta, dalla quale Michael era già separato all’epoca della morte, ha proseguito la sua carriera da sola dimostrando un maggiore pragmatismo e probabilmente una minore originalità d’autrice. Insediatasi comodamente nella scena porno, come regista, ne ha fatto parte per parecchio tempo senza particolari problemi o ripensamenti, riposizionandosi poi nel cinema “normale” con diversi piccoli horror di qualità altalenante, ma senza che anche nei momenti buoni l’altalena si elevasse più di tanto. Poi, a un certo punto, si è fermata senza rimpianti: la scena in cui operava semplicemente non esisteva più e lei, resasene conto, si è fatta da parte. In sostanza, un’altra vicenda umana e autoriale da approfondire possibilmente attraverso la lettura del libro.
Qui sopra un'immagine da L'oracolo di Roberta Findlay.
Roberta, dalla quale Michael era già separato all’epoca della morte, ha proseguito la sua carriera da sola dimostrando un maggiore pragmatismo e probabilmente una minore originalità d’autrice. Insediatasi comodamente nella scena porno, come regista, ne ha fatto parte per parecchio tempo senza particolari problemi o ripensamenti, riposizionandosi poi nel cinema “normale” con diversi piccoli horror di qualità altalenante, ma senza che anche nei momenti buoni l’altalena si elevasse più di tanto. Poi, a un certo punto, si è fermata senza rimpianti: la scena in cui operava semplicemente non esisteva più e lei, resasene conto, si è fatta da parte. In sostanza, un’altra vicenda umana e autoriale da approfondire possibilmente attraverso la lettura del libro.
Qui sopra un'immagine da L'oracolo di Roberta Findlay.
La Banda sul Messaggero dei Ragazzi n. 1003!
Mi è sempre piaciuto il calcio, devo ammetterlo. Giocarlo e guardarlo giocare. Non mi piace definirmi tifoso (perché sembra riferirsi a uno affetto da una malattia), ma appassionato di certo sì. La cosa non poteva che ripercuotersi anche sulla mia attività di sceneggiatore e in effetti le mie storie che hanno a che fare col calcio sono parecchie, in tutti gli ambiti. Per Topolino ne ho fatte molte, occupandomi di vari aspetti del mondo del calcio: assieme a quelle magari più note anche perché spesso ristampate (come Paperino e Paperoga allenatori super allenati), ce ne sono altre che ricordo solo io e neanche sempre (tipo Paperino procuratore sopraffino, che peraltro mi piacque molto scrivere). Anche per Il Giornalino ne ho scritte diverse, compresa una con Rosco e Sonny. Per il Messaggero dei Ragazzi nel secolo scorso scrissi Quelli della sud, disegnata da mio fratello Gianni e in epoche molto più recenti, nel 2015, Un goal in più disegnato da Davide Perconti.
Tutta questa premessa per dire che l'ho fatto ancora. Nel n. 1003 (agosto 2016) del Messaggero dei ragazzi, attualmente in distribuzione, c'è una mia storia che è ambientata nel mondo del calcio giovanile. Il titolo è Il nuovo mister e appartiene alla serie della Banda, di cui ho già parlato in questo blog. Questa volta i disegni, dopo le ottime prove del creatore grafico della serie Luca Salvagno, sono del bravo Francesco Frosi che riesce a rendere in modo coinvolgente situazioni e ambienti calcistici. Questo è il quarto episodio di questa serie e altri ne seguiranno a breve e anche a medio termine. Sono molto soddisfatto dei risultati: creare una serie non è mai facile, ma in questo caso la qualità dei collaboratori e il supporto redazionale e direzionale sono stati tali da facilitare di molto la riuscita e quindi speriamo bene (perché l'importante è poi che il tutto piaccia ai lettori, veri e unici giudici).
Tutta questa premessa per dire che l'ho fatto ancora. Nel n. 1003 (agosto 2016) del Messaggero dei ragazzi, attualmente in distribuzione, c'è una mia storia che è ambientata nel mondo del calcio giovanile. Il titolo è Il nuovo mister e appartiene alla serie della Banda, di cui ho già parlato in questo blog. Questa volta i disegni, dopo le ottime prove del creatore grafico della serie Luca Salvagno, sono del bravo Francesco Frosi che riesce a rendere in modo coinvolgente situazioni e ambienti calcistici. Questo è il quarto episodio di questa serie e altri ne seguiranno a breve e anche a medio termine. Sono molto soddisfatto dei risultati: creare una serie non è mai facile, ma in questo caso la qualità dei collaboratori e il supporto redazionale e direzionale sono stati tali da facilitare di molto la riuscita e quindi speriamo bene (perché l'importante è poi che il tutto piaccia ai lettori, veri e unici giudici).
