lunedì 26 settembre 2011
Il Dizionario dei film horror nuova edizione e i film a cinque stelle
Le stellette sono state un’invenzione simpatica, ideale per una sintesi del giudizio critico che aveva tanto più valore quanto più il giudizio era forzatamente ridotto ai minimi termini, come nei paginoni dei quotidiani che presentavano l’elenco dei film in programmazione. Un’usanza, quella, propria soprattutto dei quotidiani della sera che, in un’epoca in cui gli aggiornamenti delle notizie non avevano ancora raggiunto lo spasmodico ritmo delle reti di sole news o di internet, avevano ancora una funzione. Mi divertivo a guardare le paginate della Notte o del Corriere d’informazione per sapere le stellette di questo o di quel film e leggere la riga (o al massimo due) di commento. Ma dovevo stare attento: quella riga era spesso capace - soprattutto nel caso della Notte - di svelare il finale riassumendo tutto il film in una frase.
Oggi le stellette abbondano soprattutto nei Dizionari di cinema, ma restano comunque un divertissement. I critici seri e paludati spesso le aborrono perché sembrano come i voti dati a scuola e le opere d’arte non si meritano voti di quel genere. Io, che non sono per nulla paludato (ricordate, non vuol indicare qualcuno immerso in una palude) e che a volte mi diverto ancora, le ho regolarmente messe nel mio Dizionario dei film horror (Corte del Fontego). E non ho potuto fare a meno di notare come qui e là ci sia stata qualche piccola discussione su questo o quel numero di stellette assegnato. È normale e anche giusto. La cosa più difficile in questi casi è riuscire a garantire una certa uniformità di giudizio. Nel caso dei dizionari con più collaboratori questa uniformità mi pare una chimera. Nel caso dei dizionari, come il mio, scritti da un’unica persona questo dovrebbe essere più facile. E lo è, ma nonostante questo talvolta la deriva del momento può portare a premiare qualche film con una mezza stella in più e a penalizzare un altro con una mezza stella in meno.
Ricordo che alla presentazione della vecchia edizione al PesarHorror Fest (un bel festival di cui si sente la mancanza: spero che possa tornare), un lettore mi aveva fatto notare che il primo Halloween, per la sua importanza anche storica, era stato un po’ penalizzato con le su tre stelle e mezza. Avevo convenuto, promettendo di portarlo a quattro stelle nella successiva edizione. Cosa che ho fatto. Come questo, possono esserci altri casi e in effetti altri film sono stati soggetti a variazioni di stellette: invito però a ricordare che per la sua stessa natura il giudizio in stellette è solo una sintesi approssimativa, ciò che conta è quanto scritto prima delle stellette, da cui dovrebbero capirsi in modio più preciso limiti e qualità del film.
Detto questo, la gradazione in stellette consente anche di individuare il ristretto numero di film premiato con il massimo dei voti e anche questo ha avuto i suoi risvolti problematici, per me. Fermo restando che con due stellette un film è sufficiente, con tre è buono, con quattro è ottimo, con cinque (vale a dire eccezionale) dev’essere un capolavoro, non del singolo regista, ma in assoluto. E i capolavori, per la loro stessa natura, sono pochi. Quando ho dato le stellette non pensato a contingentare la categoria: ho dato le cinque stellette quando mi pareva giusto. Alla fine, mi è stato fatto notare da chi aveva fatto i conti che i film a cinque stelle della prima edizione erano venti (su 2404). Magari per qualcuno potevano esserci dei film al posto di altri, ma la percentuale, se si riferisce a capolavori, mi pare accettabile.
In questa seconda edizione, i film a cinque stelle diventano 22, con l’aggiunta di due titoli stagionati ma non comparsi nella prima edizione (erano e restano inediti in Italia). Si tratta di Horrors of Malformed Men di Teruo Ishii e di Jigoku di Nobuo Nakagawa, due film giapponesi molto diversi ma egualmente importanti, che consiglio vivamente di vedere a ogni appassionato non tanto e non solo di horror quanto di cinema.
giovedì 22 settembre 2011
Camp Hope
La nuova puntata della mia rubrica Horror Frames su MyMovies si occupa di Camp Hope, un film di George VanBuskirk che cerca di toccare in chiave più o meno horror il tema dell'estrema ortodossia religiosa e delle sue possibili conseguenze. Se volete leggere cosa ne penso, basta che andiate qui.
