Come due anni fa e l’anno scorso, ecco la classifica degli incassi cinematografici dei film horror che sono comparsi nella Top 100 che potete trovare nella sua interezza qui, nel sito di MyMovies. La posizione tra parentesi è appunto quella che i singoli film occupano nella classifica generale, mentre quella non tra parentesi - come i più intuitivi possono immaginare anche senza che lo dica - è la posizione nella classifica che riguarda solo gli horror. La classifica riguarda la stagione cinematografica appena finita, iniziata nell’agosto 2011 e terminata nel luglio 2012:
1 (6) The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1 15.706.206
2 (24) Dark Shadows 6.714.212
3 (76) Underworld - Il risveglio 3D 2.133.495
4 (77) Insidious 2.097.613
5 (81) L’altra faccia del diavolo 2.057.225
6 (87) Final Destination 5 1.847.524
7 (92) La leggenda del cacciatore di vampiri 1.650.170
In una progressiva rarefazione dei titoli horror, questa volta ne compaiono solo sette nei primi cento incassi, una percentuale al minimo sindacale e anche la composizione non è di quelle che fa ben sperare per la salute del genere. Il primo posto va all’ennesimo episodio di una saga di successo che ha l’horror solo come componente, ma che vede come elemento attrattivo il sentimentalismo, il romance, come dicono gli americani. Che piaccia o no, è questo che passa il convento e attira molti. Dark Shadows è l’ennesima rielaborazione burtoniana di qualcosa di preesistente, in questo caso una soap opera horror vampiresca (ma c’era anche un licantropo, dei fantasmi e così via) che ebbe un buon successo negli anni Sessanta e lanciò (non saprei dire dove, però) soprattutto il bravo Jonathan Frid (recentemente scomparso) nella parte del vampiro Barnabas Collins. Dalla soap opera vennero tratti anche due film: il primo, La casa dei vampiri, vedeva Frid/Barnabas in grande spolvero come protagonista assoluto (e aveva anche una trama interessante e innovativa per l’epoca), mentre il secondo, La casa delle ombre maledette, era assolutamente Barnabas-free e anche un tantino noiosetto (di entrambi ho scritto nel Dizionario dei film horror, ovviamente). La soap opera ebbe poi un revival negli anni Novanta con nientemeno che Barbara Steele tra i protagonisti, ma il successo non arrise all’iniziativa. Al film di Burton non è andata molto bene complessivamente al box office (in relazione al budget sontuoso di 150 milioni di dollari), ma in Italia se l’è cavata. Poi ci sono i consueti episodi di franchise che hanno già tentato in passato o quest’anno l’ormai sfiatata carta del 3-D, il consueto esorcistico e una rivisitazione della ghost story che prometteva un miglior esito, non solo dal punto di vista commerciale. La sola relativa novità, per l’impiego distonico di un famoso personaggio della storia, è il film su Abramo Lincoln: un po’ poco per poter parlare di un rinnovamento dell’horror.
Ma come al solito, il meglio non va in classifica e, spesso, non viene neanche distribuito nelle sale.
giovedì 27 settembre 2012
venerdì 21 settembre 2012
Bob Dylan - Tempest. Una recensione.
