Come ogni 24 maggio non può mancare, in questo blog, un post celebrativo per il compleanno di Bob Dylan. Anche l’anno che è appena passato è stato un anno fruttuoso e pieno di cose buone, che lo vede arrivare al suo settantaquattresimo compleanno in piena attività e in pieno forma, reduce da una celebrata apparizione nella penultima puntata del leggendario Late Show with David Letterman.
Ma a parte questo l’anno trascorso ha visto l’uscita di un suo nuovo album, Shadows in the Night, che benché sia solo di cover si è presentato come di particolare interesse a testimonianza di una costante pregnanza del suo lavoro. Di notevole interesse è stata anche l’uscita del nuovo cofanetto della Bootleg Series, dedicato ai Basement Tapes (qui sopra la copertina), i nastri che Dylan registrò con la band nella quiete di Woodstock mentre, nel 1967, si riprendeva dai postumi del famoso incidente motociclistico. Monumentale raccolta di casualità e intenzionalità assortite, è una cornucopia musicale della cui importanza si è appreso nel corso dei decenni, a partire dalle molte cover di successo che di quelle canzoni fecero cantanti e gruppi dell’epoca (su tutti i Manfred Mann con The Mighty Quinn) e passando poi per il doppio album singolarmente poco fedele che uscì nel 1975 e per i vari bootleg succedutisi nel tempo.
Notevole è stata anche la partecipazione di Dylan a quella sorta di pre-Grammy che è stata la celebrazione MusiCares nel corso della quale ha tenuto un incredibile discorso di oltre mezz’ora, lucido ed esagerato al tempo stesso, brillante e per certi versi devastante, capace come sempre di essere fuori da qualunque schema e sorprendente per il modo diretto con cui ha detto alcune cose che nessuno pensava avrebbe mai detto. Una traduzione la trovate nel meritorio sito italiano dedicato a Bob Dylan, Maggie’s Farm.
E poi ci sono stati, come sempre da oltre un quarto di secolo, i concerti. Qualcuno si lamenta per la scaletta spesso bloccata, che ha tolto quell’imprevedibilità che eravamo soliti apprezzare nei concerti di qualche tempo fa. L’altra faccia di questa medaglia è che i concerti sono generalmente ottimi e che la sua voce è migliorata. Io penso che a questo punto, come sempre in fondo, sia bene prendere quello che Dylan, alla sua età, si sente di dare. Che è ancora molto.
Quest’anno torna anche in Italia e chi vuole potrà andare a vederlo. Io, naturalmente, sarò tra quelli che ci andranno.
domenica 24 maggio 2015
venerdì 22 maggio 2015
The Lazarus Effect
Ogni tanto od ogni spesso il cinema horror si interroga sulla problematica, assai più fittizia che reale, se non a livello simbolico-metaforico, del ritorno in vita dei morti. Ieri è uscito nelle sale un nuovo film, The Lazarus Effect, che tratta proprio di questo partendo da un approccio realistico e scientifico.
Il film è diretto da David Gelb ed è interpretato, tra gli altri, da Mark Duplass (ve lo ricordate in Mercy?) e Olivia Wilde (che è qui sopra in una inquadratura dal film). Se volete leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non dovete fare altro che cliccare qui.
Il film è diretto da David Gelb ed è interpretato, tra gli altri, da Mark Duplass (ve lo ricordate in Mercy?) e Olivia Wilde (che è qui sopra in una inquadratura dal film). Se volete leggere la recensione che ho scritto per MYmovies non dovete fare altro che cliccare qui.
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mercoledì 20 maggio 2015
Bob Dylan da David Letterman
Lo show di David Letterman - The Late Show with David Letterman - va in pensione per sempre e lo fa con una serie di ospiti di riguardo. Tra questi, Bob Dylan che ha partecipato ieri sera cantando, con la sua band, The Night We Called It a Day, tratta dal suo recente album Shadows in the Night.
La performance è stata impeccabile, perfetta nei tempi e nel mood. Dylan si è presentato in versione senza cappello e, per quel che possono valere queste notazioni puramente estetiche, senza barba e baffi. Perfettamente a suo agio nei panni del crooner ha esibito una voce in grande forma, come del resto chi è andato ai concerti dell'ultimo paio d'anni ha già avuto modo di verificare (almeno in parte).