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lunedì 25 luglio 2016
La notte del giudizio - Election Year
Giovedì esce in sala il terzo film della serie iniziata con La notte del giudizio e proseguita con Anarchia - La notte del giudizio. Anche questa volta il regista è James DeMonaco e il titolo è La notte del giudizio - Election Year perché nel film, come del resto anche nella realtà, è l'anno delle elezioni presidenziali. Ogni riferimento alla politica attuale è chiaramente non casuale. E del resto i film distopici hanno spesso l'ambizione di commentare la realtà dandone una descrizione solo in apparenza deformata.
Chi è interessato a sapere cosa ne penso può cliccare qui e fiondarsi sul sito di MYmovies e leggere la mia recensione del film.
Qui sopra un'immagine di Frank Grillo, che ritorna nei panni di Leo Barnes, che nel secondo film della serie era l'assoluto protagonista: qui la prende un po' meno sul personale, ma si dà molto da fare lo stesso.
lunedì 18 luglio 2016
La Banda sul Messaggero dei Ragazzi n. 1002
Anche nel numero 1002 (luglio 2016) del Messaggero dei Ragazzi c'è un episodio della serie La Banda (il fumetto che sto scrivendo in questo periodo). L'episodio si intitola La doppia processione e mette in scena in modo spero divertente un classico esempio in cui qualcosa che dovrebbe unire invece divide, con la conseguente necessità di porvi rimedio in qualche modo.
I disegni sono di Luca Salvagno, il creatore grafico della serie. Autore che non ha bisogno di presentazioni, per poliedricità e bravura ha pochi rivali: una sua caratteristica che ho potuto apprezzare in questa serie è la capacità di rendere al meglio e con grande leggibilità anche scene gremite e oggettivamente complicate. Comprimere in otto pagine un'avventura comporta talvolta una compattezza narrativa che può creare qualche problema al disegnatore, ma Luca se l'è sempre cavata alla grande e i racconti si sono sempre mantenuti ariosi e socrrevoli. Let's keep on keepin' on. La serie prosegue.
lunedì 11 luglio 2016
I Hated, Hated, Hated This Movie di Roger Ebert
Quando ho cominciato a scrivere recensioni cinematografiche avevo il gusto della stroncatura. Mi piaceva avere la possibilità di usare ironia e sarcasmo nei confronti di chi aveva realizzato dei film che mi sembravano brutti. È una cosa normale: le stroncature sono più facili delle recensioni elogiative e consentono di solito al recensore di diventare egli stesso il protagonista della propria recensione attraverso un articolato sfoggio di quel senso di superiorità che spesso pervade chi deve (o vuole) giudicare. Col tempo il mio punto di vista è molto cambiato. Forse l’essere anche un (modesto) creatore di storie - in qualche modo un autore - mi ha permesso di comprendere le difficoltà della creazione e mi ha reso meno facile la stroncatura divertita, quella che si fa beffe di chi comunque ha creato qualcosa. Adesso, se mi capita - e per l’onestà che devo a chi legge le mie recensioni, mi capita - di giudicare negativamente un film, lo faccio cercando in modo costruttivo di spiegare perché non mi è piaciuto e di non limitarmi ad apodittiche prese in giro della presunta incapacità altrui. Le recensioni che ogni tanto scrivo per questo blog, per esempio, generalmente sono positive perché, potendo scegliere, scrivo di ciò che mi è piaciuto. Quelle che scrivo per MYmovies o sui miei libri (il Dizionario dei film horror, per esempio), invece, per loro natura possono anche essere negative, ma, pur indulgendo talvolta in un po’ di ironia spero che non possano mai essere definite “cattive”.