Se c’è qualcosa che colpisce in modo particolare nella nuova fase della carriera di Bob Dylan, quella che è partita con l’album di uno dei suoi vari “ritorni” (Time Out of Mind), è che, diversamente da altre reliquie (qualcuno direbbe relitti) del cosiddetto rock, Dylan ha prodotto delle opere modernamente antiche, pienamente aderenti all’età di chi le ha scritte e realizzate senza aver paura di invecchiare, ma anzi traendone spunto per nuove riflessioni, non sempre, bisogna dirlo, ottimistiche. Ma del resto, come ho sentito dire da un tizio al mercato della frutta qualche giorno fa, “la vecchiaia non è per niente bella, ma l’alternativa è peggiore”. Però, dopo Time Out of Mind, che oggettivamente è un album amaramente introspettivo che affronta (anche) proprio il tema dell'invecchiare, il tono dei successivi si era prevalentemente alleggerito e Dylan era sembrato in qualche modo pacificato con se stesso, capace di una saggezza relativamente serena che traspariva anche da canzoni fortemente critiche come Workingman's Blues # 2 o Mississippi. Capace di un album quasi leggero come Together Through Life e di un altro addirittura bonario come Christmas in the Heart. Poco lasciava prevedere un disco come Tempest, addirittura spietato, cupo, tremendo nelle sue visioni, difficile da accettare, ma anche per questo tra i migliori di Dylan. Inutile fare classifiche, ma la desolata visione del mondo che traspare da Tempest è ricca di umori, di frasi memorabili, di carne e sangue e appartiene al Dylan capace di incidere chirurgicamente nella realtà di una società così ingiusta da essere al di là di ogni redenzione che non sia individuale. Questo disco è oltre il pessimismo, contiene la rabbia di chi sente montare la violenza nell’ambiente che lo circonda e se ne sente già contagiato. Da qualche parte sul web ho letto che qualcuno ha paragonato l’ambiente nel quale "vivono" le canzoni di questo disco a quello che Dylan aveva immaginato per Masked & Anonymous, il film del 2003 cui ho dedicato un capitolo del mio libro Il cinema di Bob Dylan. Trovo che sia un’osservazione giusta: anche in quel film c’è lo sconcerto di chi osserva una società che non è più possibile capire, in cui nulla funziona più e in cui non ci sono valori salvifici, se mai ce ne sono stati. Proprio come nell’immaginaria Scarlet Town (ogni riferimento a Barbara Allen, Sweet William compreso, è naturalmente del tutto voluto), cupissima cittadina i nomi delle cui strade nessuno può pronunciare.
Come a fare da tramite tra i dischi che l’hanno preceduto e ciò che, con una forte soluzione di continuità, è contenuto in questo, Tempest si apre con Duquesne Whistle, un brano - forse l’unico - brillante e ritmato, deliziosamente rétro, che avrebbe potuto far parte di "Love & Theft" o di Together Through Life, ma che è stato accompagnato da un video - ne ho parlato qui - che invece raffigura il tipo di ambiente che compare nelle canzoni successive. La progressione verso gli inferi è leggera e la successiva Soon After Midnight appare come una deliziosa canzone d’amore in cui però si parla marginalmente di cadaveri nel fango e di pranzi nel sangue. Ma questa canzone è anche utile per trattare l’argomento - sempre più spinoso - della voce di Dylan. Questo è forse il primo disco in studio dove la voce appare stracciata e gracchiante proprio come nei concerti, a testimonianza di un deterioramento che procede spedito come il Duquesne. Ma in Soon After Midnight, la voce riesce ancora a essere quasi integra, carezzevole come si conviene, a dimostrazione che non tutto è perduto. Dylan comunque conosce lo stato della sua voce e agisce di conseguenza. Detto questo la domanda che sorge spontanea è: come è la voce all’ascolto? Perfettamente adatta al materiale, direi. La sofferenza e l’amara cattiveria, la world-weariness che i testi trasmettono, sono ben serviti e amplificati dalla voce rotta e usurata. Usurata come tutto ciò che c’era di buono.
Narrow Way è fluviale, bluesata, con la sua ammirevole quota di versi memorabili, da “This is hard country to stay alive in/Blades are everywhere, and they’re breaking my skin” a “Your father left you, your mother too/Even death has washed its hands of you”. Ma è con Long and Wasted Years che entriamo nel territorio dei capolavori assoluti. Contrariamente alle canzoni di questo disco, è breve, sintetica, ma ricchissima di significati e spunti. Appartiene alla categoria di canzoni d’amore che solo Dylan è stato capace di creare. Meglio, più che canzoni d’amore, canzoni sulla relazione di coppia. Il modo di cantarla richiama alla mente il parlato/cantato di Brownsville Girl, anche questo un marchio di fabbrica dylaniano. E che cosa si può dire di una canzone che termina così: “So much for tears/So much for these long and wasted years”? La melodia è accattivante e straziante al tempo stesso, perfettamente in linea con il contenuto dei versi.
Con Pay in Blood scendiamo in pieno negli inferi di un mondo violento, descritto con partecipazione, sarcasmo e la sana cattiveria di chi ha capito come vanno le cose e non cerca più di contrastarle (ancora, qualcuno ricorda il finale di Masked & Anonymous?). Pago col sangue, ma non col mio: si può immaginare una frase più hard-boiled? Da Hammett a Mickey Spillane, attraverso la lente dylaniana che tutto trasfigura: una delle canzoni simbolo di questo album.