La cosa simpatica - che è stata notata da qualche appassionato - è che Letterman lo ha presentato come il più grande songwriter esistente e Dylan ha cantato una canzone non sua. Ma questo fa parte delle stranezze del personaggio e per la verità tanto strano non è dato che, come qualunque artista in Tv (ma non Dylan, di solito), ha cantato una canzone dal suo album più recente.
L'atmosfera soffusa e la resa eccellente anche della band hanno creato un momento del tutto sospeso nel tempo all'interno del programma.
Da ricordare che Dylan è stato altre volte da Letterman, come l'entertainer ha ricordato nella presentazione, richiamando in particolare la prima volta, nel 1984, quando lo show si chiamava ancora Late Night with David Letterman. In quella occasione, Dylan fu strepitoso: accompagnato da un trio punk interpretò in modo geniale tre canzoni tra cui Jokerman, in una versione particolarissima e scatenata.
Chi è interessato può trovare facilmente su YouTube l'interpretazione di ieri sera, ma è da segnalare che tutto lo show verrà trasmesso questa sera, credo alle 23.15 (ma controllate la guida tv online), su Rai 5. Don't dare miss it.
La performance è stata impeccabile, perfetta nei tempi e nel mood. Dylan si è presentato in versione senza cappello e, per quel che possono valere queste notazioni puramente estetiche, senza barba e baffi. Perfettamente a suo agio nei panni del crooner ha esibito una voce in grande forma, come del resto chi è andato ai concerti dell'ultimo paio d'anni ha già avuto modo di verificare (almeno in parte).
La cosa simpatica - che è stata notata da qualche appassionato - è che Letterman lo ha presentato come il più grande songwriter esistente e Dylan ha cantato una canzone non sua. Ma questo fa parte delle stranezze del personaggio e per la verità tanto strano non è dato che, come qualunque artista in Tv (ma non Dylan, di solito), ha cantato una canzone dal suo album più recente.
L'atmosfera soffusa e la resa eccellente anche della band hanno creato un momento del tutto sospeso nel tempo all'interno del programma.
Da ricordare che Dylan è stato altre volte da Letterman, come l'entertainer ha ricordato nella presentazione, richiamando in particolare la prima volta, nel 1984, quando lo show si chiamava ancora Late Night with David Letterman. In quella occasione, Dylan fu strepitoso: accompagnato da un trio punk interpretò in modo geniale tre canzoni tra cui Jokerman, in una versione particolarissima e scatenata.
Chi è interessato può trovare facilmente su YouTube l'interpretazione di ieri sera, ma è da segnalare che tutto lo show verrà trasmesso questa sera, credo alle 23.15 (ma controllate la guida tv online), su Rai 5. Don't dare miss it.
sabato 16 maggio 2015
La foresta dei dannati
Ultimamente mi capita di rivisitare alcuni horror del passato recente o relativamente più lontano per MYmovies. Tra i film che ho rivisitato, posso ricordare Santa Sangre di Jodorowsky o The Living and the Dead, ma sono stati un discreto numero. Oggi è stato il caso di La foresta dei dannati, un piccolo horror inglese del 2005 diretto da Johannes Roberts, regista piuttosto attivo nel campo e già segnalatosi, in qualche modo, per film come Darkhunters o Sanitarium. Tra gli interpreti c'è anche il leggendario Tom Savini, già creatore degli effetti speciali per svariati horror di Romero e non solo (da Zombi a Maniac): spesso gli piace recitare e lo sa fare anche bene (del resto, reggeva ottimamente uno dei ruoli principali nel sottovalutato classico di Romero, Knightriders).
Chi vuole leggere la mia nuova recensione del film non ha che da andare qui, direttamente sul sito di MYmovies. Tra l'altro, corre luogo ricordare, il film è disponibile in streaming su MYmovies, come è evidenziato al link che vi ho segnalato.
Chi vuole leggere la mia nuova recensione del film non ha che da andare qui, direttamente sul sito di MYmovies. Tra l'altro, corre luogo ricordare, il film è disponibile in streaming su MYmovies, come è evidenziato al link che vi ho segnalato.
