domenica 28 giugno 2015
Bob Dylan a San Daniele del Friuli, 27 giugno 2015
Nella mia esperienza di concerti dylaniani all’aperto mi è capitato raramente di potervi assistere senza subire, direttamente o nelle conseguenze, le inclemenze atmosferiche. La mia è naturalmente un’esperienza limitata e non può assurgere ad alcun carattere di scientificità, ma per quanto mi riguarda è molto significativa. In sostanza mi sono rassegnato all’inevitabilità del meteo avverso, ma ogni volta mi stupisco. Modena ‘87 e Ferrara ‘96 sono stati esempi del tutto positivi, ma già Verona ‘84, Correggio ‘92, Sonoria ‘94, Passariano '96, Udine '01 (con il concerto addirittura annullato: caso credo unico nella storia dylaniana, a parte l'influenza di Praga), Strà 2004 (grandine, nientemeno) e via dicendo mi hanno segnato. Questa volta il meteo - almeno quello che ho consultato io - faceva prevedere buone cose e invece mi sono fatto tutto il viaggio sotto un nubifragio e quando sono arrivato a San Daniele del Friuli non sono stato accolto solo da un eccezionale arcobaleno, ma anche da una plurichilometrica coda che non faceva presagire nulla di buono. E quasi nulla di buono c’è stato, infatti, perché la pioggia ha prodotto conseguenze notevoli a livello organizzativo, con molti parcheggi chiusi. Per farla breve, dopo indicazioni contraddittorie e una botta di fortuna, sono riuscito ad arrivare al concerto quando questo era già iniziato da tempo. Da un lato mi è dispiaciuto, dall’altro non potevo credere di esserci comunque arrivato dopo tutto quello che avevo dovuto passare. E tenete presente che, come mia consuetudine, mi ero mosso con largo anticipo e che non sono stato certo il solo ad arrivare però tardi al concerto per difficoltà sopravvenute.
Il concerto però è stato ottimo, confermando la positiva impressione avuta in quelli degli ultimi anni e, anzi, aumentandola. La voce di Bob è in ottima forma. Questa volta ha cantato con toni bassi, in modo molto chiaro e ricco di nuances e suggestioni. Il fatto che il concerto fosse all’aperto non ha compromesso la qualità del suono che, a mio avviso e dalla mia postazione, è stata ottima, anche è soprattutto a livello di missaggio, con la voce in bella evidenza. La formazione è quella solita e ha dato ottima prova di sé.
Il mio concerto, purtroppo, è cominciato con le ultime note di Duquesne Whistle (versione più che accettabile, per quel che ho sentito) e quindi mi sono perso le prime canzoni, vale a dire Things Have Chjanged, She Belongs to Me, Beyond Here Lies Nothin’ e Workingman’s Blues #2 (vera disdetta, soprattutto quest’ultima, che ci avrei tenuto parecchio a sentire). Il concerto è poi proseguito con questa scaletta.
Waiting For You: il buon vecchio valzerone scritto per la colonna sonora di I sublimi segreti delle Ya-Ya Sisters continua a essere una canzona dalla discreta resa in concerto, ma senza il fascino rétro che riusciva a sviluppare nella versione su disco, grazie anche alle morbide variazioni musicali. Gradevole, ma non molto di più.
Pay in Blood: ottimo pezzo da Tempest, mantiene sempre la sua ruvidezza e la sua cattiveria. La band asseconda il cantato feroce di Dylan con un’orchestrazione “sporca” e molto concentrata. Una canzone che rimane di ottima presa a ricordarci la continua pregnanze dell’ultimo Dylan.
Tangles Up in Blue: quando pensi di esserti stancato di sentire per l’ennesima volta questa pur bellissima canzone, ti devi spesso, come stavolta, ricredere. Una versione ottima, fresca, arricchita dall’armonica e da un cantato preciso e suadente. Uno dei punti alti della serata.
Full Moon and Empty Arms: istintivamente, quando l’ho sentita ho guardato in alto, ma no, la luna non era piena. Comunque il pezzo, così notturno e soffuso, era perfettamente in linea con il momento, buio e nuvoloso (anche se, per fortuna, non ha più piovuto). Tratta dal recente album che omaggia Frank Sinatra, è una canzone che Dylan interpreta con perizia e umiltà. Un grande pezzo d’atmosfera.
Dopo l’intervallo il concerto è ripreso con questi pezzi.
High Water: per me una delle tre migliori della serata (le altre due sono Forgetful Heart e Long and Wasted Years, con Tangled Up in Blue subito dopo). Dopo anni in cui l’arrangiamento, pur mantenendosi gradevole, le aveva fatto perdere un po’ di mordente, la canzone è tornata a essere pienamente coesa, forte, che va dritta sul punto. Dylan l’ha interpretata in modo magistrale, riuscendo a rendere evidente e coinvolgente il suo sarcasmo apocalittico. Visto il momento meteo, poi, era particolarmente appropriata.