Scarlet Town è un’altra delle vette assolute di questo album. Sulfurea rivisitazione della tradizione folk e, come ho ricordato sopra, in particolare di Barbara Allen, più volte cantata da Dylan in concerto, è però tutt’altra cosa: è la descrizione di un altro tipo di inferno, un inferno nel quale tutti viviamo, dove - ed è significativo - “Help comes, but it comes too late”. Troppo tardi, è sempre troppo tardi. L’andamento mesto e la melodia avvolgente sono ipnotici, mentre le parole si srotolano in una metafora dell’esistenza: “In Scarlet town, the end is near”.
Early Roman Kings, uno dei brani che si era potuto sentire con un largo anticipo, è ben poco rappresentativo dell’album nel suo complesso, ma ci sta bene al suo interno, con i suoi testi taglienti e spavaldi, su una base blues che sarà anche, come dicono molti (ma su questo si legga l’intervista che Dylan ha rilasciato a Rolling Stone: intervista, aggiungo, nella quale parla anche di Masked & Anonymous!), basata sul riff di I’m a Man o Mannish Boy, ma che si rifà anche e soprattutto a un format blues strausato e largamente tradizionale.
Tin Angel è il curioso tentativo di scrivere un murder ballad moderna, raccontando un funereo triangolo amoroso nel quale tutti perdono, non solo la vita. Come capita a praticamente tutti i brani di questo disco, la musica è un tappeto sonoro quasi monolitico, accattivante ma ripetitivo, che serve a supportare un fiume di parole che cattura e trasporta, lasciando ritrovare a Dylan una vena narrativa che sembrava perduta.
La stessa vena narrativa è predominante in Tempest, la canzone sul Titanic di cui si è favoleggiato a lungo. Il gradevolissimo andamento a valzerone richiama Sad-Eyed Lady of the Lowlands (che però musicalmente era assai più ricca), mentre la folla di personaggi che si agita nel cuore del disastro non può che ricordare Desolation Row. Qui Dylan ritrova il modo di narrare che gli è proprio: per dettagli, a formare un quadro generale sfuggente, che sfugge sempre più maggiori sono i dettagli che vengono forniti. Come avveniva in Brownsville Girl o in diverse canzoni di Blood on the Tracks (e diversamente da come avveniva in Desire, dove la collaborazione di Jacques Levy dava una coerenza più tradizionale al racconto). Considerare l’affondamento del Titanic una metafora del disastro dell’ambizione umana è persino banale e Dylan sfugge a questa semplificazione. Caotico e devastante, Tempest è il ritratto di una moltitudine di fronte alla morte, dei diversi modi di morire e della sostanziale indifferenza del fato di fronte ai diversi comportamenti, ma dell’importanza che essi rivestono nei confronti dei singoli che li hanno adottati. Sullo sfondo di questo riscatto o mancato riscatto individuale sta l’incapacità di comprendere le ragioni del nostro destino: “They waited at the landing/And they tried to understand/But there is no understanding/For the judgement of God’s hand”.
L’ultimo brano è Roll On John, dedicato a John Lennon. Certo che quando Dylan scrive qualcosa su qualcuno che è morto ce ne mette di tempo, viene da pensare. Per Lenny Bruce ci sono voluti 15 anni, per Lennon addirittura 32. Questo dà il senso del tempo di Dylan e del fatto che non fa mai le cose che ti aspetti che faccia. Alzi la mano chi pensava che avrebbe scritto qualcosa su Lennon dopo tutti questi anni. Detto questo, per quanto sia un buon brano, è forse tra i meno significativi del disco, immerso in una sincera agiografia che deriva senz’altro dall'amicizia e ammirazione reciproca, ma pur evocando immagini inquiete e affascinanti, ha qualche caduta nel banale. Nel testo non mancano citazioni da Lennon e a questo proposito e alle polemiche che ci sono state negli ultimi anni per l’uso da parte di Dylan di frasi di altri autori nelle sue canzoni c’è da rilevare che, dato che tutti conoscono le canzoni dei Beatles, nessuno ha pensato che Dylan avesse voluto appropriarsene, mentre l’atteggiamento era stato diverso con - per fare un nome - Henry Timrod. Questo significa solo - come ha notato qualcuno - che Dylan ha letture molto più sofisticate delle nostre...