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lunedì 11 maggio 2015
Kurt Vonnegut e il cinema su Segnocinema 193
Ci sono delle volte in cui mi sembra che fare una certa cosa tocchi a me a causa delle mie competenze e preferenze. Come quando, per esempio, ho scritto Il cinema di Bob Dylan. Essendo un ammiratore di Bob Dylan sin dai primi anni '70 e occupandomi da molto tempo di cinema, il compito di, come dicono gli inglesi, set the record straight sul suo opus cinematografico e televisivo, sempre secondo il mio pensiero naturalmente, non poteva che spettare a me. O anche a me, non rivendico esclusive, ma non potevo esimermi. Era un compito naturale.
Su scala ridotta, quella di un articolo invece di un libro, lo stesso è capitato con Kurt Vonnegut. Credo di aver letto, talvolta anche più volte, tutto quello che Vonnegut ha scritto. Perciò toccava per forza a me scrivere del suo rapporto con il cinema. E l'ho fatto. L'articolo che ho scritto - si intitola Kurt Vonnegut e il cinema - Convergenze (im)possibili - lo trovate, se volete, sul numero 193 di Segnocinema (maggio-giugno 2015) attualmente in distribuzione.
Lo spunto di partenza mi è venuto dalla lettura del fondamentale volume Letters, di cui ho scritto qui. Attraverso quanto scritto da Vonnegut nelle sue lettere e, soprattutto, attraverso la visione dei film in cui è stato coinvolto, da quelli noti (Mattatoio 5) a quelli meno noti (Between Time and Timbuktu) mi è stato possibile tracciare il percorso accidentato della fascinazione reciproca tra Vonnegut e il cinema, una fascinazione dai risultati assai vari e spesso poco entusiasmanti, ma comunque molto interessante, almeno per me.
Forse, leggendo l'articolo a qualcuno verrà voglia di vedere qualcuno dei film di cui ho scritto (chissà, magari anche il simpatico Who Am I This Time? di Jonathan Demme), ma spero che qualcuno sia anche stimolato a prendere o riprendere in mano quello che Vonnegut ha scritto.
Su scala ridotta, quella di un articolo invece di un libro, lo stesso è capitato con Kurt Vonnegut. Credo di aver letto, talvolta anche più volte, tutto quello che Vonnegut ha scritto. Perciò toccava per forza a me scrivere del suo rapporto con il cinema. E l'ho fatto. L'articolo che ho scritto - si intitola Kurt Vonnegut e il cinema - Convergenze (im)possibili - lo trovate, se volete, sul numero 193 di Segnocinema (maggio-giugno 2015) attualmente in distribuzione.
Lo spunto di partenza mi è venuto dalla lettura del fondamentale volume Letters, di cui ho scritto qui. Attraverso quanto scritto da Vonnegut nelle sue lettere e, soprattutto, attraverso la visione dei film in cui è stato coinvolto, da quelli noti (Mattatoio 5) a quelli meno noti (Between Time and Timbuktu) mi è stato possibile tracciare il percorso accidentato della fascinazione reciproca tra Vonnegut e il cinema, una fascinazione dai risultati assai vari e spesso poco entusiasmanti, ma comunque molto interessante, almeno per me.
Forse, leggendo l'articolo a qualcuno verrà voglia di vedere qualcuno dei film di cui ho scritto (chissà, magari anche il simpatico Who Am I This Time? di Jonathan Demme), ma spero che qualcuno sia anche stimolato a prendere o riprendere in mano quello che Vonnegut ha scritto.
domenica 10 maggio 2015
In All Sincerity, Peter Cushing by Christopher Gullo
Ci sono attori e attrici la cui presenza in un film è già motivo sufficiente per vederlo. Sono quelli che caratterizzano i film in cui recitano e hanno una personalità tale da catalizzare da soli l’interesse degli spettatori. È una cosa che va al di là della singola interpretazione e riguarda tutta l’opera di quel determinato attore o attrice. Ciascuno ha i suoi. Humphrey Bogart, per esempio, lo vedrei (e l’ho visto) in qualsiasi film. Anche perché generalmente, proprio per il tipo di ruoli che sceglieva e i film che sceglieva di fare, faceva comunque film che mi interessavano. Ma se dovessi scegliere un attore per me significativo sotto questo profilo, quell’attore sarebbe Peter Cushing, che per questo penso di poter definire come il mio attore preferito. Molti anni fa, quando ancora i suoi film uscivano al cinema, già sapevo, vedendo il suo nome nel cast, che avrei visto quel film volentieri. Scoprire un po’ alla volta nel corso degli anni che non era solo un grande attore, ma anche una persona squisita al punto da essere denominato il Gentle Man dell’horror è stato un piacere ulteriore: non ho fatto purtroppo avuto il piacere di conoscerlo persona perché, ignaro dei fatti (e cioè che era molto disponibile e gentile con gli ammiratori) in un’epoca in cui internet e le sue informazioni non esistevano, non sono andato a trovarlo nella piccola cittadina di Whitstable dove viveva (ci sono andato pochi anni dopo la sua morte e ho visto la famosa Cushing’s View, ma ormai era troppo tardi).