Questa lunga premessa, serve per chiarire come mi pongo di fronte all’arte della stroncatura e come mi pongo di fronte all’autore dell’opera che recensisco, con rispetto per il suo sforzo. Ma l’arte della stroncatura ha molti sostenitori, non senza i loro perché. Tra questi possono esserci i critici cinematografici che potrei definire come "protagonisti" della loro recensione. Quei critici così importanti da essere diventati a loro volta dei personaggi, in grado di orientare i gusti dei loro lettori. Quei critici per i quali la loro recensione è già in se stessa un’opera d’arte, più importante forse di ciò che recensiscono. Roger Ebert (scomparso nel 2013) era sicuramente uno dei critici più importanti e caustici. Curiosamente, ha avuto anche una breve avventura come sceneggiatore per Russ Meyer e già questo solo fatto può far capire che non aveva certo la puzza sotto il naso e sapeva apprezzare l’exploitation e il cinema di serie B quando capitava.
Il titolo del libro in questione, I Hated, Hated, Hated This Movie (Andrews McMeel Publishing, e-book 2013), fa già capire l’atteggiamento: si tratta di una raccolta di recensioni di Ebert scritte durante gli anni: tutte, esclusivamente, stroncature. Leggerle una di seguito all’altra produce un effetto è curioso, perché, pur tra una certa costanza nell'irrisione, si coglie la varietà strutturale e ricercata dell’impianto stroncatorio dove a volte del film si accenna appena tanto poco lo si è valutato e dove altre volte Ebert usa compiacersi di forbite circonvoluzioni per mettere alla berlina gli autori dei film in questione. Su tutto, un notevole sfoggio di ironia che rende la lettura piacevole anche se non sempre si conoscono i film.
La scelta di pubblicare un libro tutto di stroncature è curiosa, ma il risultato ha la sua brillantezza: non ha più importanza di che film si tratti, ma l’esercizio di una brillante cattiveria in sé. I film sono di vario genere e di varie epoche: si va da film molto noti a pellicole di così basso livello produttivo da chiedersi come mai siano finite nelle rotte critiche di Ebert. È recensito persino, per dirne uno, TNT Jackson, curioso (e fiacco) esempio di blaxploitation rinforzata (o indebolita, piuttosto, visto come sono eseguite) dalle arti marziali. Non mancano anche le stroncature che non ti aspetti, come per esempio L’inquilino del terzo piano di Polanski che io, invece, per dirne uno, ho sempre molto apprezzato. Mi è anche dispiaciuto un po’ leggere la sprezzante stroncatura di The Switchblade Sisters anche perché si riverberava su tutta la carriera di Jack Hill, di cui Ebert salva solo i film con Pam Grier (e solo perché c’era Pam Grier). Il libro è comunque pieno di scoperte e chiunque, credo, può trovare qualcuno dei suoi favoriti tra gli sfavoriti di Ebert. Non è questo l’importante: l’importante è che il libro è divertente da leggere e per quanto io mi ponga riguardo alle stroncature nel modo che ho sopra descritto e non sempre sia d’accordo comunque con i giudizi di Ebert, mi sono decisamente divertito a leggerlo.
Il libro è in inglese e l’ho letto in e-book.
Questa lunga premessa, serve per chiarire come mi pongo di fronte all’arte della stroncatura e come mi pongo di fronte all’autore dell’opera che recensisco, con rispetto per il suo sforzo. Ma l’arte della stroncatura ha molti sostenitori, non senza i loro perché. Tra questi possono esserci i critici cinematografici che potrei definire come "protagonisti" della loro recensione. Quei critici così importanti da essere diventati a loro volta dei personaggi, in grado di orientare i gusti dei loro lettori. Quei critici per i quali la loro recensione è già in se stessa un’opera d’arte, più importante forse di ciò che recensiscono. Roger Ebert (scomparso nel 2013) era sicuramente uno dei critici più importanti e caustici. Curiosamente, ha avuto anche una breve avventura come sceneggiatore per Russ Meyer e già questo solo fatto può far capire che non aveva certo la puzza sotto il naso e sapeva apprezzare l’exploitation e il cinema di serie B quando capitava.
Il titolo del libro in questione, I Hated, Hated, Hated This Movie (Andrews McMeel Publishing, e-book 2013), fa già capire l’atteggiamento: si tratta di una raccolta di recensioni di Ebert scritte durante gli anni: tutte, esclusivamente, stroncature. Leggerle una di seguito all’altra produce un effetto è curioso, perché, pur tra una certa costanza nell'irrisione, si coglie la varietà strutturale e ricercata dell’impianto stroncatorio dove a volte del film si accenna appena tanto poco lo si è valutato e dove altre volte Ebert usa compiacersi di forbite circonvoluzioni per mettere alla berlina gli autori dei film in questione. Su tutto, un notevole sfoggio di ironia che rende la lettura piacevole anche se non sempre si conoscono i film.