In conclusione, è un disco imperdibile e inaspettato perché ancora una volta Dylan ha saputo rinnovarsi e non ripetersi, riuscendo a cavare dal cappello un coniglio nuovo e stupefacente.
Per chi è riuscito ad arrivare sin qui, segnalo un’altra recensione che ho trovato molto interessante e che vi invito a leggere: è quella di Alessandro Carrera e la potete leggere qui (scorrendo sino al 19 settembre), sull’ottimo sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm.
La foto qui sopra è tratta dal foglietto interno del disco, mentre segnalo che nell'edizione deluxe è contenuto un notebook con la riproduzione di parecchie copertine dedicate a Dylan dai periodici di svariati paesi negli anni Sessanta e Settanta: tra queste anche un paio di copertine di Ciao Amici, per chi si ricorda di questa rivista "giovane" (io sì).
Come a fare da tramite tra i dischi che l’hanno preceduto e ciò che, con una forte soluzione di continuità, è contenuto in questo, Tempest si apre con Duquesne Whistle, un brano - forse l’unico - brillante e ritmato, deliziosamente rétro, che avrebbe potuto far parte di "Love & Theft" o di Together Through Life, ma che è stato accompagnato da un video - ne ho parlato qui - che invece raffigura il tipo di ambiente che compare nelle canzoni successive. La progressione verso gli inferi è leggera e la successiva Soon After Midnight appare come una deliziosa canzone d’amore in cui però si parla marginalmente di cadaveri nel fango e di pranzi nel sangue. Ma questa canzone è anche utile per trattare l’argomento - sempre più spinoso - della voce di Dylan. Questo è forse il primo disco in studio dove la voce appare stracciata e gracchiante proprio come nei concerti, a testimonianza di un deterioramento che procede spedito come il Duquesne. Ma in Soon After Midnight, la voce riesce ancora a essere quasi integra, carezzevole come si conviene, a dimostrazione che non tutto è perduto. Dylan comunque conosce lo stato della sua voce e agisce di conseguenza. Detto questo la domanda che sorge spontanea è: come è la voce all’ascolto? Perfettamente adatta al materiale, direi. La sofferenza e l’amara cattiveria, la world-weariness che i testi trasmettono, sono ben serviti e amplificati dalla voce rotta e usurata. Usurata come tutto ciò che c’era di buono.
Narrow Way è fluviale, bluesata, con la sua ammirevole quota di versi memorabili, da “This is hard country to stay alive in/Blades are everywhere, and they’re breaking my skin” a “Your father left you, your mother too/Even death has washed its hands of you”. Ma è con Long and Wasted Years che entriamo nel territorio dei capolavori assoluti. Contrariamente alle canzoni di questo disco, è breve, sintetica, ma ricchissima di significati e spunti. Appartiene alla categoria di canzoni d’amore che solo Dylan è stato capace di creare. Meglio, più che canzoni d’amore, canzoni sulla relazione di coppia. Il modo di cantarla richiama alla mente il parlato/cantato di Brownsville Girl, anche questo un marchio di fabbrica dylaniano. E che cosa si può dire di una canzone che termina così: “So much for tears/So much for these long and wasted years”? La melodia è accattivante e straziante al tempo stesso, perfettamente in linea con il contenuto dei versi.
Con Pay in Blood scendiamo in pieno negli inferi di un mondo violento, descritto con partecipazione, sarcasmo e la sana cattiveria di chi ha capito come vanno le cose e non cerca più di contrastarle (ancora, qualcuno ricorda il finale di Masked & Anonymous?). Pago col sangue, ma non col mio: si può immaginare una frase più hard-boiled? Da Hammett a Mickey Spillane, attraverso la lente dylaniana che tutto trasfigura: una delle canzoni simbolo di questo album.
