Implacabile come la condanna licantropesca di Oliver Reed nel film hammeriano di Terence Fisher, proseguo nella presentazione del contenuto del mio nuovo libro, Il cinema dell’eccesso - Vol. 1 Europa (Crac Edizioni). Dopo i primi quattro capitoli dedicati a Pete Walker, Jean Rollin, Jesus Franco e Paul Naschy, tocca con inevitabilità matematica al protagonista del quarto capitolo, il britannico Norman J. Warren.
Questo capitolo è completamente nuovo, scritto appositamente per il libro e non è quindi mai apparso altrove, non essendo stato parte della serie di articoli Kings of Exploitation.
Figura in una certa misura minore del panorama dell’horror e dell’exploitation, Warren si è inserito nel cinema di genere inglese quando stava già cominciando a mostrare segni di cedimento commerciale, ma è comunque riuscito a lasciare un’impronta interessante e personale.
Come Pete Walker, Warren ha cominciato con film in cui l’erotismo era la caratteristica dominante e, come Walker, ha poi usato David McGillivray come sceneggiatore nel momento in cui è passato all’horror.
La sua carriera non conta molti titoli, ma presenta notevoli motivi di interesse. Nel capitolo a lui dedicato cerco di tracciarne l’evoluzione, a partire dai cortometraggi, che mostrano un regista raffinato e capace di raccontare con le immagini in modo elegante ed efficace. Il suo lungometraggio d’esordio, Her Private Hell denota la voglia di sperimentare e segnala uno sguardo attento alle sperimentazioni del cinema continentale. Ne è protagonista Lucia Modugno, attrice italiana incontrata più volte nell’exploitation nostrana (memorabile è il suo ruolo nella versione cinematografica del fumetto Isabella).
Quando si affaccia all’horror, con Satan’s Slave, Warren lo fa in modo spavaldo evivace, aiutato da McGillivray e da una sontuosa intepretazione di quel grande gigione dell’horror che fu Michael Gough. I film successivi sono diseguali, ma Terrore ad Amityville Park, torrido fantahorror erotico, è senz’altro da segnalare e anche l’argentiano Delirium House ha i suoi meriti, soprattutto per la brillantezza visuale e della messa in scena. Per non parlare del delirante Inseminoid, variante ginecologica di Alien.
L’ultima regia è Bloody New Year, un film curioso, se non proprio riuscito. Poi il crollo dell’industria cinematografica britannica lo allontana dalla regia, ma non lo fa dimenticare a tutti coloro che sono interessati a un cinema coraggioso e, a volte, fuori dagli schemi.
venerdì 31 luglio 2015
giovedì 23 luglio 2015
Kristy
Mettere una bella ragazza al centro di un intrico di pericoli è sempre stato uno dei leitmotiv del cinema thriller e horror. Le ragioni sono intuibili: è più naturale parteggiare (e quindi temere) per una persona apparentemente indifesa come può essere un'appartenente al cosiddetto sesso debole. Poi in realtà - e questo è forse l'aspetto più interessante - la ragazza spesso si dimostra tutt'altro che debole e indifesa. E questo anche tralasciando la "final girl" degli slasher.
Kristy di Olly Blackburn (Donkey Punch) è in uscita nei prossimi giorni nelle sale italiane e appartiene agli horror con le suddette caratteristiche. Ne è ottima protagonista Haley Bennett e se volete leggere la mia recensione per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un'immagine dal film, con Haley Bennett in versione strong.
Kristy di Olly Blackburn (Donkey Punch) è in uscita nei prossimi giorni nelle sale italiane e appartiene agli horror con le suddette caratteristiche. Ne è ottima protagonista Haley Bennett e se volete leggere la mia recensione per MYmovies non avete che da cliccare qui.
Qui sopra un'immagine dal film, con Haley Bennett in versione strong.
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mercoledì 22 luglio 2015
Burqa di Marco Pavone
Alan Burlesque è un uomo popolare, ricchissimo, di successo. Gaudente e donnaiolo, se la spassa alla grande con il suo harem personale. Ha un cagnolino di nome Vespasiano che lo accompagna e a cui è affezionato. Tutti lo chiamano il Capitano perché una volta salvò migliaia di persone con una manovra spericolata mentre si era trovato al timone di una nave. Capo del governo, attrae parlamentari dell’opposizione che si uniscono a lui chiedendogli soldi e offrendogli completa solidarietà. Il giornalista Agatangelos lo avversa e lo pressa e per il suo talk show preannuncia come ospite una ragazza che afferma d’essere stata in un’orgia con lui. Se qualcuno a questo punto comincia a cogliere qualche elemento di similitudine, il fatto che Burlesque abbia il volto di Berlusconi rende chiara la metafora. Burlesque gioca a biliardo con un cannoncino colpendo delle grandi palle da biliardo con dentro amici e personale. Ha contatti con consorterie segrete che rappresentano i poteri forti. Vuole costruire un grande grattacielo ed è divertito nel sentire che c’è chi lo ritiene un simbolo della sua potenza fallica. Ma ha i suoi problemi: è tormentato da incubi nei quali compare la morte con tanto di falce e dei magistrati dall’aria savonarolesca gli appaiono ovunque armati di avvisi di garanzia. Ma soprattutto, una misteriosa donna in burqa lo tormenta, comparendo ovunque in modo minaccioso.
Marco Pavone ha già dato buona prova di sé con alcuni cortometraggi d’animazione (il meritevole L’ultimo metrò è senz’altro da segnalare) nei quali il suo trascorso di disegnatore di fumetti si rende evidente e con questo film - Burqa - ha coraggiosamente affrontato la notevole sfida del lungometraggio animato.
