sabato 30 gennaio 2010
Paranormal Activity
Tra qualche giorno Paranormal Activity esce anche in Italia. Qui, sul sito di Mymovies, trovate la recensione che ho scritto. Mi basta solo aggiungere che con 15.000 dollari di budget (cui, vabbè, bisogna aggiungere i costi pubblicitari che non credo siano stati trascurabili), questo film, diretto dall'esordiente Oren Peli, ha abbondantemente superato i cento milioni di dollari di incasso solo negli Stati Uniti. Questo sì che è stato un investimento produttivo. Al di là del valore del film, è una cosa che può rincuorare chi realizza indipendentemente dei film a basso budget (o bassissimo, come in questo caso): è un po' come una lotteria, ma ogni tanto qualcuno fa il botto. E se ci pensate accade sempre quando c'è uno spunto originale - o percepito come tale - oltre alla capacità di renderlo in qualche modo credibile.
Qui sopra i due protagonisti del film, Katie Featherston e Micah Sloat.
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Rudy Salvagnini
mercoledì 27 gennaio 2010
Horror Frames: Pontypool
Un altro appuntamento con la rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies. Chi vuole può leggerla qui. Si parla di horror virale e in particolare di Pontypool, un horror canadese davvero diverso e originale, nel quale a fare paura è qualcosa che usiamo tutti i giorni. Vale la pena di vederlo. La regia è di Bruce McDonald.
Nella foto qui sopra, Georgina Reilly in una scena del film.
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Rudy Salvagnini
giovedì 21 gennaio 2010
Flani (3): La morte negli occhi del gatto
Un altro tuffo nel passato con un vecchio flano riguardante un film del 1973, La morte negli occhi del gatto, firmato dal glorioso Antonio Margheriti con il suo consueto pseudonimo di Anthony M. Dawson. Quello che penso del film come al solito potete trovarlo nel Dizionario dei film horror. Qui mi basta sottolineare che aveva un cast davvero inconsueto, guidato dal felliniano Hiram Keller e dalla sex symbol androgina dell’epoca, Jane Birkin, il cui marito Serge Gainsbourg (con cui aveva spopolato con la canzone Je t’aime... moi non plus) fa anche lui un piccolo ruolo.
Relativamente al flano, si può ancora una volta vedere come usasse molto in quei tempi parlare di “thrilling”. Fa quasi tenerezza invece la spavalda ingenuità della frase di lancio che tanto per far nomi celebri tirava in ballo Agatha Christie (!), confidando certamente sul fatto che non leggeva i giornali italiani. Conforta ancor oggi, invece, sapere che era in funzione un ampio autoparcheggio.
Una cosa che non ho mai capito di quel film è perché mai l’avessero vietato ai minori di diciotto anni: chiunque l’abbia visto sa cosa intendo.
mercoledì 20 gennaio 2010
Il quarto tipo
Chi vuol sapere cosa penso di Il quarto tipo, il nuovo film di Olatunde Osunsanmi, può leggere qui la mia recensione su Mymovies. Orrore, alieni e Milla Jovovich: si può chiedere di più? Be', direi di sì.
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Rudy Salvagnini
martedì 19 gennaio 2010
Greasepaint and Gore - The Hammer Monsters of Roy Ashton
Roy Ashton (1909-1995) è stato il responsabile del trucco della Hammer negli anni di maggior successo (grosso modo dal ‘58 al ‘66), prendendo il testimone da Phil Leakey (1908-1992), che per primo se n’era occupato agli esordi nell’horror della casa britannica. Assistente di Leakey in Dracula il vampiro, Ashton ha cominciato a emergere con La mummia, per il quale ha ideato l’efficacissimo make-up del “mostro” omonimo, interpretato da Christopher Lee.
Greasepaint and Gore - The Hammer Monsters of Roy Ashton è un libro che gli rende omaggio, scritto da Bruce Sachs e Russell Wall e pubblicato dall’inglese Tomahawk Press. Composto dalla precisa giustapposizione di scritti, principalmente di Ashton stesso, e dichiarazioni della moglie e di attori, produttori e registi che con Ashton hanno lavorato, il volume è altamente raccomandabile sia perché tratta un argomento - il make-up cinematografico - poco affrontato sia perché è fatto molto bene, basandosi su fonti dirette e originali.
Ashton si dilunga a raccontare non solo di sé e dell’industria cinematografica britannica - nella quale, proveniente dall’Australia, è entrato negli anni '30 - ma anche del modo in cui ha realizzato i suoi make-up, entrando spesso nei dettagli tecnici, affascinanti per il lettore occasionale e utili per chi volesse imparare qualcosa di pratico. Non si sa mai, saper trasformare qualcuno in una mummia o in Mr. Hyde può sempre tornare utile. La parte iconografica è imponente: molte rare fotografie e, soprattutto, moltissimi disegni preparatori di Ashton, pubblicati per la prima volta.