Scarlet Town è un’altra delle vette assolute di questo album. Sulfurea rivisitazione della tradizione folk e, come ho ricordato sopra, in particolare di Barbara Allen, più volte cantata da Dylan in concerto, è però tutt’altra cosa: è la descrizione di un altro tipo di inferno, un inferno nel quale tutti viviamo, dove - ed è significativo - “Help comes, but it comes too late”. Troppo tardi, è sempre troppo tardi. L’andamento mesto e la melodia avvolgente sono ipnotici, mentre le parole si srotolano in una metafora dell’esistenza: “In Scarlet town, the end is near”.
Early Roman Kings, uno dei brani che si era potuto sentire con un largo anticipo, è ben poco rappresentativo dell’album nel suo complesso, ma ci sta bene al suo interno, con i suoi testi taglienti e spavaldi, su una base blues che sarà anche, come dicono molti (ma su questo si legga l’intervista che Dylan ha rilasciato a Rolling Stone: intervista, aggiungo, nella quale parla anche di Masked & Anonymous!), basata sul riff di I’m a Man o Mannish Boy, ma che si rifà anche e soprattutto a un format blues strausato e largamente tradizionale.
Tin Angel è il curioso tentativo di scrivere un murder ballad moderna, raccontando un funereo triangolo amoroso nel quale tutti perdono, non solo la vita. Come capita a praticamente tutti i brani di questo disco, la musica è un tappeto sonoro quasi monolitico, accattivante ma ripetitivo, che serve a supportare un fiume di parole che cattura e trasporta, lasciando ritrovare a Dylan una vena narrativa che sembrava perduta.
La stessa vena narrativa è predominante in Tempest, la canzone sul Titanic di cui si è favoleggiato a lungo. Il gradevolissimo andamento a valzerone richiama Sad-Eyed Lady of the Lowlands (che però musicalmente era assai più ricca), mentre la folla di personaggi che si agita nel cuore del disastro non può che ricordare Desolation Row. Qui Dylan ritrova il modo di narrare che gli è proprio: per dettagli, a formare un quadro generale sfuggente, che sfugge sempre più maggiori sono i dettagli che vengono forniti. Come avveniva in Brownsville Girl o in diverse canzoni di Blood on the Tracks (e diversamente da come avveniva in Desire, dove la collaborazione di Jacques Levy dava una coerenza più tradizionale al racconto). Considerare l’affondamento del Titanic una metafora del disastro dell’ambizione umana è persino banale e Dylan sfugge a questa semplificazione. Caotico e devastante, Tempest è il ritratto di una moltitudine di fronte alla morte, dei diversi modi di morire e della sostanziale indifferenza del fato di fronte ai diversi comportamenti, ma dell’importanza che essi rivestono nei confronti dei singoli che li hanno adottati. Sullo sfondo di questo riscatto o mancato riscatto individuale sta l’incapacità di comprendere le ragioni del nostro destino: “They waited at the landing/And they tried to understand/But there is no understanding/For the judgement of God’s hand”.
L’ultimo brano è Roll On John, dedicato a John Lennon. Certo che quando Dylan scrive qualcosa su qualcuno che è morto ce ne mette di tempo, viene da pensare. Per Lenny Bruce ci sono voluti 15 anni, per Lennon addirittura 32. Questo dà il senso del tempo di Dylan e del fatto che non fa mai le cose che ti aspetti che faccia. Alzi la mano chi pensava che avrebbe scritto qualcosa su Lennon dopo tutti questi anni. Detto questo, per quanto sia un buon brano, è forse tra i meno significativi del disco, immerso in una sincera agiografia che deriva senz’altro dall'amicizia e ammirazione reciproca, ma pur evocando immagini inquiete e affascinanti, ha qualche caduta nel banale. Nel testo non mancano citazioni da Lennon e a questo proposito e alle polemiche che ci sono state negli ultimi anni per l’uso da parte di Dylan di frasi di altri autori nelle sue canzoni c’è da rilevare che, dato che tutti conoscono le canzoni dei Beatles, nessuno ha pensato che Dylan avesse voluto appropriarsene, mentre l’atteggiamento era stato diverso con - per fare un nome - Henry Timrod. Questo significa solo - come ha notato qualcuno - che Dylan ha letture molto più sofisticate delle nostre...
In conclusione, è un disco imperdibile e inaspettato perché ancora una volta Dylan ha saputo rinnovarsi e non ripetersi, riuscendo a cavare dal cappello un coniglio nuovo e stupefacente.
