lunedì 29 aprile 2024

Carcere modello: breve storia di una breve storia

 


È in edicola (io non l’ho ancora trovato, ma dovrebbe esserci), un meritevole volumetto edito dall’Editoriale Cosmo e dedicato a Smalto & Jonny, personaggi creati da Giorgio Pezzin ai testi e Giorgio Cavazzano ai disegni. In appendice due storie “libere”, per così dire. Una di queste è Carcere modello, scritta da me e magistralmente disegnata da Giorgio Cavazzano. Questa è, in linea di massima, la prima ristampa dopo oltre trent’anni per cui mi sembra interessante raccontare la sua travagliata genesi.
    La storia di Carcere modello nasce infatti da molto lontano. La prima forma in cui si è materializzato è quella di un racconto, che ho finito di scrivere il 17 maggio 1977 ed è rimasto inedito. L’avevo proposto a The Time Machine, una fanzine padovana di fantascienza con cui ogni tanto collaboravo, ma non l’avevano voluta. Successivamente, mi resi conto che avrebbe potuto funzionare meglio come fumetto e quindi ne ho tratto una sceneggiatura, completata il 24 febbraio 1978. In quel periodo, collaboravo con Giorgio Cavazzano per alcune storie di fantascienza pubblicate sul Mago, perciò gli proposi anche quella. Gli piacque e provò a disegnarla, ma, fatti alcuni disegni preparatori, si rese conto, mi disse, di non avere il “segno” giusto per realizzarla. Mi suggerì allora di proporla a Milo Manara che, secondo lui, avrebbe potuto essere interessato per l’argomento e le tematiche sottese. Così spedii via posta, come si faceva allora, la sceneggiatura (assieme a qualche altra, credo) a Manara. Giorgio mi aveva dato il suo numero di telefono e così, dopo un certo lasso di tempo (non ricordo quanto, ma non moltissimo), gli telefonai. Il numero di telefono corrispondeva a un indirizzo del veronese, un paesino di campagna. Giorgio mi aveva avvertito che la cosa sarebbe stata un po’ particolare perché Manara non rispondeva direttamente a quel numero di telefono. Non so se non fosse il suo o se comunque lui stesse a una certa distanza, in ogni caso sapevo che poteva volerci un po’ di tempo. Al telefono, mi rispose una voce femminile che mi disse di restare in linea. Sentii i suoi passi allontanarsi, poi, dopo un certo periodo di tempo, sentii dei passi, diversi, che si avvicinavano. La cornetta fu sollevata e Milo Manara mi parlò, in prima persona. Molto gentilmente, mi disse che aveva letto le sceneggiature, ma, proprio in quel periodo, aveva preso la decisione di scriversi da solo le storie che avrebbe disegnato. Oggi, a ripensarci, spero che una tale drastica decisione Manara non l’abbia presa dopo aver letto le mie sceneggiature, come conseguenza diretta. Non mi disse se Carcere modello gli era piaciuto: era dirimente il fatto che aveva deciso di fare da sé. Lo ringraziai - era stato molto cortese - e lo salutai. Appresa la notizia, Giorgio mi disse che, se per me andava bene, avrebbe tenuto lui la sceneggiatura per vedere se, col tempo, gli veniva l’ispirazione per il segno giusto con cui disegnarla. A me andava benissimo, così gli dissi che poteva considerarla sua in esclusiva. Gli anni passarono e io ormai davo per persa la possibilità di vedere Carcere modello diventare un fumetto. Invece, nel settembre 1984, Giorgio mi telefonò: aveva trovato l’ispirazione e aveva già disegnato Carcere modello. Ma c’era di più: aveva fatto leggere la sceneggiatura - non so se prima o dopo averla disegnata, probabilmente prima, a pensarci - a Luigi Bernardi, allora curatore di Orient Express, e questi gli aveva detto che era la più bella sceneggiatura che aveva letto negli ultimi anni, o, adesso non ricordo più bene, la più bella sceneggiatura che aveva letto nell’ultimo anno o, più probabilmente, la più bella sceneggiatura che aveva letto negli ultimi cinque minuti. Insomma, gli era piaciuta. Carcere modello sarebbe stato pubblicato su Orient Express. Non solo, avremmo avuto la possibilità di creare una serie ex novo per Orient Express. Proposi a Giorgio un noir con protagonista un detective ironico e disincantato (il riferimento era il Marlowe di Elliott Gould, anche graficamente), ma hard boiled, da ambientare a Pittsburgh (ero romeriano già allora). Scrissi il soggetto, molto lungo e dettagliato, per la prima storia, dura, che toccava tematiche all’epoca assai scabrose, di un pessimismo cosmico alla Chinatown di Polanski. A Giorgio piacque e cominciò a fare i disegni preparatori (molto belli, li ricordo ancora), ma questa è un’altra