La scelta di pubblicare un libro tutto di stroncature è curiosa, ma il risultato ha la sua brillantezza: non ha più importanza di che film si tratti, ma l’esercizio di una brillante cattiveria in sé. I film sono di vario genere e di varie epoche: si va da film molto noti a pellicole di così basso livello produttivo da chiedersi come mai siano finite nelle rotte critiche di Ebert. È recensito persino, per dirne uno, TNT Jackson, curioso (e fiacco) esempio di blaxploitation rinforzata (o indebolita, piuttosto, visto come sono eseguite) dalle arti marziali. Non mancano anche le stroncature che non ti aspetti, come per esempio L’inquilino del terzo piano di Polanski che io, invece, per dirne uno, ho sempre molto apprezzato. Mi è anche dispiaciuto un po’ leggere la sprezzante stroncatura di The Switchblade Sisters anche perché si riverberava su tutta la carriera di Jack Hill, di cui Ebert salva solo i film con Pam Grier (e solo perché c’era Pam Grier). Il libro è comunque pieno di scoperte e chiunque, credo, può trovare qualcuno dei suoi favoriti tra gli sfavoriti di Ebert. Non è questo l’importante: l’importante è che il libro è divertente da leggere e per quanto io mi ponga riguardo alle stroncature nel modo che ho sopra descritto e non sempre sia d’accordo comunque con i giudizi di Ebert, mi sono decisamente divertito a leggerlo.
Il libro è in inglese e l’ho letto in e-book.
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mercoledì 6 luglio 2016
Il cinema dell'eccesso vol. 2: recensione di Mario Calderale su Segnocinema
Segnalo che sul numero 200 (nientemeno) di Segnocinema, attualmente in distribuzione, c'è una breve recensione del mio Il cinema dell'eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo, scritta da Mario Calderale, che ringrazio per l'attenzione.
Con l'occasione segnalo anche che la rivista è, come sempre, un must per gli appassionati di cinema: lo speciale di questo numero si intitola Cinema arte aperta - Le quattro vite dell'immagine in movimento (come ogni titolo suggestivamente criptico necessita una lettura del contenuto cui si riferisce per coglierne il significato e non se ne resterà delusi).
martedì 5 luglio 2016
La Banda sul Messaggero dei Ragazzi n. 1001
Sul numero 1001 del Messaggero dei Ragazzi compare non Turiddu, ma la seconda storia della Banda, la nuova serie a fumetti di cui sono lo sceneggiatore. L'episodio si intitola Il vicino e vede i ragazzi protagonisti della serie alle prese con un vecchietto assai poco amichevole. La storia è disegnata alla grande da Luca Salvagno, autore anche della copertina della rivista, dedicata appunto alla Banda (composta da un variegato gruppo di ragazzini e ragazzine pieni di voglia di fare e di divertirsi).
Inutile dire che si tratta di una serie che mi sta dando notevoli soddisfazioni e che mi auguro possa incontrare i favori dei lettori e durare un bel po'.
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domenica 3 luglio 2016
Il cinema dell'eccesso vol. 2: cosa c'è dentro. Cap. 2 Doris Wishman
Proseguo la presentazione analitica del contenuto del mio libro Il cinema dell'eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac Edizioni) trattando del secondo capitolo dedicato a Doris Wishman.
Doris Wishman ha rappresentato di certo un’anomalia curiosa nel mondo dell’exploitation ed è raro trovare un autore (o un’autrice) così unica e refrattaria al rispetto delle regole del gioco, persino dal punto di vista della sintassi cinematografica. Guardare i suoi film è un’esperienza, non necessariamente sempre piacevole, ma un’esperienza che in qualche modo arricchisce lo spettatore perché lo conduce in una dimensione che non sarà la quinta evocata da Rod Serling, ma è comunque una dimensione aliena. Chi si lascia impressionare negativamente dalla sciatteria, che pure traspare e talvolta infastidisce, si potrebbe perdere l’essenza bizzarra e insolita del cinema di Doris Wishman. Perciò vale la pena aver presente che non si tratta di una regista normale e i suoi film sono tutt’altro che normali e necessitano di una particolare disposizione d’animo e di una grande disponibilità mentale per essere apprezzati (non tutti e non sempre, comunque) per quel che possono dare.