Ci sono libri e libri sulla Hammer, sull’horror britannico e su Peter Cushing in particolare. Posso citare a questo riguardo almeno l’ottimo The Peter Cushing Companion di David Miller e, restando in campo italiano, il prezioso Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori che si occupa della collaborazione tra Cushing e il suo fratello d’arte Christopher Lee. E ci sono naturalmente i due libri autobiografici dello stesso Cushing, una lettura che consiglio a chiunque conosca l’inglese (purtroppo nessuno ha ancora pensato di pubblicarli nel nostro paese, cosa che del resto si può dire anche dell’altrettanto interessante autobiografia di Christopher Lee).
In All Sincerity, Peter Cushing di Christopher Gullo (il titolo del libro riprende la frase con cui Cushing amava chiudere le sue lettere) si inserisce (anzi, si è inserito da tempo risalendo, come prima pubblicazione, al 2004) in un contesto non certo privo di titoli. Ma un elemento che rende comunque questo libro di grande interesse e per certi versi unico è la presenza di interviste e dichiarazioni di un elevato numero di attori e artisti che hanno avuto il piacere e l’onore di conoscere e collaborare con Cushing. Il ritratto che emerge dai loro ricordi conferma l’impressione di una persona retta, appassionata del proprio lavoro, scevra dai personalismi ed egoismi spesso tipici delle persone di spettacolo, un artista a tutto tondo (la sua abilità nel disegno e in altri campi dell’arte viene sottolineata) che non ha preso come una condanna l’essere in qualche misura relegato per diversi anni nel recinto del cinema horror, ma ne ha tratto la possibilità di esprimere le proprie qualità senza fare differenze se si trattava di recitare Shakespeare o un copione di Jimmy Sangster.
Basterebbe questo per rendere il libro una lettura indispensabile per chiunque apprezzi il cinema e Cushing, ma il libro è anche una disamina scorrevole e completa della carriera dell’attore dalle prime esperienze teatrali al famoso salto a Hollywood (con la partecipazione tra l’altro a Noi siamo le colonne con Laurel & Hardy, una collaborazione di cui Cushing è sempre stato orgoglioso e che ha sempre ricordato con grande affetto e stima per i due comici), dalla popolarità ottenuta con la televisione britannica (con un memorabile ruolo da protagonista nel per allora sconvolgente adattamento dell’orwelliano 1984) ai fasti della Hammer e via via tutto il resto, Guerre stellari compreso sino a terminare con il suo ultimo lavoro, il commento, assieme al grande amico Christopher Lee, per il documentario sulla Hammer Flesh and Blood - The Hammer Heritage of Horror, pochi giorni prima di morire. Le parole del regista di quel documentario, Ted Newsom, riportate nel libro, danno il senso dell’operazione e la giusta soddisfazione che ha provato nell’essere riuscito a dare ai due amici l’opportunità di rivedersi, di passare delle ore felici insieme e di collaborare l’ultima volta, al di là di qualunque riserva si possa avere sulla qualità effettiva del documentario stesso (comunque molto interessante, a mio parere, e da vedere).
A livello strettamente di critica cinematografica il libro non è molto approfondito, ma non era questo lo scopo dell’autore. Quello che conta è il ritratto di Cushing e questo emerge potente e interessante, anche nella scelta, criticata da qualcuno, di non operare eccessivi tagli alle dichiarazioni dei vari intervistati con le ripetizioni (nei ricordi) che inevitabilmente ne sono derivate (molti hanno ricordato i famosi guanti bianchi antinicotina o il suo amore per la moglie Helen). Non l’ho trovato un difetto, ma semmai il rafforzamento di un’impressione.