storia (che naturalmente non ha portato a niente). Tornando a Carcere modello, Orient Express cessò le pubblicazioni prima di poterlo pubblicare. A quel punto, l’entusiasmo si dissolse come una bolla di sapone e rimanemmo col cerino in mano. Nel corso degli anni, Carcere modello è stato vicino alla pubblicazione più di qualche volta e ogni volta sembrava fatta: a un certo punto sembrava che sarebbe stato pubblicato in pompa magna in Francia, ma non se ne fece nulla. Sembrava certo, certissimo, anzi probabile che sarebbe stato nel primo numero di una nuova e ambiziosa rivista a fumetti, mi pare che dovesse chiamarsi Odeon o qualcosa del genere (comparve la notizia su Fumo di china, quando ancora era in formato piccolo), ma l’iniziativa si chiuse improvvisamente prima di aprirsi veramente. E ce ne sono state altre ancora: ogni volta Giorgio - era lui che si occupava di tutto, molto generosamente - mi telefonava entusiasta dicendomi: “Questa volta ci siamo”. E invece non c’eravamo mai. Gli anni passavano e io rischiavo di acquisire l’infausto titolo dello sceneggiatore dell’unica storia inedita di Giorgio Cavazzano, un disdoro che mi avrebbe inserito per sempre nell’elenco dei paria dei comics. Di punto in bianco, Giorgio mi avvertì - si era arrivati al 1990 - che Carcere modello sarebbe stato pubblicato su Fumo di china. Sì, certo, bene, risposi io, pensando che cosa sarebbe potuto succedere: che so, un asteroide che si schianta sulla sede di Fumo di china? Un po’ mi dispiacque apprendere la notizia, comunque, perché Fumo di china era l’unica rivista di critica fumettistica che usciva in edicola: vista la rogna che Carcere modello si portava addosso, pubblicarlo avrebbe di certo significato la sua repentina scomparsa e di ciò non avrei voluto essere responsabile. Ma non avevo voce in capitolo e d’altronde se l’erano voluta loro. Ma non sapevo che, come dicono gli americani, the joke was on me. Carcere modello fu finalmente pubblicato nel numero 3-4 di Fumo di china del 1990 e avrei potuto esserne contento anche se la pubblicazione avveniva a distanza di anni e in una rivista di limitata diffusione per cui era prevedibile non avrebbe avuto alcun impatto sulla mia carriera (infatti, non ne ebbe). Ma quello che inizia male non può che finire male. Mi accorsi infatti con sorpresa e con sgomento che qualcuno era intervenuto pesantemente su parte dei dialoghi. Il senso, il contenuto e il significato della storia non era possibile alterarli, ma l’ironia e l’equilibrio di alcuni dei dialoghi erano stati trasformati, in peggio secondo me. Chi l’aveva fatto? L’ho scoperto solo nei giorni scorsi quando, sempre in occasione della ristampa su Smalto & Jonny, chi l’ha fatto ha “confessato”. E ho apprezzato la cosa. Perché l’aveva fatto? Evidentemente, ritenni all’epoca (oggi, sapendo come sono andate le cose, ho una visione un po' diversa), perché pensava di saper scrivere meglio di me (il che, in astratto, è anche possibile: molti scrivono meglio di me, ma, avvedutamente, si scrivono le loro storie, non le mie). Qualcuno mi avvisò di tale massacro? No. E perché mai avrebbe dovuto? In fondo, ero solo l’autore. Così Carcere modello che avrebbe potuto essere, se fosse uscito al momento giusto e nel posto giusto, un fumetto importante nella mia storia fumettistica, è diventato, sempre nella mia storia fumettistica (se ne esiste una), un fumetto irrilevante e deludente. Preparai - e ce l’ho ancora - un file con le modifiche per ripristinare il testo originario in caso di ristampa, ma per anni il fumetto non è mai stato propriamente ristampato (se non, surrettiziamente, nel volume Percorsi dedicato a Giorgio Cavazzano: in quel volume sono state pubblicate, come illustrazioni al testo, tutte le tavole del fumetto, com’erano uscite su Fumo di china). E adesso che è stato ristampato, naturalmente non è stato possibile ripristinare il testo originario perché questo avrebbe significato riletterare il tutto con costi insostenibili. Perciò, tutto è ormai cristallizzato. Avevo pensato - e in effetti qualche tempo fa per un paio d’ore su questo blog l’avevo anche fatto (prima di cancellare il post) - di pubblicare qui il testo originale di Carcere modello per consentire a chi fosse interessato di fare una collazione (non cappuccino e brioche, ma un confronto tra i testi). Poi però mi balzata prepotentemente addosso l’evidenza che a nessuno gliene sarebbe importato qualcosa e quindi ho pensato di farne a meno e di chiuderla qui.