Detto questo, nel capitolo a lei dedicato ho cercato di tracciare la sua tutt’altro che lineare parabola autoriale che l’ha vista improvvisarsi regista con un gruppo di nudies che adesso ci sembrano innocui (ragazze naturiste che giocano a palla o fanno il bagno in piscina sono il massimo della concessione pruriginosa), ma che all’epoca della loro uscita erano assai trasgressivi, per poi passare, inseguendo il mutamento dei costumi, l’allentarsi della censura e le richieste sempre più esigenti degli spettatori, ai cosiddetti roughies e cioè film in cui il sesso, prima innocuo nei nudies, veniva speziato con robuste dosi di violenza e perversione. Qui la Wishman ha dato il meglio con film “cattivi” di cui l’esempio più noto e paradigmatico è Bad Girls Go To Hell, gioiellino in bianco e nero che resta il piccolo capolavoro della regista.
Ma il pubblico dell’exploitation non si accontentava mai e la Wishman, come gli altri registi che lavoravano nel suo campo, era costretta ad anticiparne le esigenze spingendosi sempre più in là nell’eccesso. Dapprima il passaggio al colore, che rivelò l’indescrivibile bruttezza kitsch degli ambienti casalinghi in cui girava e diede una non ricercata anima trash ai suoi film che prima fortunatamente non avevano grazie all’eleganza del bianco e nero, poi la ricerca di “effetti speciali” del tutto particolari come l’attrice super tettuta protagonista del dittico di Susy Tettalunga o il tentativo di shockumentary con Let Me Die a Woman.
La rincorsa agli eccessi portò la Wishman, come altri registi di exploitaton, a cavalcare senza entusiasmo l’onda del porno, da cui si ritrasse per tentare un horror le cui sfortunate traversie produttive - puntualmente descritte nel mio libro - la condussero alla povertà e a un lavoro da commessa quando avrebbe avuto l’età della pensione. Ma l’indistruttibile Doris non si lasciò abbattere e come un’araba fenice risorse dalle ceneri della propria carriera, grazie anche al piccolo culto nel frattempo sorto intorno ai suoi film.
Una vicenda umana e autoriale, la sua, che vale la pena conoscere.
Completa il capitolo un’intervista a C. Davis Smith, il suo fedele direttore della fotografia.
lunedì 20 giugno 2016
It Follows
Mercoledì 6 luglio esce in sala It Follows, un film scritto e diretto da David Robert Mitchell. Si tratta di un horror basato su un concetto semplice ed efficace: una strana creatura proteiforme segue la sua vittima designata in modo lento e implacabile. La maledizione è trasmissibile, ma le modalità e i risultati non sono sempre affidabili. Chi vuole leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non deve fare altro che cliccare qui, ma, per una volta, mi sento di anticipare, pur esortando alla lettura della recensione per una motivazione quanto più possibile approfondita (tenuto conto dei limiti di spazio), che il film è assolutamente da non perdere. Come qualunque appassionato di horror sa, il genere è spesso una questione di "hit or miss" e qui il colpo è stato indubbiamente centrato.
Qui sopra la protagonista Maika Monroe in una scena del film.
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lunedì 6 giugno 2016
Il cinema dell'eccesso vol. 2: recensione di Nico Parente su Leggere: tutti
Segnalo con piacere la recensione a Il cinema dell'eccesso vol. 2 scritta da Nico Parente - che colgo l'occasione per ringraziare - su Leggere: tutti n. 104 (giugno 2016). Al di là della recensione, la rivista è, tra l'altro, molto interessante.
lunedì 30 maggio 2016
Il cinema dell’eccesso vol. 2: cosa c’è dentro. Cap. 1 Jack Hill
Così come ho fatto per il primo volume, anche per questo secondo volume (Il cinema dell’eccesso vol. 2: Stati Uniti e resto del mondo, Crac Edizioni), procederò a una presentazioone capitolo per capitolo, per illustrare meglio il contenuto del libro, in modo che chi è interessato all’argomento - o vuole cominciare a interessarsene - può capire se quest’opera fa al caso suo. Come il primo volume anche questo è organizzato per autori, proprio perché l’ottica che ho privilegiato è quella di focalizzare l’analisi sui registi più interessanti per seguirne la parabola autoriale e individuarne preferenze e tematiche.