Mi sembra solo il caso di aggiungere che nel cast ci sono un paio di vecchie volpi come Bruce Davison - il cui personaggio è centrale nella storia e lui lo interpreta molto bene - e Andrew McCarthy in quello che può essere classificato come un cameo esteso. Davison, per chi se lo fosse dimenticato, è stato, tra le tantissime sue interpretazioni, il Willard originale, quello di Willard e i topi. McCarthy ha un pedigree meno illustre, ma qualche commedia simpatica lo ha visto tra i protagonisti (per esempio Weekend con il morto che all'epoca ebbe un sorprendente successo qui da noi).
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lunedì 12 settembre 2011
I maggiori incassi horror della stagione cinematografica 2010/2011
L’avevo già fatto l'anno scorso e lo rifaccio anche quest’anno (non è che ogni anno rifaccio quello che ho fatto l’anno precedente, ma questa cosa sì) e quindi compilo la classifica degli incassi dei film horror nella stagione cinematografica da poco conclusa. Le motivazioni per questo genere di operazione sono contenute nel post dell’anno scorso che potete sempre trovare qui e pertanto non mi dilungo.
Come l’altra volta ho preso i dati dalla classifica dei Top 100 come potete trovarla nel sito di MyMovies (se vi interessa - e come può non interessarvi? - la trovate qui), estrapolando gli horror e tirandone fuori questa classifica: la posizione tra parentesi è quella che il film occupa nella classifica generale dei Top 100 tanto per dare un’idea dell’impatto degli horror nella classifica complessiva. Il periodo di riferimento è quello della classica stagione cinematografica che va dall’agosto a luglio e la classifica è questa:
1 (37) Saw 3D € 5.360.768
2 (42) Mordimi € 4.353.522
3 (44) Resident Evil - Afterlife € 4.121.104
4 (49) Il rito € 3.543.708
5 (65) Paranormal Activity 2 € 2.791.283
6 (75) Dylan Dog - Il film € 2.379.964
7 (87) L’ultimo esorcismo € 1.828.254
8 (88) Cappuccetto rosso sangue € 1.825.722
9 (91) ESP - Fenomeni paranormali € 1.663.857
Paragonando la classifica attuale a quella dell’anno scorso risulta subito evidente il minore impatto del genere tra le uscite cinematografiche: è mancato il film fenomeno - come la stagione scorsa era stato Paranormal Activity (il seguito ha avuto minore impatto) - e la presenza complessiva si è ridotta, arrivando ad appena nove titoli su 100. Inoltre, siamo orfani, per il momento, degli stratosferici incassi dei film romantico-vampireschi di Twilight (ma, per chi ne sente la mancanza, torneranno). Nessuno dei film in classifica presenta caratteristiche di particolare novità e questo non è un bene. Ci sono, ai primi posti, due capitoli di lunghe franchise ormai spompate - Saw e Resident Evil, entrambe esteticamente rivitalizzate dall’ormai quasi altrettanto spompato 3D - e una parodia dal fiato corto. Poi ci sono un paio di film esorcistici e ben tre reality horror (L’ultimo esorcismo appartiene a entrambe le tipologie ed è anche probabilmente il più interessante) a testimoniare i colpi di coda di un meccanismo narrativo ormai entrato in corto circuito. Cappuccetto rosso sangue cerca di rinnovare i fasti del sentimental horror attraverso una rivisitazione sin troppo poco iconoclasta di una classica fiaba. Dylan Dog rappresenta invece il solo horror tradizionale, facendo sorgere l’inevitabile domanda: era necessario scomodare un personaggio dei fumetti per denaturalizzarlo così tanto?
Altri film da cui ci si sarebbe aspettato di più hanno fallito l’ingresso nella top 100, primo fra tutti Scream 4, che ha floppato anche negli USA segnalando come fosse un film uscito veramente fuori tempo massimo. L’incasso italiano (€ 1.276.000 è davvero poca cosa). Un’altra franchise storica che ha mancato l’ingresso nei top 100 è Nightmare, il cui reboot ci è arrivato comunque vicino (incasso di circa un milione e mezzo di euro) mancando il colpo per la mancanza di novità e del “vero” Freddy Krueger, Robert Englund. Ma se anche questi due film fossero in classifica non avrebbero cambiato ovviamente il giudizio complessivo sulla carenza di innovazione.
Speriamo di meglio in futuro e speriamo soprattutto che i distributori nostrani diano uno sguardo un po’ più ampio al panorama, scegliendo di distribuire qualcuno dei non pochi horror interessanti provenienti da varie parti del mondo.