venerdì 19 aprile 2024

Omicidio al cimitero


Omicidio al cimitero
è il nuovo film di Stefano Simone. Come il precedente Il fantasma di Alessandro Appiani, si tratta di un giallo dai toni leggeri, improntati alla juvenile detection, con un mistero iniziale e il tortuoso procedimento deduttivo per arrivare alla sua soluzione.
Il giovane Christian (Giovanni Casalino), in visita all’isolato cimitero di un paesino pugliese, scopre nella cappella il cadavere di Ivan (Filippo Totaro), il custode. Dà subito l’allarme alle altre persone presenti, in tutto cinque: i fratelli Gabriel (Matteo Mangiacotti) e Nora (Rosella Castigliego), la ribelle Mia (Giada Latronica), il pavido Alan (Bruno Simone) e l’altezzosa Victoria (Luigia Riccardi). I telefonini non prendono, le auto con cui alcuni di loro sono arrivati al cimitero sono in panne perché qualcuno ha misteriosamente perforato i serbatoi, per cui non è possibile avvisare la polizia e non resta quindi che attendere l’arrivo del pullman per tornare in paese. Pullman che però è atteso solo dopo un’ora. Perciò, con il dubbio che l’assassino sia ancora nei pressi e che magari possa essere uno di loro, i giovani iniziano a indagare, prendendo spunto da quanto riescono a ricavare dal cellulare della vittima, che esaminano con cura.
Scritto da Roberto Lanzone, il film risente di un’impostazione un po’ teatrale, racchiusa in un unico spazio, con i dialoghi a definire non solo il procedere della storia, ma anche le caratterizzazioni dei personaggi, che si precisano un po’ alla volta, ma restano un po’ schematiche. La situazione di base è un po’ improbabile - con i protagonisti che non si preoccupano più di tanto di alterare la scena del crimine e di impossessarsi del telefonino del morto - e gli sviluppi, benché non manchi una certa arguzia nel dipanare la matassa delle indagini, si susseguono in modo piuttosto piatto, senza suscitare particolare tensione, ma insistendo soprattutto sul gioco deduttivo, con tanto di classici spiegoni davanti ai possibili colpevoli riuniti nel medesimo luogo, come nei classici del giallo di una volta. Rispetto a Il fantasma di Alessandro Appiani, manca un po’ di verve e di varietà nella messa in scena. Così il film procede senza scossoni sino alla conclusione come in un classico whodunit in cui tutto è incentrato sulla scoperta dell’omicida, sulla soluzione dell’enigma. Quando arriva, questa soluzione è apprezzabile e anche ben motivata, ma il viaggio per arrivarci non è stato particolarmente avvincente.
Il cast è volenteroso. Il più professionale è Filippo Totaro, incisivo nel ritratto del custode. Sempre appropriate e capaci di dare la giusta atmosfera le musiche di Luca Auriemma.