Simple Twist of Fate: come Tangled Up in Blue, anche questa è stata rivitalizzata in modo molto efficace grazie a un arrangiamento soft e molto gradevole. Una grande canzone che non tradisce mai.
Early Roman Kings: canzone che ho sempre considerato tra le più deboli, relativamente, di Tempest (grande album), soprattutto per il suo riff musicale derivativo che però accompagna un testo di raro mistero e fascino. Dal vivo, comunque è una canzone che anno dopo anno continua a crescere e stavolta mi ha davvero convinto: una versione più riflessiva, intensa, in cui anche il riff blues è camuffato, ammorbidito.
Forgetful Heart: ogni volta che la sento, mi colpisce per il tono disarmante e indifeso con cui Dylan la canta, caricandola di significati che vanno ben al di là di un testo intenso ma non eccezionale. Il segreto e il mistero sono nell'interpretazione, intensa e strabocchevole di suggestioni con assoli di armonica assolutamente strazianti. Un must assoluto del Dylan live di questi anni.
Spirit on the Water: ancora acqua. Forse è la canzone che ha coinvolto di più gli spettatori che si sono lasciati trascinare da una melodia, appunto, trascinante. Un pezzo che mi piace, senza che mi convinca del tutto, reso in modo molto professionale e sentito.
Scarlet Town: oscuro e minaccioso, da Tempest, è un brano di notevole bellezza che Dylan rende sempre molto bene anche in concerto. Questa versione l’ho trovata in linea con le precedenti, di ottima fattura, capace di portare l’ascoltatore in un mondo cupo e ristretto dal quale sembra impossibile poter evadere. Se qualcuno trova affinità con il mondo reale, be’, non credo si sbagli.
Soon After Midnight: altra canzone perfetta per il momento. Melodia accattivante, cantato suadente: una canzone d’amore tra le migliori del Dylan degli ultimi decenni in una versione perfetta e coinvolgente.
Long and Wasted Years: che dire? Meravigliosa. Cattiva e puntuta. Credevo che fosse così perfetta da non essere modificabile e invece questa versione presenta delle novità, soprattutto nello smussamento dell’inevitabilità del riff, con un effetto in minima parte spiazzante e in ogni caso molto efficace: uno dei capolavori del Dylan degli ultimi decenni.
Autumn Leaves: altra canzone da Shadows in the Night in un’esecuzione perfetta che dovrebbe togliere ogni dubbio a chi pensa che Dylan non abbia più voce. Intensa e profondamente sentita, la versione di Dylan ha creato un’atmosfera magica assolutamente in tono con il momento.
Gli encores sono stati la consueta, vivace e per me molto riuscita, versione di Blowin’ in the Wind che la rende una sorta di inno alla positività e un’ottima resa di Love Sick, altra canzone che dal vivo ha sempre funzionato e che in questa versione è particolarmente efficace.
Alla fine, il concerto, come prevedibile, con la sua qualità, ha ridotto il disappunto per quanto era successo prima e per l’irreparabile perdita delle prime canzoni. Tant’è. La mia speranza, come sempre, è di poter vedere concerti al chiuso e non all’aperto perché sarà pur vero che l’Italia è il paese del sole, ma, quando si tratta di concerti dylaniani, ciò non si direbbe.
Un ultimo appunto per la mia classica domanda: perché mai un sacco di gente paga il biglietto per venire a vedere un concerto per poi non fare altro che schiamazzare con amici e vicini?