La mummia, il licantropo di L’implacabile condanna, gli zombie di La lunga notte dell’orrore, la donna rettile di La morte arriva strisciando, i vampiri di Il mistero del castello e molti altri emergono così non solo nelle realizzazioni finali, ma anche negli studi che a quelle hanno portato.
Non mancano i retroscena curiosi e a volte un po’ amari, soprattutto riguardanti i casi in cui i trucchi non sono venuti bene come Ashton avrebbe desiderato e la colpa del risultato finale è stata erroneamente attribuita a lui anziché alla produzione che aveva voluto soluzioni diverse. Esempi in questo senso sono Il fantasma dell’Opera e soprattutto Lo sguardo che uccide, la cui Gorgone finale - oggetto di grasse risate al suo apparire sugli schermi di tutto il mondo - avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Ashton, essere del tutto diversa (e di fatto non è stato lui a occuparsi dei terribili serpenti). Ma, come rileva lo stesso Ashton, un truccatore, anche se magari ha delle idee diverse e migliori, è tenuto a dare ciò che la produzione richiede.
Fatto poco noto è poi che Ashton è stato anche cantante lirico professionista per vari anni e che sarebbe stata quella la sua occupazione preferita: per consolarsi ingaggiava lussureggianti duelli canori, al trucco, con Christopher Lee, altro appassionato melomane. Proprio con Lee e Peter Cushing si era sviluppata una cordiale amicizia, cosa rara, viene rilevato, perché di solito gli attori - divi per eccellenza - non familiarizzano con i truccatori.
Un elemento di riflessione è che sia Leakey sia Ashton hanno finito con l’abbandonare la Hammer per motivi economici, per lo scarso riscontro concreto (e non solo) che la produzione dava alla loro opera. Niente di nuovo sotto il sole o, se preferite un altro luogo comune, tutto il mondo è paese.
L’introduzione è del grande Peter Cushing. 168 pagine, grande formato, edizione impeccabile, in parte (piccola) a colori: da leggere e da avere (non necessariamente in quest'ordine), è il ritratto di un grande maestro e un ulteriore importante tassello della storia della Hammer. D’accordo, è in inglese, ma foto e illustrazioni valgono da soli il prezzo.
Oggi, con gli effetti speciali digitali, l'importanza del make-up sembra essere diminuita, ma la fisicità del trucco "vero" mantiene secondo me un fascino che spesso il digitale - talvolta troppo cartoonesco - non ha.
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venerdì 15 gennaio 2010
Rosco e Sonny al supermercato
Nel numero 3 di Il Giornalino, attualmente in edicola, chi lo desidera può leggere una nuova avventura di Rosco & Sonny, i personaggi ideati da Claudio Nizzi e dei quali scrivo le sceneggiature da un po'. Questo episodio si intitola Al supermercato e vede i nostri impavidi eroi alle prese con una spesa che si fa via via sempre più complicata per il sopravvenire di situazioni impreviste. Tra umorismo e azione, la serie vanta sempre gli ottimi disegni di Rodolfo Torti.
Qui sopra la vignetta iniziale della storia.
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Rudy Salvagnini
giovedì 14 gennaio 2010
Pupi Avati - Sotto le stelle di un film
Pupi Avati è un regista singolare nel panorama del cinema italiano. Unisce artigianato e autorialità in modo ammirevole, coniugando quantità e qualità. Mi è sempre sembrata rimarchevole la puntualità con cui, cascasse il mondo, sforna un film all’anno, o giù di lì - proprio come Woody Allen - facendo con ciò presente che quella di regista non è solo una passione, ma è anche la sua professione, il suo lavoro. La circostanza mi fa venire in mente una annotazione di Stephen Thomas Erlewine - che ho riportato in Il cinema di Bob Dylan - che, riguardo al tentativo di creazione mitologica di Robbie Robertson sui pericoli e sulla maledizione della strada intesa come distanza da percorrere indefessamente tra un concerto e l’altro, ha puntualizzato che fare concerti per un musicista non è sottoporsi a un regime di vita “dannato”, è semplicemente svolgere il suo lavoro. Ecco perché Bob Dylan continua a fare concerti, B.B. King ha fatto oltre cento concerti l’anno per molti anni, Woody Allen fa un film all’anno e lo stesso fa Pupi Avati. Ci sono gli artisti che si siedono (o se la spassano) in attesa dell’ispirazione oppure passano anni a perfezionare meticolosamente la loro opera e ci sono invece quelli che preferiscono lavorare con continuità vedendo periodicamente l’esito del proprio lavoro. Perché la loro creazione artistica è anche il loro lavoro. Sono per questo meno importanti? È il risultato che conta e a volte invece di un’opera perfetta (se esiste la perfezione) può essere preferibile un insieme di opere forse singolarmente meno perfette ma stimolanti, che proprio dal numero, dall’essere un insieme, trae la propria forza. Balzac dovrebbe far venire in mente qualcosa. E nessuno, credo, ha mai rimproverato a Shakespeare d’aver scritto troppi drammi o troppe commedie.