Il primo capitolo è dedicato al regista americano Jack Hill, sicuramente uno dei migliori a essersi dedicato all’exploitation. Capace di raffinatezze stilistiche non comuni e di raccontare in modo coinvolgente e anticonformista, Hill ha sempre mostrato l’indubbia capacità di dirigere con professionalità e originalità, dando sempre l’idea che sarebbe stato in grado di tenere in pugno in modo perfetto progetti di caratura economica consistente: insomma, per dirla breve, produttivamente di serie A, non solo di genere. Che non ci sia riuscito resta in parte un mistero (l’altra parte è dipesa da lui, come egli stesso ammette, e dalla miopia di chi aveva in mano le redini del gioco). Quello che ha lasciato è comunque un opus di assoluto rilievo. Spider Baby e Switchblade Sisters, da soli, valgono una carriera e c’è molto di più. Chi guarda i suoi film sa che non si annoierà e resterà ammirato dalla sua bravura anche nell’affrontare tematiche poco promettenti (ha fatto anche un film sulle corse automobilistiche! e l'ha fatto bene) o in qualche misura banali.
Ho cercato di raccontare la sua storia attraverso i film che ha fatto e i problemi produttivi che ha talvolta dovuto affrontare sino a quando, un po’ alla volta, la ruota (e la pellicola) ha smesso di girare con un larghissimo anticipo rispetto all’auspicabile. Inutile ricordare ancora una volta che Tarantino è un suo grande ammiratore e che Jackie Brown è il suo chiaro omaggio a Hill: il nome della protahonista deriva dai nomi di Jack Hill e di Foxy Brown, l’eroina di uno dei suoi film più famosi, interpretata dalla stessa Pam Grier che è protagonista anche del film di Tarantino.
In appendice al capitolo un’intervista che Hill mi ha concesso all’epoca dell’articolo che ho scritto per Segnocinema (nella serie Kings of Exploitation) e che costituisce la base, poi riveduta e aggiornata, del capitolo stesso. Mi sarebbe molto piaciuto che, come auspicava fiducioso Hill stesso, fosse stato possibile vedere in questi anni qualche sua nuova opera, ma purtroppo, diversamente a quanto è successo a Doris Wishman (della quale scriverò qualcosa in occasione della presentazione del capitolo a lei dedicato), non è avvenuto.
Se leggerete Il cinema dell’eccesso vol. 2, fatevi trasportare da quanto c’è scritto e convincetevi, se ancora non l’avete fatto, a vedere qualcuno dei film di Hill, a partire magari dai migliori per concludere con il famigerato quartetto di horror che rappresentarono il canto del cigno di Boris Karloff: film piuttosto brutti, ma comunque con un loro perché.
Il primo capitolo è dedicato al regista americano Jack Hill, sicuramente uno dei migliori a essersi dedicato all’exploitation. Capace di raffinatezze stilistiche non comuni e di raccontare in modo coinvolgente e anticonformista, Hill ha sempre mostrato l’indubbia capacità di dirigere con professionalità e originalità, dando sempre l’idea che sarebbe stato in grado di tenere in pugno in modo perfetto progetti di caratura economica consistente: insomma, per dirla breve, produttivamente di serie A, non solo di genere. Che non ci sia riuscito resta in parte un mistero (l’altra parte è dipesa da lui, come egli stesso ammette, e dalla miopia di chi aveva in mano le redini del gioco). Quello che ha lasciato è comunque un opus di assoluto rilievo. Spider Baby e Switchblade Sisters, da soli, valgono una carriera e c’è molto di più. Chi guarda i suoi film sa che non si annoierà e resterà ammirato dalla sua bravura anche nell’affrontare tematiche poco promettenti (ha fatto anche un film sulle corse automobilistiche! e l'ha fatto bene) o in qualche misura banali.
Ho cercato di raccontare la sua storia attraverso i film che ha fatto e i problemi produttivi che ha talvolta dovuto affrontare sino a quando, un po’ alla volta, la ruota (e la pellicola) ha smesso di girare con un larghissimo anticipo rispetto all’auspicabile. Inutile ricordare ancora una volta che Tarantino è un suo grande ammiratore e che Jackie Brown è il suo chiaro omaggio a Hill: il nome della protahonista deriva dai nomi di Jack Hill e di Foxy Brown, l’eroina di uno dei suoi film più famosi, interpretata dalla stessa Pam Grier che è protagonista anche del film di Tarantino.