giovedì 18 aprile 2024

Rorret




Rorret
(noto anche come Mr. Rorret - Ad altezza d’uomo) è un film del 1988, lungometraggio d’esordio di Fulvio Wetzl, un regista dalla carriera molto varia e interessante, che si sarebbe poi dipanata in direzioni assai diverse. Si tratta di un film curioso e particolare, degno certamente di una riscoperta. Ripropongo quindi qui, opportunamente aggiornata e ampliata in seguito a una nuova visione del film, la recensione che avevo scritto parecchi anni fa per il mio Dizionario dei film horror.
Carlo Modena (Massimo Venturiello) risponde a un annuncio per un proiezionista alla nuova sala cinematografica Peeping Tom. Joseph Rorret (Lou Castel), proprietario del cinema, lo assume perché è stato l’unico tra gli aspiranti a restare nonostante lui non si fosse fatto vivo all’appuntamento e a entrare nella sala cinematografica vuota. Carlo accetta l’incarico, ma è perplesso: Rorret si comporta infatti in modo molto strano e tutta la trattativa viene svolta per telefono, dato che il misterioso datore di lavoro non vuole farsi vedere. Il cinema è specializzato in film dell’orrore e Rorret, non visto, spia le reazioni del pubblico in sala durante le scene più violente. Ma non si limita a questo: individuata in platea una donna attraente che litiga con il partner, la segue sino a casa per vedere dove abita. Poi le telefona di notte, corteggiandola. Sheila (Rossana Coggiola), la donna, dapprima è impaurita, poi ammaliata e accetta di incontrarlo. Ma Rorret, che le ha dato un nome falso, ha strane idee e non esita a metterle in pratica.
Interessante e originale riflessione sul rapporto tra l’orrore dei film e quello della realtà, presenta un personaggio centrale ambiguo e insolito che, grazie anche all’interpretazione quietamente minacciosa e carismatica  di Lou Castel, emerge con forza. Il contesto estetizzante e ricercato in cui il personaggio si muove raggela il dramma, evidenziandone nel contempo il contenuto “filosofico”. Il risultato è interessante anche se non del tutto riuscito. Il film infatti non evita una certa ripetitività delle situazioni e le motivazioni dei personaggi secondari sono talvolta poco coerenti e credibili: le donne che Rorret, non certo un affascinante conquistatore, avvicina gli aprono subito le braccia; Sara, la fidanzata di Carlo, invece diffida di Rorret oltre misura anche se questi, tutto sommato, per quanto la riguarda, s’è solo limitato a non farsi vedere. E certe figure di contorno sono macchiette poco riuscite (la mamma di Sheila, per esempio, rappresenta una digressione superflua). C’è in sostanza uno scarto qualitativo tra le scene in cui compare Rorret e quelle in cui è invece assente, che risultano talvolta un po’ banali. Ma quando Rorret è in scena - e lo è molto spesso - c’è sempre una sottile tensione che anima la vicenda e la rende genuinamente  inquietante, profonda e anche capace di affrontare in modo per nulla banale il significato della paura, una paura che respinge e al tempo stesso affascina e quindi attrae. L’iniziale viaggio sulle montagne russe è un significativo tour de force nella psicologia del protagonista che dice molto con pochissime parole. “La paura è stata bellissima. Mano a mano è cresciuta, è esplosa e si è fatta terrore” commenta quasi sorpreso di se stesso Rorret al termine del viaggio ed è quasi inutile sottolineare come di fatto molto horror sia in sostanza un vero e proprio viaggio nelle montagne russe della paura. Curiosi e riusciti anche filologicamente i film nel film, proiettati al Peeping Tom (richiamo al titolo originale de L’occhio che uccide di Michael Powell), tra cui Blood in the Shower, suggestiva rielaborazione di Psyco, e una versione proprio de L’occhio che uccide, ma non mancano riusciti richiami anche ad altri classici come Suspense (la versione di Jack Clayton dal Giro di vite di Henry James). Il gioco cinefilo che ne consegue non è per nulla fine a se stesso, ma è anzi funzionale alla storia e alla riflessione che induce. Nel finale questo gioco di specchi si fa ancora più complesso in un insieme di rimandi e citazioni sofisticato e forse un po’ troppo cerebrale. Se Lou Castel, in un ritratto da perfetto weirdo, domina incontrastato, nel cast si vedono con piacere il sempre bravo Massimo Venturiello e Anna Galiena. Notevole anche l’intensa prova di Patrizia Punzo in un ruolo cruciale. In un piccolo ruolo anche Sebastiano Somma, all’epoca divo dei fotoromanzi alle soglie di una lunga carriera tra cinema e televisione.
 