Per chi è riuscito ad arrivare sin qui, segnalo un’altra recensione che ho trovato molto interessante e che vi invito a leggere: è quella di Alessandro Carrera e la potete leggere qui (scorrendo sino al 19 settembre), sull’ottimo sito italiano dedicato a Dylan, Maggie’s Farm.
La foto qui sopra è tratta dal foglietto interno del disco, mentre segnalo che nell'edizione deluxe è contenuto un notebook con la riproduzione di parecchie copertine dedicate a Dylan dai periodici di svariati paesi negli anni Sessanta e Settanta: tra queste anche un paio di copertine di Ciao Amici, per chi si ricorda di questa rivista "giovane" (io sì).
sabato 8 settembre 2012
Dead Snow
I nazi-zombie del norvegese Tommy Wirkola sono quello che ci vuole per un divertimento sano e spensierato per gente che non si preoccupa se gli vengono versate addosso secchiate di splatter e di violenza iper realistica e quasi comica. Il film è Dead Snow e ne ho scritto la recensione per MyMovies: la trovate qui. Anche in questo caso buona lettura.
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La casa muta
Negli ultimi tempi - ma anche prima (basti pensare a film come Daughter of Horror a.k.a. Dementia) - ci sono sempre più spesso film horror che basano la loro stessa esistenza su qualche ricerca stilistica particolare e si differenziano proprio per quella, ricevendo attenzione di conseguenza. Possono essere film belli o brutti, ma è la loro modalità stilistica a caratterizzarli in modo assoluto. I reality horror alla Paranormal Activity (per citare un solo titolo tra i tanti) sono tra questi. In un modo diverso, anche La casa muta, film uruguaiano di Gustavo Hernandez, si distingue per la scelta narrativa e di messa in scena. Ne ho scritto la recensione per MyMovies e la trovate qui. Buona lettura.
Qui sopra Florencia Colucci in una scena dal film.
Qui sopra Florencia Colucci in una scena dal film.
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giovedì 6 settembre 2012
George A. Romero su Segnocinema 177
Nel numero 177 (settembre-ottobre 2012) di Segnocinema attualmente in distribuzione nelle librerie c'è il mio consueto articolone annuale che, com'è avvenuto l'anno scorso con Terence Fisher, si occupa dei film cosiddetti "minori" di uno dei miei registi preferiti, in questo caso George A. Romero.
Più che di film minori, in effetti, meglio è definirli semplicemente "altri", cioè diversi da quelli che costituiscono il canone romeriano più comunemente celebrato e criticamente studiato, vale a dire i film con i nostri cari morti viventi.
Diversamente da Fisher, alcuni dei film che ho preso in esame hanno una loro notorietà e sono circolati con buona distribuzione (Creepshow, per esempio, ma anche Monkey Shines e altri ancora), ma comunque hanno incontrato un destino commerciale generalmente avverso e non sono stati sufficientemente compresi.
Altri, comunque, sono rimasti delle vere e proprie oscurità. Mi riferisco in particolare a There's Always Vanilla di cui, forse per primo, ho trattato diffusamente nel mio ormai stagionato articolo romeriano su Amarcord n. 17-18 (novembre 1999), quando ancora qui in Italia lo si dava generalmente come un film "perduto". E ancora, in ogni caso, attende una distribuzione italiano, almeno in dvd. Oppure Knightriders, film di assoluto interesse e di assoluta importanza per chiunque voglia comprendere la poetica di Romero.
Di tutto questo - e di altro ancora - scrivo nell'articolo in questione, che mi ha permesso di occuparmi di nuovo del buon vecchio George, in attesa, magari chissà, di dedicargli un bel librone e nella speranza che il mio articolo possa essere di spunto per qualcuno per andare a vedersi i film, scoprendo, se già non la conosce, l'altra faccia di questo poliedrico regista curiosamente conosciuto soprattutto per una sola parte della sua opera.
Oltre al mio articolo - che per sua stessa natura è imperdibile - in questo numero di Segnocinema c'è il consueto e ancor più imperdibile speciale con tutti i film dell'anno catalogati e recensiti (ho già detto che è da non perdere? Be', come dicono gli americani... don't dare to miss it! Non osate perderlo!).