Chi ama l’horror, apprezza sicuramente gli horror di Pupi Avati, che sono del tutto peculiari, ricchi di spunti inquietanti, bizzarri e originali. La casa dalle finestre che ridono e Zeder (il mio preferito) sono i migliori, ma anche L’arcano incantatore e Il nascondiglio hanno elementi di interesse e guizzi di unicità che tradiscono la personalissima cifra avatiana.
Ma Avati non è solo horror, anzi è horror solo in parte minimale. È stato spesso definito un regista dei buoni sentimenti - come se questo fosse eventualmente un difetto - ma gli aspetti amari e beffardi di film come Regalo di Natale, Impiegati, Ultimo minuto (con un grande Tognazzi, un film sul calcio finalmente fatto da chi sembra di conoscerne le dinamiche), per fare solo qualche esempio, contraddicono questa semplificazione.
Inutile fare un elenco dei suoi film, spesso riusciti, ma anche quando non lo sono stati, ugualmente e invariabilmente coerenti con una visione complessiva di impressionante lucidità. Ne cito solo uno che ho molto apprezzato per il modo in cui ha affrontato tematiche spirituali e mistiche, Magnificat, uno dei film di Avati meno acclamati e più da riscoprire.
Pupi Avati ha scritto un libro di memorie, a cura di Paolo Ghezzi. Il libro si intitola Sotto le stelle di un film (Il Margine, 2008; 176 pagine, € 16) ed è molto interessante. Avati parla dei suoi film, ma parla anche e soprattutto di sé, della sua famiglia, della sua storia, dei suoi sogni e di come ha cercato di realizzarli, finendo in sostanza per realizzare il sogno di riserva (il primo, quello titolare, era di essere un clarinettista jazz). L’aneddotica è ricca, ma quello che più spicca sono le considerazioni di Avati sulla vita, sulla sua filosofia di vita. I suoi inizi e il suo arrivo a Roma da outsider sono descritti in modo simpatico e si capisce perché, in fondo, Avati sia rimasto tale, un outsider di lusso dell’industria cinematografica, anche dopo tanti anni, essendo riuscito a edificarsi una nicchia, uno spazio nel quale ci sono solo lui e i suoi film.
La seconda parte del libro, di dimensioni più contenute, è scritta dal fratello Antonio, inseparabile collaboratore e produttore di Pupi. Qui le considerazioni si fanno meno filosofiche, meno mistiche, più ironiche e talvolta insolitamente puntute nei giudizi sui singoli e sulla situazione dello spettacolo in Italia. Traspare una personalità diversa, ma complementare.
Ricco il corredo fotografico, con molte foto di famiglia e dai set anche dei film più sconosciuti - come Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas... gli indemoniati - a dare valore aggiunto a un libro già di per sé molto utile e brillante. Un libro che si legge d’un fiato, scritto in modo diretto, semplice, confidenziale e illuminante a rivelare l’uomo (o, meglio, gli uomini, considerato il non trascurabile contributo di Antonio Avati) che è dietro ai film.
martedì 12 gennaio 2010
Horror Frames: Apparition
Nuovo appuntamento con la rubrica Horror Frames che scrivo per il sito Mymovies. Stavolta mi occupo di fantasmi giapponesi vecchi e nuovi e, in particolare, del recente film di Hideo Nakata, Apparition - Amare oltre la morte (per chi se lo chiedesse, il sottotitolo fa riferimento al verbo, non al sapore).
Nakata ha reinventato il cinema di fantasmi giapponese, ma in Apparition guarda al passato e a una tradizione ricca e molto interessante. Chi vuole, può leggere tutto qui (dove il "tutto" va inteso non in termini assoluti, ma nel senso di "tutto quello che stavolta ho scritto sull'argomento": che volete, oggi sono preciso e didascalico).
Sopra, una foto dal film.
venerdì 8 gennaio 2010
A Heritage of Horror e A New Heritage of Horror
Uno dei pregi meno frequenti in chi scrive di cinema è la semplicità dell’esposizione. Quando poi la semplicità si unisce alla chiarezza, la casistica è ancor meno frequente. Se infine a quelle caratteristiche si unisce l’acutezza critica si arriva alla rarità. Una di queste rarità è A Heritage of Horror, un fondamentale saggio di David Pirie pubblicato nel 1973 da Gordon Fraser e diventato una sorta di totem della critica cinematografica nel campo dell’horror, uno dei libri più citati anche se forse non altrettanto letti.