venerdì 26 giugno 2015
Subject 0: Shattered Memories di Tiziano Cella
Una donna si sveglia felice sul suo letto dopo, evidentemente, una notte d’amore. Allunga la mano verso il suo partner, girato di lato, e la ritrae sporca di sangue: l’uomo è stato massacrato. La donna si chiama Lauren (Lauren Jane Matic) ed è la moglie di Robert Williams (David White) che, assieme al socio Giuseppe Torre (Giuseppe Ragone), è al momento impegnato in una trattativa per un misterioso prodotto che la sua società sta proponendo a un’interessata che rappresenta un governo straniero. Katia (Martina Palmitesta) e Daniel (Daniel Brooks) sono una coppia di fidanzati: Daniel vorrebbe che lei smettesse di lavorare, anche perché non gli piace il luogo in cui lavora né il suo datore di lavoro, Joshua Merlo (Tiziano Cella), sfasciacarrozze. Quando Robert arriva a casa, trova la moglie Lauren in lacrime e la polizia in loco. La polizia interroga Robert, che spiega d’essere stato al lavoro. Lauren è troppo scioccata per essere interrogata e così i poliziotti, per il momento, se ne vanno. Giuseppe telefona a Robert spiegando che c’è interesse per il loro progetto. Robert se ne compiace, ma vuole sapere dalla la moglie che cosa è successo. La rimprovera di mettere a repentaglio la sua carriera: è evidente che l’uomo trovato morto era il suo amante. Joshua, a casa, riceve le proteste di una vicina cinese per il rumore prodotto dalla televisione che sta tenendo accesa in sottofondo. Il morto si chiama Giorgio De Rosa, spiega la polizia interrogando Lauren alla presenza di Robert. Robert dice di non conoscerlo. Lauren invece ammette che era il suo amante da tempo. Robert è scagionato perché ha un alibi. La polizia, al momento, non ha indizi. Joshua trova Katia che sul lavoro bacia Daniel e la rimprovera Katia per essere in ritardo. Daniel reagisce bruscamente e Katia gli dice di andarsene, dopo aver detto a entrambi d’aver esagerato. Presto però anche Katia si rende conto che Joshua ha dei comportamenti strani e comincia ad averne paura. Lauren rivela a Robert di essere incinta, ma che lui non è il padre, perché lui è sterile. Il padre probabilmente è il morto. Robert le dice che lui l’ama ancora. Comunque, è molto preso dall’affare che sta cercando di condurre in porto e che è legato al controllo sugli altri. I delitti si susseguono e la connessione tra i vari personaggi rende evidente che c’è sotto qualcosa di terribile, che ha a che fare con ordini subliminali.
Il tema del controllo delle altre persone in funzione anche omicida, per realizzare in modo vicario ciò che non si può o non si vuole fare di persona, è affascinante e il suo utilizzo risale agli albori del cinema, sin dai tempi de Il gabinetto del dottor Caligari. Jesus Franco ne ha fatto un uso intensivo con i suoi molti automi umani spesso telecomandati con parafernalia fantascientifici non lontani concettualmente dall’apparecchio usato in questo film, ma spesso più scanzonati nell’uso e nell’ideazione. Si può ricordare, tra i tanti, anche il curioso essere biomeccanico teleguidato del bizzarro film messicano Orlak, el infierno de Frankenstein.
Per il suo esordio nel lungometraggio, Tiziano Cella sceglie un approccio visuale realistico e inserisce il gimmick come motore motivazionale di una vicenda thriller nella quale si punta a una umanizzazione dell’incolpevole colpevole (viene in mente anche il classico fantapolitico Va’ e uccidi, anche se naturalmente contesto e situazioni non potrebbero essere più diversi), inconsapevole - sino a un certo punto - strumento del male altrui. La dinamica narrativa non sempre è persuasiva (l’elemento, per così dire, fantascientifico è dato forse troppo per scontato), ma si vedono ottimi momenti di cinema. Spesso ci sono sequenze orchestrate con notevole maestria visuale e le pause nella narrazione sono gestite con suggestione: in genere l’interazione dei personaggi è ben studiata.
La storia però si presenta nella sostanza prevedibile negli sviluppi e talvolta un po’ debole. La concatenazione logica di alcune svolte, come quella che coinvolge il ragazzo delle pizze, è architettata con attenzione e funziona. La parte più debole, come spesso accade in questi casi, è quella delle indagini della polizia, ma è un difetto intrinseco per la necessità di spiegare, che invece le sequenze più immaginifiche dei delitti o della loro preparazione possono evitare: le parti investigative sono anche quelle nelle quali Cella sembra arrendersi al budget, inscenandole con una certa piattezza.
Scandito in giorni, il film è comunque in genere elegante e ben diretto. Nel complesso apprezzabile anche la prova del cast, nel quale si ritaglia una parte significativa il regista, che del resto ha già dato buone prove di interprete nel passato: chi legge questo blog può ricordare che ne ho parlato quando è stato protagonista assoluto di Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo.
Curata la fotografia e in genere adeguati i valori di produzione sia pure nell’ambito di un budget che non dev’essere stato consistente, ma è stato ben utilizzato. Una nota di merito per la colonna sonora, varia e appropriata. E di grande importanza nell’economia della narrazione spesso affidata a sequenze senza parole accompagnate dalla musica significativa anche, talvolta, nelle sue dissonanze. Valido anche il montaggio (di Valerio Perini), preciso e accurato.
La dinamica sanguinosa dei delitti e l’utilizzo, in funzione eye candy, di qualche tocco di erotismo vouyeristico, rimandano alla tradizione dei thriller all’italiana degli anni ’70 e costituiscono un rimando che non dovrebbe essere sgradito allo spettatore.
Nell’insieme, un tentativo coraggioso e fondamentalmente riuscito a livello di intrattenimento, che avrebbe beneficiato da una più solida base narrativa, ma segnala in modo inequivocabile le doti di Cella nella messa in scena e vale senz'altro la pena di vedere.