Più che di film minori, in effetti, meglio è definirli semplicemente "altri", cioè diversi da quelli che costituiscono il canone romeriano più comunemente celebrato e criticamente studiato, vale a dire i film con i nostri cari morti viventi.
Diversamente da Fisher, alcuni dei film che ho preso in esame hanno una loro notorietà e sono circolati con buona distribuzione (Creepshow, per esempio, ma anche Monkey Shines e altri ancora), ma comunque hanno incontrato un destino commerciale generalmente avverso e non sono stati sufficientemente compresi.
Altri, comunque, sono rimasti delle vere e proprie oscurità. Mi riferisco in particolare a There's Always Vanilla di cui, forse per primo, ho trattato diffusamente nel mio ormai stagionato articolo romeriano su Amarcord n. 17-18 (novembre 1999), quando ancora qui in Italia lo si dava generalmente come un film "perduto". E ancora, in ogni caso, attende una distribuzione italiano, almeno in dvd. Oppure Knightriders, film di assoluto interesse e di assoluta importanza per chiunque voglia comprendere la poetica di Romero.
Di tutto questo - e di altro ancora - scrivo nell'articolo in questione, che mi ha permesso di occuparmi di nuovo del buon vecchio George, in attesa, magari chissà, di dedicargli un bel librone e nella speranza che il mio articolo possa essere di spunto per qualcuno per andare a vedersi i film, scoprendo, se già non la conosce, l'altra faccia di questo poliedrico regista curiosamente conosciuto soprattutto per una sola parte della sua opera.
Oltre al mio articolo - che per sua stessa natura è imperdibile - in questo numero di Segnocinema c'è il consueto e ancor più imperdibile speciale con tutti i film dell'anno catalogati e recensiti (ho già detto che è da non perdere? Be', come dicono gli americani... don't dare to miss it! Non osate perderlo!).
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mercoledì 5 settembre 2012
Storia del cinema horror italiano vol. 3 di Gordiano Lupi
Prosegue speditamente l’opera di sistematico riordino dell’horror italiano scritta da Gordiano Lupi: è difatti da poco uscito il terzo volume (Storia del cinema horror italiano - Da Mario Bava a Stefano Simone, Vol. 3 - Joe D'Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie, pagg. 234, Edizioni Il Foglio, 15 €), che mantiene intatto l’approccio prettamente divulgativo e si conferma perciò utile a chi voglia un quadro veloce ma sufficientemente completo del panorama orrorifico del nostro paese.
In questo volume, i protagonisti sono quattro registi assai diversi tra loro, ma tutti di rilievo: Joe D’Amato, il re dell’horror porno-erotico; Pupi Avati, noto per tutt’altro genere di film ma capace, con solo poche opere, di caratterizzare in modo indelebile l’horror italiano; Ruggero Deodato, regista di grande abilità passato alla storia dell’horror soprattutto con i suoi horror cannibalistici (Cannibal Holocaust, per quanto di sicuramente opinabile ci sia in alcune immagini di violenza sugli animali, resta un film di soprendente qualità); Umberto Lenzi, antesignano dei cannibal movies e capace di spaziare con immutata qualità nei più svariati generi (da Sandokan ai film bellici).
Le caratteristiche editoriali, pregevoli e azzeccate, restano le stesse dei volumi precedenti. La prefazione è stavolta di Roger A. Fratter, esponente di spicco della scena indie italiana.
In questo volume, i protagonisti sono quattro registi assai diversi tra loro, ma tutti di rilievo: Joe D’Amato, il re dell’horror porno-erotico; Pupi Avati, noto per tutt’altro genere di film ma capace, con solo poche opere, di caratterizzare in modo indelebile l’horror italiano; Ruggero Deodato, regista di grande abilità passato alla storia dell’horror soprattutto con i suoi horror cannibalistici (Cannibal Holocaust, per quanto di sicuramente opinabile ci sia in alcune immagini di violenza sugli animali, resta un film di soprendente qualità); Umberto Lenzi, antesignano dei cannibal movies e capace di spaziare con immutata qualità nei più svariati generi (da Sandokan ai film bellici).
Le caratteristiche editoriali, pregevoli e azzeccate, restano le stesse dei volumi precedenti. La prefazione è stavolta di Roger A. Fratter, esponente di spicco della scena indie italiana.
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