domenica 3 luglio 2016

Il cinema dell'eccesso vol. 2: cosa c'è dentro. Cap. 2 Doris Wishman


Proseguo la presentazione analitica del contenuto del mio libro Il cinema dell'eccesso vol. 2 - Stati Uniti e resto del mondo (Crac Edizioni) trattando del secondo capitolo dedicato a Doris Wishman.

Doris Wishman ha rappresentato di certo un’anomalia curiosa nel mondo dell’exploitation ed è raro trovare un autore (o un’autrice) così unica e refrattaria al rispetto delle regole del gioco, persino dal punto di vista della sintassi cinematografica. Guardare i suoi film è un’esperienza, non necessariamente sempre piacevole, ma un’esperienza che in qualche modo arricchisce lo spettatore perché lo conduce in una dimensione che non sarà la quinta evocata da Rod Serling, ma è comunque una dimensione aliena. Chi si lascia impressionare negativamente dalla sciatteria, che pure traspare e talvolta infastidisce, si potrebbe perdere l’essenza bizzarra e insolita del cinema di Doris Wishman. Perciò vale la pena aver presente che non si tratta di una regista normale e i suoi film sono tutt’altro che normali e necessitano di una particolare disposizione d’animo e di una grande disponibilità mentale per essere apprezzati (non tutti e non sempre, comunque) per quel che possono dare.

Detto questo, nel capitolo a lei dedicato ho cercato di tracciare la sua tutt’altro che lineare parabola autoriale che l’ha vista improvvisarsi regista con un gruppo di nudies che adesso ci sembrano innocui (ragazze naturiste che giocano a palla o fanno il bagno in piscina sono il massimo della concessione pruriginosa), ma che all’epoca della loro uscita erano assai trasgressivi, per poi passare, inseguendo il mutamento dei costumi, l’allentarsi della censura e le richieste sempre più esigenti degli spettatori, ai cosiddetti roughies e cioè film in cui il sesso, prima innocuo nei nudies, veniva speziato con robuste dosi di violenza e perversione. Qui la Wishman ha dato il meglio con film “cattivi” di cui l’esempio più noto e paradigmatico è Bad Girls Go To Hell, gioiellino in bianco e nero che resta il piccolo capolavoro della regista.







 

Ma il pubblico dell’exploitation non si accontentava mai e la Wishman, come gli altri registi che lavoravano nel suo campo, era costretta ad anticiparne le esigenze spingendosi sempre più in là nell’eccesso. Dapprima il passaggio al colore, che rivelò l’indescrivibile bruttezza kitsch degli ambienti casalinghi in cui girava e diede una non ricercata anima trash ai suoi film che prima fortunatamente non avevano grazie all’eleganza del bianco e nero, poi la ricerca di “effetti speciali” del tutto particolari come l’attrice super tettuta protagonista del dittico di Susy Tettalunga o il tentativo di shockumentary con Let Me Die a Woman.  

La rincorsa agli eccessi portò la Wishman, come altri registi di exploitaton, a cavalcare senza entusiasmo l’onda del porno, da cui si ritrasse per tentare un horror le cui sfortunate traversie produttive - puntualmente descritte nel mio libro - la condussero alla povertà e a un lavoro da commessa quando avrebbe avuto l’età della pensione. Ma l’indistruttibile Doris non si lasciò abbattere e come un’araba fenice risorse dalle ceneri della propria carriera, grazie anche al piccolo culto nel frattempo sorto intorno ai suoi film.
Una vicenda umana e autoriale, la sua, che vale la pena conoscere.


Completa il capitolo un’intervista a C. Davis Smith, il suo fedele direttore della fotografia.

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