Il tema del controllo delle altre persone in funzione anche omicida, per realizzare in modo vicario ciò che non si può o non si vuole fare di persona, è affascinante e il suo utilizzo risale agli albori del cinema, sin dai tempi de Il gabinetto del dottor Caligari. Jesus Franco ne ha fatto un uso intensivo con i suoi molti automi umani spesso telecomandati con parafernalia fantascientifici non lontani concettualmente dall’apparecchio usato in questo film, ma spesso più scanzonati nell’uso e nell’ideazione. Si può ricordare, tra i tanti, anche il curioso essere biomeccanico teleguidato del bizzarro film messicano Orlak, el infierno de Frankenstein.
Per il suo esordio nel lungometraggio, Tiziano Cella sceglie un approccio visuale realistico e inserisce il gimmick come motore motivazionale di una vicenda thriller nella quale si punta a una umanizzazione dell’incolpevole colpevole (viene in mente anche il classico fantapolitico Va’ e uccidi, anche se naturalmente contesto e situazioni non potrebbero essere più diversi), inconsapevole - sino a un certo punto - strumento del male altrui. La dinamica narrativa non sempre è persuasiva (l’elemento, per così dire, fantascientifico è dato forse troppo per scontato), ma si vedono ottimi momenti di cinema. Spesso ci sono sequenze orchestrate con notevole maestria visuale e le pause nella narrazione sono gestite con suggestione: in genere l’interazione dei personaggi è ben studiata.
La storia però si presenta nella sostanza prevedibile negli sviluppi e talvolta un po’ debole. La concatenazione logica di alcune svolte, come quella che coinvolge il ragazzo delle pizze, è architettata con attenzione e funziona. La parte più debole, come spesso accade in questi casi, è quella delle indagini della polizia, ma è un difetto intrinseco per la necessità di spiegare, che invece le sequenze più immaginifiche dei delitti o della loro preparazione possono evitare: le parti investigative sono anche quelle nelle quali Cella sembra arrendersi al budget, inscenandole con una certa piattezza.
Scandito in giorni, il film è comunque in genere elegante e ben diretto. Nel complesso apprezzabile anche la prova del cast, nel quale si ritaglia una parte significativa il regista, che del resto ha già dato buone prove di interprete nel passato: chi legge questo blog può ricordare che ne ho parlato quando è stato protagonista assoluto di Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo.
Curata la fotografia e in genere adeguati i valori di produzione sia pure nell’ambito di un budget che non dev’essere stato consistente, ma è stato ben utilizzato. Una nota di merito per la colonna sonora, varia e appropriata. E di grande importanza nell’economia della narrazione spesso affidata a sequenze senza parole accompagnate dalla musica significativa anche, talvolta, nelle sue dissonanze. Valido anche il montaggio (di Valerio Perini), preciso e accurato.
La dinamica sanguinosa dei delitti e l’utilizzo, in funzione eye candy, di qualche tocco di erotismo vouyeristico, rimandano alla tradizione dei thriller all’italiana degli anni ’70 e costituiscono un rimando che non dovrebbe essere sgradito allo spettatore.
Nell’insieme, un tentativo coraggioso e fondamentalmente riuscito a livello di intrattenimento, che avrebbe beneficiato da una più solida base narrativa, ma segnala in modo inequivocabile le doti di Cella nella messa in scena e vale senz'altro la pena di vedere.
mercoledì 24 giugno 2015
Intervista su INK n. 66
INK è una storica e pregevole rivista dedicata al fumetto. Nel numero attualmente in distribuzione - il n. 66 (aprile 2015) - segnalo che c'è una lunga intervista a me condotta da Paolo Forni, che ringrazio per l'attenzione. Trattandosi di una rivista di fumetti, l'intervista è maggiormente incentrata su questi, ma si toccano anche gli altri aspetti della mia produzione, come la saggistica cinematografica e, brevemente, i racconti. Chi è interessato alla mia attività la troverà quindi una lettura interessante, anche grazie alle domande di Paolo Forni che sono andate a toccare anche i momenti iniziali della mia carriera e in particolare la collaborazione con l'editore Sansoni e i suoi pocket orrorifici. Ma non solo, perché mi ha dato anche l'occasione di ringraziare ancora una volta il grande Pinù Intini, che tanto è stato cruciale nella mia carriera.
Nello stesso numero è anche presente - e mi fa molto piacere evidenziarlo - un'intervista, sempre condotta da Paolo Forni, a mio fratello Gianni, con il quale ho condiviso gli esordi e anche una lunga collaborazione in anni più maturi nel Messaggero dei Ragazzi. L'intervista è molto interessante e penso non lo sia solo per me.