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mercoledì 7 settembre 2011
Alcune cose che si possono imparare dalle canzoni di Bob Dylan
L’altro giorno mi è capitato di leggere questo post in un blog, SometimesRhymes: il titolo è 10 Life Lessons from Bob Dylan. Mi ha incuriosito e l’ho trovato interessante: l’autore (R.T. Packard) trae dalle canzoni (e non solo) di Bob Dylan dieci “lezioni di vita” e spiega il motivo per il quale le considera tali. Ho pensato di farlo anch’io, per una specie di gioco, senza alcuna pretesa: non mi sono messo a elaborare teorie o a studiare i testi per trarne i versi più significativi sotto il profilo che qui interessa. Ho semplicemente elencato i versi che mi sono venuti in mente e che più si adattavano allo scopo e invece di metterne 10 ne metto 12, tanto per strafare (ma potrebbero essere 100 senza troppo sforzo). Sono a volte consigli, altre delle piccole perle di saggezza, altre ancora suggerimenti che potrebbe darvi vostra nonna, con la sapienza degli anni. Ho tralasciato quelli più noti (come To live outside the law you must be honest, che vengono subito in mente e sono ancora brillantissimi, ma sarebbero una scelta un po’ ovvia) per privilegiarne alcuni che penso meno conosciuti. Prendetelo come un divertissement, niente di più, ma se volete ascoltare le canzoni da cui sono tratti i versi, vi farete senz’altro un favore:
1. I was born here and I’ll die here against my will. Rielaborazione talmudiana, d’accordo, ma fulminante nella sua riflessione sull’impotenza umana a incidere sul proprio destino. Tratto da Not Dark Yet, inclusa nell’album Time Out of Mind del 1997.
2. God is in heaven/And we all want what’s his/But power and greed and corruptible seed/Seem to be all that there is. In poche parole, un quadro simpatico che ci spiega come mai le cose vanno come vanno: è una cosa da tenere a mente, serve per capire il mondo in cui viviamo. Tratto da Blind Willie McTell, outtake di Infidels del 1983 e incluso in The Bootleg Series 1-3 (1991).
3. Behind every beautiful thing, there’s been some kind of pain. Dove il riferimento non riguarda tanto o non solo la sofferenza dell’artista, quanto il fatto che dietro ogni cosa c’è qualcuno che ha sofferto e/o è stato sfruttato per farla. Questi versi sono anche nella lista che ho citato sopra, ma repetita iuvant. Ancora tratto da Not Dark Yet.
4. He said every man’s conscience is vile and depraved/You cannot depend on it to be your guide/When it’s you you must keep it satisfied. Il contesto è più ampio e in realtà, nella canzone, è una frase riportata, ma il succo del discorso è chiaro, la riflessione è nitida e ciò che ne risulta è una ricerca di valori trascendenti o quantomeno provenienti dall’esterno, da una morale maiuscola. In termini più noirish, è quello che si ricava da un altro verso proveniente da una delle grandi canzoni sottovalutate, Brownsville Girl, che ha il torto di essere capitata nel disco sbagliato (Knocked Out Loaded, 1986): You always said people don’t do what they believe in/They just do what’s most convenient, then they repent.
5. Some people never worked a day in their life/Don’t know what work even means. Questa è una verità che dobbiamo ricordarci per cercare di capire perché le cose siano così eminentemente sbagliate: perché questi versi non sono certo per descrivere dei disoccupati, ma delle persone che se la passano benissimo alle spalle degli altri senza nemmeno conoscere cosa sia il lavoro. E anche il verso precedente (I can live on rice and beans) è significativo nel contesto. Tratto da Workingman’s Blues #2, incluso nell’album Modern Times del 2006 (non a caso anche il titolo di un film di Chaplin sull’aberrazione del lavoro in fabbrica). Dalla stessa canzone un altro verso che va molto bene per questi tempi: The buying power of the proletariat’s gone down/Money’s getting shallow and weak, assieme all’altro: They say low wages are a reality/If we want to compete abroad. E cose come queste ci sono anche in canzoni assai antiche di Dylan come North Country Blues del 1964. Dedicato ai maestri della globalizzazione e del lavoro flessibile.
6. You got something better, you’ve got a heart of stone. Questo invece è dedicato al cinismo opportunista di chi preferisce distruggere le convinzioni altrui invece che svilupparne di proprie. Tratto da Property of Jesus, nell’album Shot of Love (1981).
7. The world is old, the world is grey/Lessons of life can’t be learned in a day. Ovvero la rassegnazione di fronte all’incessante ripetersi degli stessi errori. Come non puoi imparare la lezione di una vita in un giorno, così non puoi sperare di trasmettere ciò che hai imparato a chi vorresti non commettesse errori di inesperienza che tu magari hai già commesso. Tratto dalla maestosa e amarissima Cross the Green Mountain dalla colonna sonora del film Gods and Generals (2003).
