Antonio Bido è un regista dalla filmografia non molto nutrita di titoli, ma molto interessante per la varietà e l’eccentricità. Nella mente dell’amante del cinema di genere rimane soprattutto impresso il dittico di thriller della seconda metà degli anni ’70 (Il gatto dagli occhi di giada e Solamente nero) che sembrava preludere a sviluppi sul medesimo solco che invece non ci sono stati, disattesi proprio dall’eccentricità del percorso autoriale di Bido, che ha preso direzioni diverse. Adesso, dopo un leggero iato di circa 45 anni, il regista padovano torna con Funérailles a occupare quel medesimo territorio narrativo, ma lo fa in modo molto diverso, cercando soprattutto di affrontare una particolare e interessante tematica cui il genere è solo strumentale. Già Solamente nero era molto più personale e autoriale nell’affrontare il “giallo” de Il gatto dagli di giada facendo capire come Bido intendesse arricchire le meccaniche del genere con umori più profondi ed esistenzialisti, se così si può dire. Funérailles rappresenta, in questo senso, dopo così tanti anni, un’ulteriore evoluzione. La storia è molto semplice, ma, come sempre, a contare sono soprattutto i dettagli e il modo di raccontarla.
Miriam Grieco (Alessandra Chieli) è un’affermata pianista che vive con difficoltà la sua storia d’amore con Andrea (Fausto Morciano), anche lui pianista, ma di categoria chiaramente inferiore. Miriam cerca di elevarlo al suo livello facendolo suonare con lei. Andrea, invece, sembra puntare soprattutto ad avere un bambino, trovando la ferma opposizione di Miriam, che assolutamente non vuole concepire un figlio. Il motivo è che preferisce seguire la sua carriera e fare quello che le piace, suonare. C’è però qualcosa di più, un trauma evidentemente non superato che proviene dal suo passato. Andrea non si rassegna e il conflitto si acuisce sempre di più sino a conseguenze drammatiche.
La ricercatezza traspare sin dal titolo che sembra fatto per lasciar subito intuire che si tratta di un film particolare, non il thriller a tutto tondo che qualcuno si sarebbe potuto aspettare dall’autore de Il gatto dagli occhi di giada. Il film infatti sfida ogni classificazione. Tracce di thriller e persino anche di horror si trovano di certo, forse più nell’estetica di certi momenti, nelle scelte espressive riguardo alla raffigurazione del dramma interiore, ma complessivamente il film è più rivolto agli aspetti psicologici della vicenda, allo sfaccettato personaggio principale e alla profonda ingiustizia che deve vivere per l’impossibilità di affermare in maniera indipendente la propria volontà e la propria scelta. È quindi soprattutto un film di introspezione che si propone di indagare nell’animo umano, scandagliando le ragioni che lo muovono o lo bloccano, nella ricerca della realizzazione e dell’appagamento, della felicità, per quanto ciò sia possibile.
Scegliere lavoro, passione e anche, sì, successo in luogo della maternità - con il conseguente tragico dilemma che sembra sempre porre come presupposto un necessario abbandono di quanto caratterizza la propria personalità, con una cosa che sembra dover escludere le altre - rappresenta il fulcro del dramma, un fardello classico, magari, per la donna, ma di certo problematico. Tutto questo dal film emerge con forza e naturalezza, pur restando in un contesto di suspense psicologica ben assicurato dalle immagini e dai risvolti anche torbidi della trama.
Strutturato abilmente in un intersecarsi tra presente e passato (in flashback raffigurati in un significativo bianco e nero), il film ci racconta come Miriam cerchi la propria strada con determinazione, ma sia condotta dall’altrui ostinazione a vivere la possibile maternità come un vero e proprio incubo nel quale si innestano gli incubi pregressi che le derivano da un fosco passato di sopraffazione dal quale non riesce a liberarsi. E non ci riesce anche perché la sopraffazione e la violenza di genere ritornano puntuali a esigere il loro prezzo anche nella sua vita di artista affermata e apparentemente al sicuro nella sua posizione privilegiata.
In questo senso è cruciale anche il personaggio del protagonista maschile, tratteggiato in modo più schematico e meno approfondito, ma comunque interessante. Vengono evidenziate la sua debolezza caratteriale e la sua mediocrità come artista, ma anche la sua ambizione, il suo desiderio di riaffermare in qualche modo la supremazia nel gioco di coppia e, soprattutto, la sua ferma determinazione a ottenere quello che vuole. E, come la quotidianità della cronaca ci insegna spesso, quando questo qualcosa gli viene negato, una certa figura di maschio ha solo un modo per ottenerlo, la violenza, e non rinuncia a impiegarlo.
Se quindi il tormentato protagonista è caratterizzato dalle sue debolezze, la figura della protagonista femminile emerge con maggiore evidenza perché la sua sofferenza deriva proprio dalla sua forza, dalla sua bravura, che lei non vuole mettere in secondo piano, ma che i dettami sociali la spingerebbero a dover trascurare.
Notevole è il grado di introspezione che rende più vero il personaggio di Miriam, anche per l’intensa prova interpretativa di Alessandra Chieli che dà credibilità al dramma dell’artista che teme di essere privata della sua ragione di vita per la costrizione a generare una vita: in questo senso, "dare la vita" è un’espressione che ben si attaglia alla situazione.
Largo spazio è dato alle visioni e agli incubi che nel trasmetterci la sensazione del tormento vissuto dalla protagonista consentono a Bido di fare sfoggio di una non comune capacità di evocare immagini quietamente spettrali di notevole forza espressiva. Il viaggio che la donna compie così all’interno di sé, nel suo passato, nei suoi tormenti, nei suoi desideri è tracciato mirabilmente senza molte parole, lasciando appropriato spazio alla forza delle immagini. La potenza evocativa di certe visioni, come quella ricorrente della giovane con la carrozzina, di stampo quasi baviano, è notevole e mostra la sapienza compositiva e la capacità di raccontare per immagini che caratterizza il film.
La violenza e le sopraffazioni gettano la loro ombra prominente sul mondo femminile. A tale proposito è anche interessante la figura della mamma, resa con simpatica e dirompente personalità dalla sempre brava Stefania Casini (che torna così a collaborare con Bido a molti anni di distanza da Solamente nero), che rappresenta il lato pienamente integrato della femminilità, condiscendente ai dettami sociali in contrapposizione a quello rappresentato da Miriam, che vorrebbe solo poter scegliere quale direzione dare alla propria vita. Poter scegliere, quindi, per molti motivi, di rifiutare la maternità anche se questo significa rifiutare il ruolo che la società vorrebbe riservare alla donna.
La raffinatezza della messa in scena è ragguardevole non solo nella composizione delle scene e nei movimenti di macchina, ma anche nella fluidità delle transizioni e nella precisione del montaggio (dello stesso Bido in collaborazione con il coproduttore Gianni Del Popolo), mostrando come Bido abbia mantenuto e anzi affinato ulteriormente le qualità che lo avevano segnalato come regista di vaglia per tutta la sua carriera. Gli effetti speciali di un guru della materia come il veterano Sergio Stivaletti sono utilizzati con gusto e parsimonia, con notevole efficacia.
In conclusione, un film da vedere, anche per salutare il ritorno al cinema di un autore importante.
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