Ma anche chi non fosse incuriosito dalle alterne vicende dei fratelli Salvagnini potrà trovare molto di interessante nella rivista che comprende anche interviste a Luigi Cozzi (grande esponente del cinema fantastico italiano sia in veste di regista, sia in quelle di autore ed editore) e al disegnatore Paolo Peruzzo, con il quale abbiamo condiviso una militanza sansoniana e di cui ho appreso con grande interesse i successivi sviluppi di carriera. Il tutto nell'ambito di un'analisi di quel particolare fenomeno che fu la rivista Horror, edita appunto da Sansoni.
Insomma, una rivista che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di fumetti. Chi fosse interessato, può trovare sul sito della rivista tutte le informazioni per acquistarla.
Nello stesso numero è anche presente - e mi fa molto piacere evidenziarlo - un'intervista, sempre condotta da Paolo Forni, a mio fratello Gianni, con il quale ho condiviso gli esordi e anche una lunga collaborazione in anni più maturi nel Messaggero dei Ragazzi. L'intervista è molto interessante e penso non lo sia solo per me.
Ma anche chi non fosse incuriosito dalle alterne vicende dei fratelli Salvagnini potrà trovare molto di interessante nella rivista che comprende anche interviste a Luigi Cozzi (grande esponente del cinema fantastico italiano sia in veste di regista, sia in quelle di autore ed editore) e al disegnatore Paolo Peruzzo, con il quale abbiamo condiviso una militanza sansoniana e di cui ho appreso con grande interesse i successivi sviluppi di carriera. Il tutto nell'ambito di un'analisi di quel particolare fenomeno che fu la rivista Horror, edita appunto da Sansoni.
Insomma, una rivista che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di fumetti. Chi fosse interessato, può trovare sul sito della rivista tutte le informazioni per acquistarla.
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lunedì 22 giugno 2015
Recensione di Paolo Spagnuolo a Il cinema dell'eccesso
Con piacere, segnalo la recensione che Paolo Spagnuolo - che ringrazio - ha gentilmente scritto sul mio libro Il cinema dell'eccesso - Vol. 1 - Europa (Crac Edizioni). La recensione è appena comparsa sul sito iyezine.com e per leggerla non avete che da cliccare qui.
Paolo Spagnuolo, tra le molte altre cose, è anche l'autore di un libro notevole, Napoli violenta (Mephite), sull'omonimo classico del poliziottesco di Umberto Lenzi: ça va sans dire, il poliziottesco è un genere davvero interessante per molti motivi. Ne riparleremo.
Paolo Spagnuolo, tra le molte altre cose, è anche l'autore di un libro notevole, Napoli violenta (Mephite), sull'omonimo classico del poliziottesco di Umberto Lenzi: ça va sans dire, il poliziottesco è un genere davvero interessante per molti motivi. Ne riparleremo.
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recensione
venerdì 12 giugno 2015
Sir Christopher Lee (1922-2015)
Sulla breccia da moltissimi anni, capace di sorprendere con interpretazioni autorevoli e intense anche in questi ultimi anni, sembrava semplicemente immortale. Eppure, anche lui alla fine se n'è andato, ultima colonna di un cinema che non c'è più, ma in fondo c'è sempre.
Internet Movie Data Base gli accredita quasi 300 interpretazioni, un numero impressionante che rende l'idea del suo attivismo, della sua voglia di recitare e del piacere che evidentemente provava nel farlo, pur non avendone la necessità nemmeno dal punto di vista artistico avendo già da molto dimostrato tutto quello che c'era da dimostrare.
Attore sapiente e multiforme più di quanto lo spettatore normale possa immaginare, Christopher Lee si è costruito con grande determinazione una carriera eccezionale, sapendo operare nel tempo delle scelte anche radicali che al momento potevano sembrare controproducenti, ma che invece dimostravano come fosse sempre perfetamente al timone della sua barca. Come la scelta di abbandonare, con qualche ritorno anche magari frequente, l'horror di cui era uno dei principi incontrastati. Oppure - e la cosa è collegata - quella di abbandonare il personaggio di Dracula, insoddisfatto del trattamento che gli era stato riservato. Diversamente dal suo grande amico Peter Cushing, Lee ha cercato subito di dare un'impronta internazionale e quanto più possibile varia alla sua carriera e ai ruoli. Ha vagato per cinematografie di molte nazioni - Italia compresa, dove lo si ricorda in molti horror ma anche in film comici come Tempi duri per i vampiri con Rascel e, molti anni dopo, L'avaro con Sordi - cercando di affrancarsi da una tipizzazione che gli sembrava riduttiva. Cercando e riuscendoci, come dimostra la mole di ruoli caratterizzanti che ha interpretato nel corso degli anni, senza alcuna connessione con l'horror: dallo Scaramanga del bondiano L'uomo dalla pistola d'oro al Saruman della saga de Il signore degli anelli al conte Dooku di Star Wars.