8. When you cease to exist then who will you blame? Lo so, questa è criptica, ma fa riflettere. Da una canzone altrettanto criptica e affascinante, Angelina, un outtake di Shot of Love (1981), riemersa solo molti anni dopo in The Bootleg Series 1-3 (1991).
9. But even the President of the United States sometimes must have to stand naked. Ovvero l’aggiornamento e la rivisitazione del re è nudo: una verità che veniva accolta regolarmente con un boato nella tournée del 1974, all’epoca del Watergate. Vale ancora oggi. Tratto da It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding) dall’album Bringing It All Back Home (1965).
10. May you have a strong foundation when the winds of changes shift. Perché i venti del cambiamento non sono qui quelli del progresso sociale, ma quelli che ti fanno dimenticare le tue convinzioni e i tuoi valori per convenienza o comodità. Sembra - e forse è - una banalità, ma è un augurio sincero. È nella canzone Forever Young, una canzone piena di luoghi comuni riscattati dall’interpretazione. Ne ho già parlato ampiamente qui. Dall’album Planet Waves (1974).
11. So when you see your neighbor carryin’ somethin’/Help him with his load/And don’t go mistaking Paradise/For that home across the road. Solidarietà senza illusioni e una riflessione sulla religione istituzionalizzata. Questi versi appartengono a The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest, dall’album John Wesley Harding (1967).
12. When you think that you’ve lost everything/You find out you can always lose a little more. Un’evoluzione amara del verso “when you ain’t got nothing/you got nothing to lose” contenuto in Like a Rolling Stone: questi nuovi versi danno il senso di come nemmeno non avere nulla ti liberi sul serio: c’è sempre qualcosa in più che si può perdere con tutto quello che ne consegue. Da Tryin’ To Get to Heaven, contenuta nell’album Time Out of Mind.
E per il momento, that’s all folks.
martedì 6 settembre 2011
Stake Land
Dopo l'apocalisse può capitare di trovarsi in un mondo percorso da torme di vampiri assetati di sangue. Era successo nel romanzo Io sono leggenda e nei vari film che ne sono stati tratti (tre direttamente, altri indirettamente), succede ancora in Stake Land, nuovo film di Jim Mickle, l'autore di Mulberry Street.
Dato che non mi faccio mancare niente, l'ho visto e ne ho parlato nella rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies: se volete leggere cosa ho scritto andate qui.
Qui sopra invece Danielle Harris (scommetto che indovinate da soli quale è dei tre senza che ve lo dica io) nel film: un'attrice che ha al suo attivo ben quattro Halloween è sempre al posto giusto in un horror.
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lunedì 5 settembre 2011
Terence Fisher su Segnocinema
Prima o poi penso che, se ne avrò la possibilità, scriverò un libro su Terence Fisher. I motivi per farlo sono molti: è un regista grazie al quale ho scoperto il cinema horror, è un regista tutto sommato da noi ancora largamente incompreso e sottovalutato, è un regista che possiede uno stile inconfondibile a servizio di tematiche personali di cui è possibile cogliere il filo attraverso quasi la sua intera opera. Inoltre, è un regista di cui vedo e rivedo volentieri i film, il che non è un argomento da poco per un oggetto di studio.
Per il momento, però, mi sono limitato a un lungo articolo che si intitola Il fascino discreto del male - I film dimenticati di Terence Fisher. Lo trovate sul numero 171 di Segnocinema attualmente in libreria: è il numero che contiene il sontuoso speciale dedicato a Tutti i film dell’anno a cura di Mario Calderale ed è perciò imperdibile a prescindere, come diceva Totò. Sicuramente a prescindere dal mio articolo: quando molti anni fa ho scoperto, da lettore, Segnocinema in libreria è stato proprio attraverso lo speciale di Tutti i film dell’anno, un dizionario di tutte le uscite con schede sintetiche ma significative che subito mi sembrarono imprescindibili.
Tornando a Fisher, l’argomento del mio articolo è la carriera pre-horror di Terence Fisher, composta da un non trascurabile numero di film di vario genere. Spesso tralasciati da chi si occupa del regista, sono invece interessanti e premonitori della successiva grandezza. La gran parte è costituita da noir intensi e atmosferici come Home to Danger, Face the Music e The Stranger Came Home, ma non mancano film di fantascienza come il curioso Four Sided Triangle e melodrammi ai confini dell’horror come Volto rubato. I titoli sono parecchi e poco conosciuti: ve li lascio scoprire nell’articolo, se avrete la bontà di leggerlo. Potrebbe essere l’occasione per scoprire il volto nascosto di un autore complesso e tutt’altro che monocorde, tenuto anche presente che parecchi di questi film sono ora disponibili in dvd (d’accordo, solo pochi in italiano, ma ormai siamo gente di mondo e dobbiamo sapere le lingue, no?).