In appendice al capitolo un’intervista che Hill mi ha concesso all’epoca dell’articolo che ho scritto per Segnocinema (nella serie Kings of Exploitation) e che costituisce la base, poi riveduta e aggiornata, del capitolo stesso. Mi sarebbe molto piaciuto che, come auspicava fiducioso Hill stesso, fosse stato possibile vedere in questi anni qualche sua nuova opera, ma purtroppo, diversamente a quanto è successo a Doris Wishman (della quale scriverò qualcosa in occasione della presentazione del capitolo a lei dedicato), non è avvenuto.
Se leggerete Il cinema dell’eccesso vol. 2, fatevi trasportare da quanto c’è scritto e convincetevi, se ancora non l’avete fatto, a vedere qualcuno dei film di Hill, a partire magari dai migliori per concludere con il famigerato quartetto di horror che rappresentarono il canto del cigno di Boris Karloff: film piuttosto brutti, ma comunque con un loro perché.
martedì 24 maggio 2016
Bob Dylan 75
Anche quest’anno il 24 maggio impone in questo blog un post celebrativo e augurale per il compleanno di Bob Dylan, il settantacinquesimo per l’esattezza, come i più avveduti potranno arguire dal titolo.
Gli anni passano, ma l’attività del nostro non accenna a rallentare e questo è un bene che è facile prendere per scontato, ma in realtà dev’essere motivo di grande soddisfazione perché è ben raro che un artista, raggiunta questa età, continui a concedersi e a essere creativo. Di questi giorni, per la verità, è la notizia del prossimo tour celebrativo di Charles Aznavour alla tenera età di 92 anni, per cui, in effetti, c’è da ben sperare anche per il futuro.
A celebrare il compleanno è anche l’uscita, qualche giorno fa, del nuovo disco di Bob Dylan, la cui copertina è riprodotta qui sopra. Ancora un disco di cover di ascendenza sinatriana e qualche cenno di insofferenza da parte degli appassionati c’è stato, pur eclissato dai peana della critica. In effetti, Shadows in the Night poteva essere sufficiente e Fallen Angels sembra essere un’aggiunta superflua. Dylan, generalmente, non ama ripetersi. Di solito tenta strade anche solo parzialmente diverse. Un parallelo con questo dittico può essere trovato nell’analogo dittico di cover, in quel caso acustiche e da solo, che contrassegnarono le uscite discografiche del 1992 e 1993, vale a dire Good As I Been To You e World Gone Wrong. Anche in quel caso, pur se le cover scelte andavano in una direzione ritenuta più o meno canonica e quindi accettabile da parte degli appassionati dylaniani, si notò la stranezza dell’iterazione, anche se una differenza di “umore” c’era allora e in effetti c’è anche adesso perché Shadows in the Night e Fallen Angels sono umoralmente diversi. Allora il desiderio di tornare alle radici portò notevoli frutti nel prosieguo della carriera di Dylan e quel dittico acustico fu anche cruciale in una sorta di riscoperta della chitarra, tanto è vero che nel periodo successivo Dylan la suonò con maggiore ricercatezza e impegno anche dal vivo. In questo dittico, invece, Dylan sembra essere andato alla riscoperta (e alla “riparazione”) della propria voce, mettendola alla prova e concentrandosi su essa, proprio in relazione con The Voice per eccellenza. La migliore qualità vocale dei suoi live attuali è incontestabile ed è possibile e probabile che ciò sia in conseguenza o comunque in relazione con le sue cover alla Tin Pan Alley: che la migliore qualità vocale abbia reso possibile le cover o che sia stato un fenomeno in parte inverso, poco importa ai fini pratici.
Il tour continua con le scalette più o meno bloccate, ma con una qualità complessiva eccezionale, con alcune canzoni a spiccare in modo notevole. La versione di Things Have Changed che Dylan canta in questi anni è strepitosa, per fare solo un esempio. Quest’anno, al momento, non si hanno notizie di passaggi italiani, ma la speranza c’è sempre.