Ma mi piace ricordarlo nei film che l'hanno reso grande, come i capolavori della Hammer diretti da Terence Fisher (Dracula il vampiro su tutti) e come quell'affascinante affresco orrorifico filosofico che è The Wicker Man, film da lui prediletto. Un film che chiunque pensi che Christopher Lee sia un attore dal registro espressivo limitato dovrebbe vedere per capire quanto sia sbagliato questo preconcetto. Ed è bello pensare che Lee sia vissuto abbastanza a lungo da interpretare, sia pure in un semplice cameo a causa di un contrattempo di salute, The Wicker Tree, il seguito di quel film girato quasi quarant'anni dopo, nel 2011, dal regista originario Robin Hardy. Che si tratti di un seguito tutto sommato deludente, non importa. Certe volte anche la sola possibilità di riprendere un discorso è importante.
Christopher Lee non era solo un grande attore. Come Cushing, ma anche prima di lui, ha dimostrato notevoli capacità di scrittore, scrivendo un'autobiografia ripresa in mano negli anni con varie integrazioni. All'inizio si chiamava Tall, Dark and Gruesome, poi Lord of Misrule. Anche questa, purtroppo, non è stata mai tradotta in italiano, ma vi invito a leggerla perché è divertente, avvincente e, in qualche misura (nella misura consentita dalla riservatezza britannica), rivelatrice.
Nel mio piccolo, anch'io, qualche anno fa, ho reso omaggio all'attore con un saggio dedicato a lui e alla sua interazione con Terence Fisher e Christopher Lee, pubblicato all'interno del volume collettivo curato da Fabio Zanello e intitolato Christopher Lee, il principe delle tenebre (Profondo Rosso). Un libro in italiano che mi sento di consigliare a chi voglia approfondire la figura di Lee (e Cushing) è Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle Books).
Ma soprattutto guardate i suoi film, è il modo migliore per ricordarlo.
Internet Movie Data Base gli accredita quasi 300 interpretazioni, un numero impressionante che rende l'idea del suo attivismo, della sua voglia di recitare e del piacere che evidentemente provava nel farlo, pur non avendone la necessità nemmeno dal punto di vista artistico avendo già da molto dimostrato tutto quello che c'era da dimostrare.
Attore sapiente e multiforme più di quanto lo spettatore normale possa immaginare, Christopher Lee si è costruito con grande determinazione una carriera eccezionale, sapendo operare nel tempo delle scelte anche radicali che al momento potevano sembrare controproducenti, ma che invece dimostravano come fosse sempre perfetamente al timone della sua barca. Come la scelta di abbandonare, con qualche ritorno anche magari frequente, l'horror di cui era uno dei principi incontrastati. Oppure - e la cosa è collegata - quella di abbandonare il personaggio di Dracula, insoddisfatto del trattamento che gli era stato riservato. Diversamente dal suo grande amico Peter Cushing, Lee ha cercato subito di dare un'impronta internazionale e quanto più possibile varia alla sua carriera e ai ruoli. Ha vagato per cinematografie di molte nazioni - Italia compresa, dove lo si ricorda in molti horror ma anche in film comici come Tempi duri per i vampiri con Rascel e, molti anni dopo, L'avaro con Sordi - cercando di affrancarsi da una tipizzazione che gli sembrava riduttiva. Cercando e riuscendoci, come dimostra la mole di ruoli caratterizzanti che ha interpretato nel corso degli anni, senza alcuna connessione con l'horror: dallo Scaramanga del bondiano L'uomo dalla pistola d'oro al Saruman della saga de Il signore degli anelli al conte Dooku di Star Wars.
Ma mi piace ricordarlo nei film che l'hanno reso grande, come i capolavori della Hammer diretti da Terence Fisher (Dracula il vampiro su tutti) e come quell'affascinante affresco orrorifico filosofico che è The Wicker Man, film da lui prediletto. Un film che chiunque pensi che Christopher Lee sia un attore dal registro espressivo limitato dovrebbe vedere per capire quanto sia sbagliato questo preconcetto. Ed è bello pensare che Lee sia vissuto abbastanza a lungo da interpretare, sia pure in un semplice cameo a causa di un contrattempo di salute, The Wicker Tree, il seguito di quel film girato quasi quarant'anni dopo, nel 2011, dal regista originario Robin Hardy. Che si tratti di un seguito tutto sommato deludente, non importa. Certe volte anche la sola possibilità di riprendere un discorso è importante.
Christopher Lee non era solo un grande attore. Come Cushing, ma anche prima di lui, ha dimostrato notevoli capacità di scrittore, scrivendo un'autobiografia ripresa in mano negli anni con varie integrazioni. All'inizio si chiamava Tall, Dark and Gruesome, poi Lord of Misrule. Anche questa, purtroppo, non è stata mai tradotta in italiano, ma vi invito a leggerla perché è divertente, avvincente e, in qualche misura (nella misura consentita dalla riservatezza britannica), rivelatrice.