Quando ero molto giovane e già mi interessavo di film horror - ma questo mi è capitato anche in altri settori di interesse, come i fumetti - non mi bastava che quei film mi piacessero, avrei anche voluto capire perché sentivo di avere ragione se li consideravo importanti e significativi quando tutti i critici che leggevo li consideravano spazzatura o al massimo onesto artigianato. Mi sarebbe cioè potuto trovare un supporto critico articolato e condivisibile che desse corpo al mio giudizio di allora, forzatamente un po’ semplicistico e forse entusiastico.
Comprai subito il libro di Pirie appena uscì perché si occupava dell’horror britannico - con particolare riguardo alla Hammer e a Terence Fisher, che erano per me erano all’epoca riferimenti molto importanti - e perché leggevo con molto interesse le recensioni che Pirie scriveva per il Monthly Film Bulletin, per molto tempo la mia rivista di cinema ideale: recensiva tutto quello che usciva in Gran Bretagna e c’erano praticamente solo recensioni, senza nemmeno una fotografia. Ora è confluita in Sight and Sound, che resta una rivista fondamentale. Entrambe edite dal British Film Institute, con tutto il prestigio conseguente. Nel Monthly Film Bulletin scriveva anche - di solito di B-movies - David McGillivray, futuro sceneggiatore di Pete Walker e altri ancora.
La lettura di A Heritage of Horror è stata per me fondamentale. Con uno stile semplice ma non banale e con ampi riferimenti alla letteratura e al contesto in cui la tradizione horror si inseriva, Pirie tracciava un quadro completo e criticamente stimolante della parabola dell’horror britannico che allora - ma nessuno poteva saperlo con certezza - vicino a una fase di assoluto nadir. Sostanzialmente per primo, Pirie riuscì a enucleare e apprezzare le qualità registiche di Terence Fisher, che per questo gli sarebbe stato molto grato nei suoi ultimi anni di vita. Quando, tre anni dopo, scrissi per Robot un lungo articolo in due puntate su Fisher, sapere l’opinione di Pirie mi fu di notevole conforto.
Chiarezza, semplicità, brillantezza critica, completezza del quadro d’insieme, assoluta assenza di pregiudizi, stile coinvolgente: A Heritage of Horror è un libro unico e decisivo per chi lo legge. Naturalmente, può capitare che uno non sia d’accordo sui singoli giudizi - come per la sbrigativa stroncatura di L’abominevole dr. Phibes - ma questo è tanto inevitabile quanto poco significativo.
Successivamente, Pirie, oltre a scrivere un altro bel libro (The Vampire Cinema), si è dedicato principalmente alla sceneggiatura, non trascurando qualche puntata nell’horror (come Mystery House del 2000, di cui potete trovare la scheda nel Dizionario dei film horror).
Oltre trent’anni dopo gli è però venuta voglia di riprendere in mano quella sua ormai vecchia creatura - ormai rarissima e mai ristampata - e ne ha scritto una nuova edizione intitolata non a caso A New Heritage of Horror (I.B. Tauris, 2008). Una nuova edizione piuttosto particolare perché, oltre all’aggiornamento temporale, è stato in gran parte riscritto anche il resto, alla luce delle nuove informazioni a cui Pirie nel frattempo ha avuto accesso.
Le qualità del primo ci sono ancora tutte e, per quanto non approfondita come quella del periodo d’oro del cinema horror britannico, è interessante anche la parte che aggiorna la storia sino ai nostri giorni. Certo, l’horror britannico oggi è meno centrale nel panorama internazionale, ma qualche nuovo autore - Neil Marshall su tutti - non manca. Ma più interessante è l’aggiornamento di notizie sul periodo d’oro della Hammer e delle case satelliti, soprattutto con riferimento alle tremende battaglie con la severa censura inglese del periodo che portarono tra l’altro all’abbandono del progetto di realizzare Night Creatures, adattamento di Richard Matheson del proprio romanzo Io sono leggenda (e scusate se è poco).
Se siete davvero interessati al cinema horror, leggetelo. La prima edizione è ormai introvabile (io per la verità la trovo facilmente, su uno scaffale a portata di mano). Questa è invece disponibile ed è ancora migliore. Ovviamente, solo in inglese.
venerdì 1 gennaio 2010
Horror Frames: Babbo horror
Nuovo appuntamento con la rubrica che scrivo per MyMovies. Questa volta, visto il periodo, l'argomento è il Babbo Natale in chiave horror, con particolare riferimento al recente Santa's Slay. Chi vuole, può leggerla qui.
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