Questo è stato anche, lo dico a margine, il primo libro che ho letto su un e-reader. L’esperienza è stata positiva, anche tenuto conto del prezzo molto basso del libro con questo formato.
Ancora a margine, mi pare opportuno precisare che il libro è in inglese.
Ci sono libri e libri sulla Hammer, sull’horror britannico e su Peter Cushing in particolare. Posso citare a questo riguardo almeno l’ottimo The Peter Cushing Companion di David Miller e, restando in campo italiano, il prezioso Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori che si occupa della collaborazione tra Cushing e il suo fratello d’arte Christopher Lee. E ci sono naturalmente i due libri autobiografici dello stesso Cushing, una lettura che consiglio a chiunque conosca l’inglese (purtroppo nessuno ha ancora pensato di pubblicarli nel nostro paese, cosa che del resto si può dire anche dell’altrettanto interessante autobiografia di Christopher Lee).
In All Sincerity, Peter Cushing di Christopher Gullo (il titolo del libro riprende la frase con cui Cushing amava chiudere le sue lettere) si inserisce (anzi, si è inserito da tempo risalendo, come prima pubblicazione, al 2004) in un contesto non certo privo di titoli. Ma un elemento che rende comunque questo libro di grande interesse e per certi versi unico è la presenza di interviste e dichiarazioni di un elevato numero di attori e artisti che hanno avuto il piacere e l’onore di conoscere e collaborare con Cushing. Il ritratto che emerge dai loro ricordi conferma l’impressione di una persona retta, appassionata del proprio lavoro, scevra dai personalismi ed egoismi spesso tipici delle persone di spettacolo, un artista a tutto tondo (la sua abilità nel disegno e in altri campi dell’arte viene sottolineata) che non ha preso come una condanna l’essere in qualche misura relegato per diversi anni nel recinto del cinema horror, ma ne ha tratto la possibilità di esprimere le proprie qualità senza fare differenze se si trattava di recitare Shakespeare o un copione di Jimmy Sangster.
Basterebbe questo per rendere il libro una lettura indispensabile per chiunque apprezzi il cinema e Cushing, ma il libro è anche una disamina scorrevole e completa della carriera dell’attore dalle prime esperienze teatrali al famoso salto a Hollywood (con la partecipazione tra l’altro a Noi siamo le colonne con Laurel & Hardy, una collaborazione di cui Cushing è sempre stato orgoglioso e che ha sempre ricordato con grande affetto e stima per i due comici), dalla popolarità ottenuta con la televisione britannica (con un memorabile ruolo da protagonista nel per allora sconvolgente adattamento dell’orwelliano 1984) ai fasti della Hammer e via via tutto il resto, Guerre stellari compreso sino a terminare con il suo ultimo lavoro, il commento, assieme al grande amico Christopher Lee, per il documentario sulla Hammer Flesh and Blood - The Hammer Heritage of Horror, pochi giorni prima di morire. Le parole del regista di quel documentario, Ted Newsom, riportate nel libro, danno il senso dell’operazione e la giusta soddisfazione che ha provato nell’essere riuscito a dare ai due amici l’opportunità di rivedersi, di passare delle ore felici insieme e di collaborare l’ultima volta, al di là di qualunque riserva si possa avere sulla qualità effettiva del documentario stesso (comunque molto interessante, a mio parere, e da vedere).
A livello strettamente di critica cinematografica il libro non è molto approfondito, ma non era questo lo scopo dell’autore. Quello che conta è il ritratto di Cushing e questo emerge potente e interessante, anche nella scelta, criticata da qualcuno, di non operare eccessivi tagli alle dichiarazioni dei vari intervistati con le ripetizioni (nei ricordi) che inevitabilmente ne sono derivate (molti hanno ricordato i famosi guanti bianchi antinicotina o il suo amore per la moglie Helen). Non l’ho trovato un difetto, ma semmai il rafforzamento di un’impressione.
Questo è stato anche, lo dico a margine, il primo libro che ho letto su un e-reader. L’esperienza è stata positiva, anche tenuto conto del prezzo molto basso del libro con questo formato.
Ancora a margine, mi pare opportuno precisare che il libro è in inglese.
venerdì 8 maggio 2015
Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 3 Jesus Franco
Dato che non c’è due senza tre, soprattutto in un libro con sei capitoli, proseguo nell’opera di presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni), occupandomi, dopo i primi due dedicati a Pete Walker e Jean Rollin, al terzo capitolo che ha per oggetto Jesus Franco.