Nel mio piccolo, anch'io, qualche anno fa, ho reso omaggio all'attore con un saggio dedicato a lui e alla sua interazione con Terence Fisher e Christopher Lee, pubblicato all'interno del volume collettivo curato da Fabio Zanello e intitolato Christopher Lee, il principe delle tenebre (Profondo Rosso). Un libro in italiano che mi sento di consigliare a chi voglia approfondire la figura di Lee (e Cushing) è Peter & Chris - I dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle Books).
Ma soprattutto guardate i suoi film, è il modo migliore per ricordarlo.
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lunedì 8 giugno 2015
Il cinema dell’eccesso (CRAC Edizioni): cosa c’è dentro. Cap. 4 PaulNaschy/Jacinto Molina
Proseguo nell’opera di presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni) e, dopo i primi tre capitoli dedicati a Pete Walker, Jean Rollin e Jesus Franco, tocca al protagonista del quarto capitolo, vale a dire Paul Naschy/Jacinto Molina.
Si tratta della stessa persona, naturalmente. Jacinto Molina è il suo vero nome, usato per firmare sceneggiature e regie, mentre Paul Naschy è lo pseudonimo utilizzato per il suo mestiere di attore. Chi conosce Paul Naschy, generalmente lo ricorda come il licantropo Waldemar Daninsky, reincarnazione - con enfasi sul melodramma - del personaggio di Larry Talbot portato al successo da Lon Chaney jr ne L’uomo lupo, il prototipo dei film sui lupi mannari. E difatti quando Jacinto Molina propose la sua idea di fare un film sui licantropi nella Spagna degli anni ‘60 la sua speranza era di convincere Chaney a esserne il protagonista. Età e salute malferma impedirono alla vecchia gloria hollywoodiana di essere della partita e allora Molina assunse il nome di Naschy e interpretò lui stesso la parte, cambiando per sempre la sua vita.
Melodramma, si diceva. Ma soprattutto exploitation, perché i film di Naschy come attore sono quasi sempre horror ad alto tasso di sesso e violenza (tra i titoli usciti anche in Italia si possono ricordare Le messe nere della contessa Dracula, I diabolici amori di Nosferatu, Il licantropo e lo yeti, Gli occhi azzurri della bambola rotta, Il mostro dell’obitorio, L’orgia dei morti e via discorrendo). Considerato da molti come una pallida imitazione sottocosto dei suoi idoli d’oltre oceano, Naschy ha percorso con notevole dignità - e anche con alcuni evidenti limiti - un tragitto non facile attraverso svariati decenni di cinema di genere. Pur non trascurando di contestualizzare la sua attività di attore, nel libro mi concentro soprattutto sulla sua attività come regista. Come Jacinto Molina, quindi.
Curiosamente, nessuna delle sue regie risulta edita in Italia ed è un peccato perché si tratta spesso di film interessanti, più di talvolta molto diversi, pur restando in un ambito di horror exploitativo, da quelli che Molina era solito interpretare. Passarli in rassegna e cogliere la sua parabola autoriale è perciò un viaggio significativo nella sua personalità e nelle sue predisposizioni e capacità. Tra i titoli più interessanti posso ricordare - ma chi leggerà il libro avrà modo di avere un quadro d’insieme molto dettagliato - Inquisición con Daniela Giordano (indimenticabile diva dell'exploitation italiana) in notevole evidenza, il cupissimo thriller d’epoca El huerto del Francés, la commedia satirica Madrid al desnudo, l’horror demoniaco-filosofico El caminante o il bronsoniano La noche del ejecutor. Per non parlare del curioso peplum Los cantabros. Ma sono tutti - quelli citati qui sopra e gli altri per i cui titoli rimando al libro - film diversi tra loro, spesso originali, testimonianze di un’irrequietezza creativa che non ci si sarebbe aspettati da un divo dell’horror minore.
Rispetto all'articolo della serie Kings of Exploitation uscito su Segnocinema nell'ormai lontano 2006, il capitolo si occupa anche di film che all'epoca non era stato possibile reperire (come il citato Los cantabros o l'incredibile Mi amigo el vagabundo e altri ancora) o che non erano ancora usciti come l'inaspettata ultima regia di Molina, Empusa, un horror che riprende e rielabora sue vecchie tematiche in un compendio crepuscolare ma per nulla depresso o deprimente.
Oltre al mio libro, mi sento anche di consigliare, per chi voglia approfondire la conoscenza della persona, la lettura dell’autobiografia di Paul Naschy, Memoirs of a Wolfman.