La Bootleg Series si è arricchita di un altro capitolo, The Cutting Edge, dedicato al biennio d’oro della produzione dylaniana, il 1965/66. Una collezione imperdibile anche se, anche qui, spero sempre in qualcosa che batta strade meno conosciute. Per me i Bootleg Series migliori sono stati il primo e Tell Tale Sign, proprio perché scavavano antologicamente negli archivi trovando perle inaspettate anche per i cultori più esperti (chi aveva mai sentito Angelina prima del 1991? O Red River Shore prima di Tell Tale Sign). Spero che prima o poi, tra l’altro, facciano un cofanetto dedicato ai grandi live trascurati, come quelli del 1981 (periodo eccezionale), o a quella stupenda performance acustica del novembre 1993 (Supper Club, per intenderci). Comunque, vedremo. Per il momento l’importante è che la ruota continui a girare vorticosamente.
Gli anni passano, ma l’attività del nostro non accenna a rallentare e questo è un bene che è facile prendere per scontato, ma in realtà dev’essere motivo di grande soddisfazione perché è ben raro che un artista, raggiunta questa età, continui a concedersi e a essere creativo. Di questi giorni, per la verità, è la notizia del prossimo tour celebrativo di Charles Aznavour alla tenera età di 92 anni, per cui, in effetti, c’è da ben sperare anche per il futuro.
A celebrare il compleanno è anche l’uscita, qualche giorno fa, del nuovo disco di Bob Dylan, la cui copertina è riprodotta qui sopra. Ancora un disco di cover di ascendenza sinatriana e qualche cenno di insofferenza da parte degli appassionati c’è stato, pur eclissato dai peana della critica. In effetti, Shadows in the Night poteva essere sufficiente e Fallen Angels sembra essere un’aggiunta superflua. Dylan, generalmente, non ama ripetersi. Di solito tenta strade anche solo parzialmente diverse. Un parallelo con questo dittico può essere trovato nell’analogo dittico di cover, in quel caso acustiche e da solo, che contrassegnarono le uscite discografiche del 1992 e 1993, vale a dire Good As I Been To You e World Gone Wrong. Anche in quel caso, pur se le cover scelte andavano in una direzione ritenuta più o meno canonica e quindi accettabile da parte degli appassionati dylaniani, si notò la stranezza dell’iterazione, anche se una differenza di “umore” c’era allora e in effetti c’è anche adesso perché Shadows in the Night e Fallen Angels sono umoralmente diversi. Allora il desiderio di tornare alle radici portò notevoli frutti nel prosieguo della carriera di Dylan e quel dittico acustico fu anche cruciale in una sorta di riscoperta della chitarra, tanto è vero che nel periodo successivo Dylan la suonò con maggiore ricercatezza e impegno anche dal vivo. In questo dittico, invece, Dylan sembra essere andato alla riscoperta (e alla “riparazione”) della propria voce, mettendola alla prova e concentrandosi su essa, proprio in relazione con The Voice per eccellenza. La migliore qualità vocale dei suoi live attuali è incontestabile ed è possibile e probabile che ciò sia in conseguenza o comunque in relazione con le sue cover alla Tin Pan Alley: che la migliore qualità vocale abbia reso possibile le cover o che sia stato un fenomeno in parte inverso, poco importa ai fini pratici.
Il tour continua con le scalette più o meno bloccate, ma con una qualità complessiva eccezionale, con alcune canzoni a spiccare in modo notevole. La versione di Things Have Changed che Dylan canta in questi anni è strepitosa, per fare solo un esempio. Quest’anno, al momento, non si hanno notizie di passaggi italiani, ma la speranza c’è sempre.
La Bootleg Series si è arricchita di un altro capitolo, The Cutting Edge, dedicato al biennio d’oro della produzione dylaniana, il 1965/66. Una collezione imperdibile anche se, anche qui, spero sempre in qualcosa che batta strade meno conosciute. Per me i Bootleg Series migliori sono stati il primo e Tell Tale Sign, proprio perché scavavano antologicamente negli archivi trovando perle inaspettate anche per i cultori più esperti (chi aveva mai sentito Angelina prima del 1991? O Red River Shore prima di Tell Tale Sign). Spero che prima o poi, tra l’altro, facciano un cofanetto dedicato ai grandi live trascurati, come quelli del 1981 (periodo eccezionale), o a quella stupenda performance acustica del novembre 1993 (Supper Club, per intenderci). Comunque, vedremo. Per il momento l’importante è che la ruota continui a girare vorticosamente.
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