Franco è forse il paradigma del regista di exploitation perché nessun altro come lui è andato sino in fondo al significato stesso della parola, realizzando un numero incredibile di film e spaziando per ogni genere e sottogenere, in produzioni che con il passare degli anni hanno visto i budget assottigliarsi sempre più - tranne qualche rara eccezione - arrivando a livelli quasi da cinema amatoriale, sempre senza perdere l’aplomb del regista in qualche modo comunque “autore”.
In questo caso il mio articolo su Segnocinema, pubblicato nell’ormai lontanissimo 2000, ha fornito poco più di una traccia e il capitolo, che è decisamente il più lungo del libro, è stato oggetto di una notevole riscrittura e di un altrettanto notevole ampliamento, per coprire non solo la produzione successiva di Franco, ma anche e soprattutto quella antecedente che allora non avevo potuto vedere. Sembra difficile immaginarlo adesso, infatti, ma in questi 15 anni la quantità di film che sono riemersi dal dimenticatoio dei magazzini cinematografici è soprendente e pellicole che si pensava non sarebbero più state visibili sono tornate più belle e più superbe che pria. Nel 2000, ricordo, già pareva molto poter accedere alle vhs della Redemption, ma poi si sono aperte le cateratte. Per fortuna, inutile aggiungere. Un giorno bisognerà fare una riflessione ampia e articolata sull’importanza del passaggio al dvd che si è rivelato un formato assai più cinefilo rispetto al vhs (e se qualcuno questa riflessione l’ha già fatta, magari me la sono persa o l’ho dimenticata).
Rientro in tema per sottolineare che il capitolo ripercorre con dovizia in oltre 100 pagine la straordinaria carriera di Franco dagli albori spagnoli all’epilogo un po’ malinconico e altrettanto spagnolo (con film come Paula-Paula e Al Pereira vs. the Alligator Ladies, da vedere per credere), con parecchio girovagare in mezzo, da ogni paese europeo agli Stati Uniti. Dalle commedie come Vampiresas 1930 ai primi horror come Il diabolico dott. Satana e il notevole Sinfonia per un sadico, dai noir crepuscolari come La spia sulla città al “west” singolarissimo di Sfida selvaggia, da deliri pop fumettistici di Agente speciale L.K. a quelli ancora più pop e sensuali di Rote lippen a quelli esistenzial-godardiani di Delirium. Per poi passare ai fasti del periodo dei film prodotti da Harry Alan Towers - chi si ricorda la Justine con Romina Power? (tutti, penso) - al cosiddetto periodo Dietrich e via via, senza trascurare l’importanza delle sue muse, da quella olimpica e inarrivabile (Soledad Miranda) a quella più carnale e disponibile e per questo forse meno apprezzata dai più (Lina Romay).
Ma qui non posso nemmeno provare a tracciare un percorso che nel libro invece compio con una certa dovizia: troppi sono i film, troppe le suggestioni, troppi i temi e gli spunti di un regista capace di dirigere film antitetici su temi analoghi come Il conte Dracula, Dracula contro Frankenstein e Vampyros Lesbos. Nel cinema di Franco il “troppo” è forse l’elemento caratterizzante, ma a segnalare un eccesso voluto e di per se stesso da considerarsi una sfida al destino e alle convenzioni. Anticonvenzionale e anticonformista, Franco non ha voluto conformarsi alla moderazione e ha filmato contro ogni moderazione, anche, forse, contro il suo stesso interesse, sminuendo in parte, con una convulsa filmografia affastellata di titoli anche trascurabili, la sua caratura di autore costruita con pellicole invece di indubbio interesse che testimoniavano anche un rigore artistico e delle invenzioni non comuni.
Figura controversa ma certamente non trascurabile, Franco ha riassunto in sé gli splendori e le miserie dell’exploitation, ma è stato, forse anche per questo, un autore a tutto tondo. Un autore capace, per tanti motivi, di grandi squilibri qualitativi all’interno della sua produzione e in questo senso, forse, questo capitolo può essere utile, oltre a chi lo conosce e lo apprezza, anche a chi voglia cominciare ad approfondire la sua opera.