Si tratta della stessa persona, naturalmente. Jacinto Molina è il suo vero nome, usato per firmare sceneggiature e regie, mentre Paul Naschy è lo pseudonimo utilizzato per il suo mestiere di attore. Chi conosce Paul Naschy, generalmente lo ricorda come il licantropo Waldemar Daninsky, reincarnazione - con enfasi sul melodramma - del personaggio di Larry Talbot portato al successo da Lon Chaney jr ne L’uomo lupo, il prototipo dei film sui lupi mannari. E difatti quando Jacinto Molina propose la sua idea di fare un film sui licantropi nella Spagna degli anni ‘60 la sua speranza era di convincere Chaney a esserne il protagonista. Età e salute malferma impedirono alla vecchia gloria hollywoodiana di essere della partita e allora Molina assunse il nome di Naschy e interpretò lui stesso la parte, cambiando per sempre la sua vita.
Melodramma, si diceva. Ma soprattutto exploitation, perché i film di Naschy come attore sono quasi sempre horror ad alto tasso di sesso e violenza (tra i titoli usciti anche in Italia si possono ricordare Le messe nere della contessa Dracula, I diabolici amori di Nosferatu, Il licantropo e lo yeti, Gli occhi azzurri della bambola rotta, Il mostro dell’obitorio, L’orgia dei morti e via discorrendo). Considerato da molti come una pallida imitazione sottocosto dei suoi idoli d’oltre oceano, Naschy ha percorso con notevole dignità - e anche con alcuni evidenti limiti - un tragitto non facile attraverso svariati decenni di cinema di genere. Pur non trascurando di contestualizzare la sua attività di attore, nel libro mi concentro soprattutto sulla sua attività come regista. Come Jacinto Molina, quindi.
Curiosamente, nessuna delle sue regie risulta edita in Italia ed è un peccato perché si tratta spesso di film interessanti, più di talvolta molto diversi, pur restando in un ambito di horror exploitativo, da quelli che Molina era solito interpretare. Passarli in rassegna e cogliere la sua parabola autoriale è perciò un viaggio significativo nella sua personalità e nelle sue predisposizioni e capacità. Tra i titoli più interessanti posso ricordare - ma chi leggerà il libro avrà modo di avere un quadro d’insieme molto dettagliato - Inquisición con Daniela Giordano (indimenticabile diva dell'exploitation italiana) in notevole evidenza, il cupissimo thriller d’epoca El huerto del Francés, la commedia satirica Madrid al desnudo, l’horror demoniaco-filosofico El caminante o il bronsoniano La noche del ejecutor. Per non parlare del curioso peplum Los cantabros. Ma sono tutti - quelli citati qui sopra e gli altri per i cui titoli rimando al libro - film diversi tra loro, spesso originali, testimonianze di un’irrequietezza creativa che non ci si sarebbe aspettati da un divo dell’horror minore.
Rispetto all'articolo della serie Kings of Exploitation uscito su Segnocinema nell'ormai lontano 2006, il capitolo si occupa anche di film che all'epoca non era stato possibile reperire (come il citato Los cantabros o l'incredibile Mi amigo el vagabundo e altri ancora) o che non erano ancora usciti come l'inaspettata ultima regia di Molina, Empusa, un horror che riprende e rielabora sue vecchie tematiche in un compendio crepuscolare ma per nulla depresso o deprimente.
Oltre al mio libro, mi sento anche di consigliare, per chi voglia approfondire la conoscenza della persona, la lettura dell’autobiografia di Paul Naschy, Memoirs of a Wolfman.
giovedì 4 giugno 2015
Insidious 3 - L'inizio
Per trovare un'altra attrice di una certa età trovatasi di punto in bianco a diventare una icona dell'horror bisogna risalire ai tempi dell'indimenticabile Sheila Keith. Lin Shaye, diversamente da lei, però tende a essere dalla parte dei buoni (con qualche eccezione, naturalmente), una sorta di versione femminile del Van Helsing di Peter Cushing, con la stessa determinazione nei momenti topici. Difficile che la franchise di Insidious possa farne a meno, nonostante il suo personaggio sia in effetti morto.
Difatti, non ne fa a meno neanche in questo terzo capitolo, un prequel, che da noi si intitola Insidious 3 - L'inizio, è l'esordio alla regia di Leigh Whannell ed è uscito ieri nelle sale. Per leggere la mia recensione per MYmovies, non avete che da cliccare qui e sarete catapultati là, dove, se volete, potrete soffermarvi anche per altre cose cinematografiche.
Qui sopra Lin Shaye e Stefanie Scott in due separate immagini dal film.
Dei primi due film ho parlato qui e qui.
Difatti, non ne fa a meno neanche in questo terzo capitolo, un prequel, che da noi si intitola Insidious 3 - L'inizio, è l'esordio alla regia di Leigh Whannell ed è uscito ieri nelle sale. Per leggere la mia recensione per MYmovies, non avete che da cliccare qui e sarete catapultati là, dove, se volete, potrete soffermarvi anche per altre cose cinematografiche.
Qui sopra Lin Shaye e Stefanie Scott in due separate immagini dal film.
Dei primi due film ho parlato qui e qui.
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