martedì 16 aprile 2024

Funérailles


Antonio Bido è un regista dalla filmografia non molto nutrita di titoli, ma molto interessante per la varietà e l’eccentricità. Nella mente dell’amante del cinema di genere rimane soprattutto impresso il dittico di thriller della seconda metà degli anni ’70 (Il gatto dagli occhi di giada e Solamente nero) che sembrava preludere a sviluppi sul medesimo solco che invece non ci sono stati, disattesi proprio dall’eccentricità del percorso autoriale di Bido, che ha preso direzioni diverse. Adesso, dopo un leggero iato di circa 45 anni, il regista padovano torna con Funérailles a occupare quel medesimo territorio narrativo, ma lo fa in modo molto diverso, cercando soprattutto di affrontare una particolare e interessante tematica cui il genere è solo strumentale. Già Solamente nero era molto più personale e autoriale nell’affrontare il “giallo” de Il gatto dagli di giada facendo capire come Bido intendesse arricchire le meccaniche del genere con umori più profondi ed esistenzialisti, se così si può dire. Funérailles rappresenta, in questo senso, dopo così tanti anni, un’ulteriore evoluzione. La storia è molto semplice, ma, come sempre, a contare sono soprattutto i dettagli e il modo di raccontarla.
Miriam Grieco (Alessandra Chieli) è un’affermata pianista che vive con difficoltà la sua storia d’amore con Andrea (Fausto Morciano), anche lui pianista, ma di categoria chiaramente inferiore. Miriam cerca di elevarlo al suo livello facendolo suonare con lei. Andrea, invece, sembra puntare soprattutto ad avere un bambino, trovando la ferma opposizione di Miriam, che assolutamente non vuole concepire un figlio. Il motivo è che preferisce seguire la sua carriera e fare quello che le piace, suonare. C’è però qualcosa di più, un trauma evidentemente non superato che proviene dal suo passato. Andrea non si rassegna e il conflitto si acuisce sempre di più sino a conseguenze drammatiche.
La ricercatezza traspare sin dal titolo che sembra fatto per lasciar subito intuire che si tratta di un film particolare, non il thriller a tutto tondo che qualcuno si sarebbe potuto aspettare dall’autore de Il gatto dagli occhi di giada. Il film infatti sfida ogni classificazione. Tracce di thriller e persino anche di horror si trovano di certo, forse più nell’estetica di certi momenti, nelle scelte espressive riguardo alla raffigurazione del dramma interiore, ma complessivamente il film è più rivolto agli aspetti psicologici della vicenda, allo sfaccettato personaggio principale e alla profonda ingiustizia che deve vivere per l’impossibilità di affermare in maniera indipendente la propria volontà e la propria scelta. È quindi soprattutto un film di introspezione che si propone di indagare nell’animo umano, scandagliando le ragioni che lo muovono o lo bloccano, nella ricerca della realizzazione e dell’appagamento, della felicità, per quanto ciò sia possibile.
Scegliere lavoro, passione e anche, sì, successo in luogo della maternità - con il conseguente tragico dilemma che sembra sempre porre come presupposto un necessario abbandono di quanto caratterizza la propria personalità, con una cosa che sembra dover escludere le altre - rappresenta il fulcro del dramma, un fardello classico, magari, per la donna, ma di certo problematico. Tutto questo dal film emerge con forza e naturalezza, pur restando in un contesto di suspense psicologica ben assicurato dalle immagini e dai risvolti anche torbidi della trama.
Strutturato abilmente in un intersecarsi tra presente e passato (in flashback raffigurati in un significativo bianco e nero), il film ci racconta come Miriam cerchi la propria strada con determinazione, ma sia condotta dall’altrui ostinazione a vivere la possibile maternità come un vero e proprio incubo nel quale si innestano gli incubi pregressi che le derivano da un fosco passato di sopraffazione dal quale non riesce a liberarsi. E non ci riesce anche perché la sopraffazione e la violenza di genere ritornano puntuali a esigere il loro prezzo anche nella sua vita di artista affermata e apparentemente al sicuro nella sua posizione privilegiata.
