venerdì 3 aprile 2015

Bob Dylan - Shadows in the Night

A Bob Dylan è sempre piaciuto interpretare canzoni altrui. Se all’inizio della carriera - con le scorpacciate di blues, root songs, folk, Woody Guthrie e via discorrendo - poteva essere una necessità in attesa di rimpinguare un repertorio proprio, negli anni seguenti è stata una scelta ponderata con cui ritrovare l’ispirazione, ripercorrere la storia del proprio paese, rendere imaggio ad artisti più o meno o per niente famosi. In certi casi le cover sono state poco riuscite (Self Portrait e Dylan presentano alcuni esempi in questo senso, ma anche Knocked Out Loaded non scherza), più spesso sono state notevoli.

Una caratteristica degli esempi migliori è che, interpretandole, Dylan trasforma quelle canzoni facendole sue, rendendole qualcosa di diverso. Anche nei casi in cui l’originale sembrava lontano quantomeno dal suo stile se non dalla sua sensibilità. Superba ed evidente in questo senso è la sua versione di Soon di Gershwin, suonata da solo, chitarra e armonica, nel 1987 al Gershwin Gala di fronte a un pubblico dapprima sbigottito e poi conquistato. Parliamo di Gershwin, che di solito è eseguito da un’orchestra e che normalmente uno non avrebbe mai pensato potesse essere tra i musicisti nell’ambito di interesse di Dylan.

Ma che i gusti di Dylan siano molto più ampi di quelli della maggior parte dei suoi ammiratori è divenuto evidente nel periodo in cui Dylan ha, per così dire, fatto il dj con il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, una miniera di scoperte e riscoperte musicali a ruota libera e ampio raggio. Chi ha ascoltato quel programma non si è stupito che Dylan abbia deciso di realizzare un album di cover di canzoni associate a Frank Sinatra perché da lui cantate nelle varie fasi della sua lunga carriera. Né va dimenticato che Dylan ha suonato per Frank Sinatra nel concerto omaggio per i suoi 80 anni, dimostrando così la sua ammirazione per lui. Che stima e ammirazione fossero reciproci lo dimostra ancor più il fatto che Dylan fu l’unico in quella occasione a suonare una propria canzone invece che una cover sinatriana, su richiesta dello stesso Sinatra che gli chiese di cantare Restless Farewell (canzone che Dylan non eseguiva praticamente mai dal vivo) probabilmente perché ha una tematica che il vecchio crooner sentiva affine: potremmo infatti definirla la My Way di Bob Dylan.

Shadows in the Night, il nuovo album, contiene forse anche la canzone che Dylan avrebbe potuto o voluto cantare in quel concerto. Chissà. In ogni caso, è stato registrato praticamente live con la band con cui Dylan gira il mondo in questi anni, con arrangiamenti rispettosi dell’essenza delle canzoni; non rivoluzionari quindi nella sostanza, ma forse rivoluzionari nella forma perché fanno a meno del respiro orchestrale. Non siamo quindi dalle parti della rivisitazione demolitrice alla Sid Vicious di My Way. Dylan, come lui stesso ha riconosciuto, ha in sostanza contribuito a demolire quel mondo per davvero, rivoluzionando la musica e rendendo all’improvviso obsoleto un certo modo di farla. Il rispetto e l’ammirazione che invece lui prova per quella musica e quegli artisti - non tutti, ovvio, basta leggere il magistrale e geniale, anche nelle sue cattiverie che poteva in qualche caso risparmiarsi, tenuto improvvisamente e quasi a sorpresa al MusiCares qualche tempo fa per rendersene conto (trovate la traduzione integrale nel meritorio sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm - lo dimostra proprio un disco come questo.

Dylan non cerca, diversamente da quella versione di Soon, di rendere dylaniano Sinatra e nemmeno prova a rendere sinatriano se stesso, sapendo che non sarebbe possibile. Va però all’essenza delle canzoni e le interpreta al meglio delle sue attuali possibilità, con sorprendenti modulazioni vocali che la voce di questi anni sembrava impedirgli (ma nell’ultimo paio d’anni la voce, anche per una più sapiente scelta del tipo di musica, è nettamente migliorata anche nei concerti).

Non sono un esperto di Frank Sinatra, ma I’m a Fool to Want You, la canzone che apre l’album, la conoscevo bene e mi è sempre sembrata una delle migliori del repertorio di Sinatra per quel che ne potevo sapere. Notturna, cupa e amara. Dylan la ripercorre con grande sensibilità e vulnerabilità, dando verità a ogni parola: toccante e riflessiva, la canzone dà subito il tono giusto che l’album non perderà più.  Qualcuno ha scritto che, per questo suo mantenersi in uno stesso mood, è un album monotono. Direi invece che è un album che crea un’atmosfera e la mantiene. Mi sembra più un pregio che un difetto.

Tra gli highlights del disco ci sono sicuramente Autumn Leaves, che, spogliata da ogni sovrastruttura, è una canzone struggente e di sana malinconia, Full Moon and Empty Arms, soffusa e fumosa, e Some Enchanting Evening, che si fa apprezzare per la sua levità in un contesto tendente al cupo. Di The Night We Called It a Day, romantica e avvolgente, ormai ci restano impresse e si sovrappongono nella memoria le immagini del suggestivo video che le è stato dedicato. Ma la canzone che secondo me spicca in assoluto - in un contesto uniformemente buono - è l’unica che Dylan aveva già più volte interpretato e che qui ripropone in modo del tutto diverso rispetto alle sue passate interpretazioni. That Lucky Old Sun, infatti, era stata proposta ben 23 volte in concerto nel 1986 durante la tournée con Tom Petty e gli Heartbreakers e poi era sporadicamente tornata anche nel cosiddetto Neverending Tour. Quindi, non una novità per i dylaniani. Ma le versioni del 1986 erano piene di energia, quasi rabbiose, molto rock, più che country, mentre le versioni del Neverending Tour privilegiavano, in versione acustica, la variante folk della canzone. Questa volta la resa è del tutto diversa. E notevole. La world-weariness sottesa nel testo emerge sommessa e potente nell’arrangiamento lento e avvolgente, con la voce che rende davvero il senso della stanchezza di fronte alle ingiustizie e alle fatiche della vita e del desiderio di avere da Dio la possibilità di non fare nulla e di starsene tranquilli come il sole a osservare, se proprio se ne ha voglia, l’umanità che si danna nelle sue inutili e frenetiche attività.



Certo, un album di originali dylaniani è un'altra cosa e un altro Tempest sarebbe stato ben più interessante, ma nello spirito di assoluta libertà nei fini e nei mezzi che caratterizza da sempre Dylan questa aggunta al suo canone è affascinante e soprattutto tende a persistere nella memoria e a farsi ascoltare sempre con piacere.

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