Inutile dire che la copertina del libro è dedicata proprio a Jesus Franco.
Franco è forse il paradigma del regista di exploitation perché nessun altro come lui è andato sino in fondo al significato stesso della parola, realizzando un numero incredibile di film e spaziando per ogni genere e sottogenere, in produzioni che con il passare degli anni hanno visto i budget assottigliarsi sempre più - tranne qualche rara eccezione - arrivando a livelli quasi da cinema amatoriale, sempre senza perdere l’aplomb del regista in qualche modo comunque “autore”.
In questo caso il mio articolo su Segnocinema, pubblicato nell’ormai lontanissimo 2000, ha fornito poco più di una traccia e il capitolo, che è decisamente il più lungo del libro, è stato oggetto di una notevole riscrittura e di un altrettanto notevole ampliamento, per coprire non solo la produzione successiva di Franco, ma anche e soprattutto quella antecedente che allora non avevo potuto vedere. Sembra difficile immaginarlo adesso, infatti, ma in questi 15 anni la quantità di film che sono riemersi dal dimenticatoio dei magazzini cinematografici è soprendente e pellicole che si pensava non sarebbero più state visibili sono tornate più belle e più superbe che pria. Nel 2000, ricordo, già pareva molto poter accedere alle vhs della Redemption, ma poi si sono aperte le cateratte. Per fortuna, inutile aggiungere. Un giorno bisognerà fare una riflessione ampia e articolata sull’importanza del passaggio al dvd che si è rivelato un formato assai più cinefilo rispetto al vhs (e se qualcuno questa riflessione l’ha già fatta, magari me la sono persa o l’ho dimenticata).
Rientro in tema per sottolineare che il capitolo ripercorre con dovizia in oltre 100 pagine la straordinaria carriera di Franco dagli albori spagnoli all’epilogo un po’ malinconico e altrettanto spagnolo (con film come Paula-Paula e Al Pereira vs. the Alligator Ladies, da vedere per credere), con parecchio girovagare in mezzo, da ogni paese europeo agli Stati Uniti. Dalle commedie come Vampiresas 1930 ai primi horror come Il diabolico dott. Satana e il notevole Sinfonia per un sadico, dai noir crepuscolari come La spia sulla città al “west” singolarissimo di Sfida selvaggia, da deliri pop fumettistici di Agente speciale L.K. a quelli ancora più pop e sensuali di Rote lippen a quelli esistenzial-godardiani di Delirium. Per poi passare ai fasti del periodo dei film prodotti da Harry Alan Towers - chi si ricorda la Justine con Romina Power? (tutti, penso) - al cosiddetto periodo Dietrich e via via, senza trascurare l’importanza delle sue muse, da quella olimpica e inarrivabile (Soledad Miranda) a quella più carnale e disponibile e per questo forse meno apprezzata dai più (Lina Romay).
Ma qui non posso nemmeno provare a tracciare un percorso che nel libro invece compio con una certa dovizia: troppi sono i film, troppe le suggestioni, troppi i temi e gli spunti di un regista capace di dirigere film antitetici su temi analoghi come Il conte Dracula, Dracula contro Frankenstein e Vampyros Lesbos. Nel cinema di Franco il “troppo” è forse l’elemento caratterizzante, ma a segnalare un eccesso voluto e di per se stesso da considerarsi una sfida al destino e alle convenzioni. Anticonvenzionale e anticonformista, Franco non ha voluto conformarsi alla moderazione e ha filmato contro ogni moderazione, anche, forse, contro il suo stesso interesse, sminuendo in parte, con una convulsa filmografia affastellata di titoli anche trascurabili, la sua caratura di autore costruita con pellicole invece di indubbio interesse che testimoniavano anche un rigore artistico e delle invenzioni non comuni.
Figura controversa ma certamente non trascurabile, Franco ha riassunto in sé gli splendori e le miserie dell’exploitation, ma è stato, forse anche per questo, un autore a tutto tondo. Un autore capace, per tanti motivi, di grandi squilibri qualitativi all’interno della sua produzione e in questo senso, forse, questo capitolo può essere utile, oltre a chi lo conosce e lo apprezza, anche a chi voglia cominciare ad approfondire la sua opera.
Inutile dire che la copertina del libro è dedicata proprio a Jesus Franco.
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