In questo senso è cruciale anche il personaggio del protagonista maschile, tratteggiato in modo più schematico e meno approfondito, ma comunque interessante. Vengono evidenziate la sua debolezza caratteriale e la sua mediocrità come artista, ma anche la sua ambizione, il suo desiderio di riaffermare in qualche modo la supremazia nel gioco di coppia e, soprattutto, la sua ferma determinazione a ottenere quello che vuole. E, come la quotidianità della cronaca ci insegna spesso, quando questo qualcosa gli viene negato, una certa figura di maschio ha solo un modo per ottenerlo, la violenza, e non rinuncia a impiegarlo.
Se quindi il tormentato protagonista è caratterizzato dalle sue debolezze, la figura della protagonista femminile emerge con maggiore evidenza perché la sua sofferenza deriva proprio dalla sua forza, dalla sua bravura, che lei non vuole mettere in secondo piano, ma che i dettami sociali la spingerebbero a dover trascurare.
Notevole è il grado di introspezione che rende più vero il personaggio di Miriam, anche per l’intensa prova interpretativa di Alessandra Chieli che dà credibilità al dramma dell’artista che teme di essere privata della sua ragione di vita per la costrizione a generare una vita: in questo senso, "dare la vita" è un’espressione che ben si attaglia alla situazione.
Largo spazio è dato alle visioni e agli incubi che nel trasmetterci la sensazione del tormento vissuto dalla protagonista consentono a Bido di fare sfoggio di una non comune capacità di evocare immagini quietamente spettrali di notevole forza espressiva. Il viaggio che la donna compie così all’interno di sé, nel suo passato, nei suoi tormenti, nei suoi desideri è tracciato mirabilmente senza molte parole, lasciando appropriato spazio alla forza delle immagini. La potenza evocativa di certe visioni, come quella ricorrente della giovane con la carrozzina, di stampo quasi baviano, è notevole e mostra la sapienza compositiva e la capacità di raccontare per immagini che caratterizza il film.
La violenza e le sopraffazioni gettano la loro ombra prominente sul mondo femminile. A tale proposito è anche interessante la figura della mamma, resa con simpatica e dirompente personalità dalla sempre brava Stefania Casini (che torna così a collaborare con Bido a molti anni di distanza da Solamente nero), che rappresenta il lato pienamente integrato della femminilità, condiscendente ai dettami sociali in contrapposizione a quello rappresentato da Miriam, che vorrebbe solo poter scegliere quale direzione dare alla propria vita. Poter scegliere, quindi, per molti motivi, di rifiutare la maternità anche se questo significa rifiutare il ruolo che la società vorrebbe riservare alla donna.
La raffinatezza della messa in scena è ragguardevole non solo nella composizione delle scene e nei movimenti di macchina, ma anche nella fluidità delle transizioni e nella precisione del montaggio (dello stesso Bido in collaborazione con il coproduttore Gianni Del Popolo), mostrando come Bido abbia mantenuto e anzi affinato ulteriormente le qualità che lo avevano segnalato come regista di vaglia per tutta la sua carriera. Gli effetti speciali di un guru della materia come il veterano Sergio Stivaletti sono utilizzati con gusto e parsimonia, con notevole efficacia.

In conclusione, un film da vedere, anche per salutare il ritorno al cinema di un autore importante.




giovedì 4 aprile 2024

Omen - L'origine del presagio


Oggi è uscito al cinema Omen - L'origine del presagio, un nuovo horror diretto da Arkasha Stevenson che si inserisce nelaa serie iniziata con l'ormai classico Il presagio, di cui costituisce di fatto un prequel. 

Chi è interessato può leggere la recensione che ho scritto per MYmovies cliccando qui e venendo con ciò catapultato in quel sito.

Qui sopra un'immagine della protagonista, Nell Tiger Free.