Storia del cinema horror italiano Vol. 1 - Il Gotico
L’horror italiano è partito con grave ritardo rispetto ad altre cinematografie, ma, quando l’ha fatto, l’ha fatto innestando il turbo, accumulando in breve tempo film originali e significativi e consacrando autori apprezzati e imitati anche all’estero. Gordiano Lupi - scrittore e critico cinematografico con un curriculum comprendente una impressionante quantità di volumi - si è posto l’obiettivo di tracciarne la storia partendo dalle origini e arrivando ai nostri giorni, quando dell’horror italiano restano solo tracce ed episodi singoli. Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone Vol. 1 - Il Gotico (Edizioni Il Foglio, 224 pagine, € 15) è il primo volume di una serie che - come si legge nel piano dell’opera con cui inizia il libro - dovrebbe comprendere altri cinque volumi con un ritmo di due uscite all’anno, se l’iniziativa incontrerà il favore del pubblico. Gli altri volumi saranno questi: Vol. 2 - Dario Argento e Lucio Fulci; Vol. 3 - Joe D’Amato e il cannibal movie; Vol. 4 - Splatter, esorcistico e horror metropolitano; Vol. 5 - Horror Anni Ottanta; Vol. 6 - Horror Anni Novanta e Duemila.
Ogni libro, al di là di considerazioni generali, va giudicato sempre in relazione agli obiettivi che si prefigge. Il risvolto di copertina indica con evidenza gli intenti dell’autore che sono quelli tracciare una storia del cinema horror italiano senza pretese di completezza, ma puntando "a fare un po’ di ordine in un panorama poco studiato". Per far questo, Lupi ha scelto di ordinare la materia per registi, aderendo all’ormai consolidata consuetudine che vede nel regista il vero “autore” dei film, fermo restando che ogni film è comunque il risultato di uno sforzo collettivo. È una convenzione non priva di fondamento, nata dalla cosiddetta politique des auteurs a opera dell’allora critico Françoise Truffaut. Per quanto riguarda i nomi principali dell’horror esaminati nel libro, c’è da dire che tale convenzione si rivela del tutto veritiera: Riccardo Freda, Mario Bava, Antonio Margheriti - per nominarne solo alcuni - sono registi che danno un’impronta personale ai loro film, tale da contraddistinguerli in modo assoluto. In particolare Mario Bava, il cui stile è così unico e originale da aver dato luogo a imitazioni in ogni epoca e latitudine: il suo uso del colore, per fare solo un esempio, è rimasto proverbiale e l’aggettivo “baviano” è tradotto in tutte le lingue.
Lupi esamina la carriera horror dei registi principali - oltre a quelli su nominati anche Giorgio Ferroni (autore dell'indimenticabile Il mulino delle donne di pietra) - ma non trascura la miriade di registi che hanno realizzato film più o meno minori o si sono dedicati al genere in modo assai sporadico, spesso realizzando solo un film. Per ogni regista traccia la parabola della carriera dando specifico risalto, naturalmente, alle loro incursioni nell’horror, anche quando talvolta è solo un elemento tra i diversi che compongono un film: è il caso di diversi pepla, che spesso prendevano una deriva fantasy sconfinante nell’orrore puro. L’approccio è quello divulgativo: la scrittura è semplice e scorrevole e non mancano dati e aneddoti. Per ogni film trattato, viene esposta la trama (anche, ahimè, raccontandone più di qualche volta colpi di scena e finale: è una questione di preferenze personali, ma io meno so di un film che devo vedere e meglio sto), seguita da un commento critico e da un breve compendio dei pareri di altri critici per dare un quadro più completo dell’accoglienza ricevuta dal film. Inoltre - e questo è un aspetto sicuramente interessante - ci sono più di qualche volta le reminiscenze di Dardano Sacchetti ed Ernesto Gastaldi, relativamente a pellicole alle quali hanno collaborato come sceneggiatori. Gastaldi - autore tra l’altro del copione di La frusta e il corpo e L’orribile segreto del dr. Hichcock, due classici dell’horror italiano - scrive anche la simpatica introduzione al volume ed è protagonista di una delle tre interessanti interviste a cura di Emanuele Mattana - gli altri intervistati sono Dardano Sacchetti e Antonio Tentori - che chiudono il libro. Nell’insieme, il volume rappresenta una buona introduzione all’argomento e può essere senz’altro di interesse a chi voglia un agile compendio su una materia su cui c’è sempre molto da scrivere.
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