L’animazione digitale è abbastanza fluida e gradevole anche se non ineccepibile (risente probabilmente del budget), ma i disegni sono di sicuro appeal, con un realismo trasfigurato che crea un’atmosfera curiosa, cupa e bizzarra. Lo stile è molto personale e i personaggi sono tratteggiati con abilità ed efficacia. L’uso del colore è attento e inventivo dando luogo a immagini fortemente caratterizzate e tenebrosamente attraenti. La storia prende spunto dalla realtà, ma ne dà una versione surreale, spesso trasformata, alterata, attraverso simbolismi e viluppi onirici in una rilettura psicanalitica della storia politica italiana degli ultimi decenni.
La storia (dello stesso Pavone che ha anche sceneggiato assieme a Giuseppe Sepe) è raccontata con qualche lentezza e qualche ripetizione. Come una sorta di Charles Foster Kane, Burlesque è visto in tutte le sue sfaccettature, nella sua grande potenza e nelle sue debolezze causate anche dal suo delirio di onnipotenza.
Alla fine la meditazione più che su Berlusconi è sul potere più o meno assoluto e su ciò che comporta in chi lo cerca o cerca di praticarlo. Burlesque ha il volto di Berlusconi per un effetto simbolico, ma il personaggio in sé è la sublimazione di un prototipoa sé stante e assume caratteristiche autonome tra analogie e diversità.
Incentrato su un mistero che monta sempre più, il film diventa quasi un delirante thriller psicanalitico, una specie di tenebroso viaggio nella psiche del potere.
Un po’ troppo lungo per il suo stesso bene, avrebbe beneficiato di un ritmo più serrato e di una rappresentazione più contenuta del lungo delirio finale, che presenta immagini suggestive, ma è forse troppo insistito. Il finale è adeguatamente spiazzante anche se forse un po’ troppo furbo nel rimescolamento delle carte.
Nell’insieme, Pavone dimostra capacità e ambizioni che fanno ben sperare per il prosieguo della sua carriera.
Marco Pavone ha già dato buona prova di sé con alcuni cortometraggi d’animazione (il meritevole L’ultimo metrò è senz’altro da segnalare) nei quali il suo trascorso di disegnatore di fumetti si rende evidente e con questo film - Burqa - ha coraggiosamente affrontato la notevole sfida del lungometraggio animato.
L’animazione digitale è abbastanza fluida e gradevole anche se non ineccepibile (risente probabilmente del budget), ma i disegni sono di sicuro appeal, con un realismo trasfigurato che crea un’atmosfera curiosa, cupa e bizzarra. Lo stile è molto personale e i personaggi sono tratteggiati con abilità ed efficacia. L’uso del colore è attento e inventivo dando luogo a immagini fortemente caratterizzate e tenebrosamente attraenti. La storia prende spunto dalla realtà, ma ne dà una versione surreale, spesso trasformata, alterata, attraverso simbolismi e viluppi onirici in una rilettura psicanalitica della storia politica italiana degli ultimi decenni.
La storia (dello stesso Pavone che ha anche sceneggiato assieme a Giuseppe Sepe) è raccontata con qualche lentezza e qualche ripetizione. Come una sorta di Charles Foster Kane, Burlesque è visto in tutte le sue sfaccettature, nella sua grande potenza e nelle sue debolezze causate anche dal suo delirio di onnipotenza.
Alla fine la meditazione più che su Berlusconi è sul potere più o meno assoluto e su ciò che comporta in chi lo cerca o cerca di praticarlo. Burlesque ha il volto di Berlusconi per un effetto simbolico, ma il personaggio in sé è la sublimazione di un prototipoa sé stante e assume caratteristiche autonome tra analogie e diversità.
Incentrato su un mistero che monta sempre più, il film diventa quasi un delirante thriller psicanalitico, una specie di tenebroso viaggio nella psiche del potere.
Un po’ troppo lungo per il suo stesso bene, avrebbe beneficiato di un ritmo più serrato e di una rappresentazione più contenuta del lungo delirio finale, che presenta immagini suggestive, ma è forse troppo insistito. Il finale è adeguatamente spiazzante anche se forse un po’ troppo furbo nel rimescolamento delle carte.
Nell’insieme, Pavone dimostra capacità e ambizioni che fanno ben sperare per il prosieguo della sua carriera.
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domenica 19 luglio 2015
The Transparent Woman di Domiziano Cristopharo
A causa di problemi finanziari, la coppia formata da Anna (Roberta Gemma) e Carlo (Arian Levanael) deve riposizionarsi: abbandonato l’appartamento in città, i due traslocano in una vecchia casa in campagna, dove un tempo Carlo abitava. Anna - che è cieca - non è contenta del cambiamento, ma Carlo la circonda d’affetto per farle superare i problemi di ambientamento. Carlo però deve lasciare sola Anna per impegni di lavoro. La donna sa badare a se stessa, anche grazie all’ausilio del suo telefonino, e non si preoccupa troppo. Ma qualcosa inizia a turbare la sua sicurezza: il disco che ascolta si interrompe, telefonate a vuoto. Piccole cose. Il ritorno di Carlo la sera rasserena l’ambiente. Ma nel cuore della notte Anna si sveglia e trova Carlo intento a fare qualcosa di misterioso. Le telefonate a vuoto si ripetono. Strani rumori incombono. Quando Anna comincia a spaventarsi, Carlo ricompare. Ma è chiaro che le cose non sono per niente tranquille. Anche perché c’è una stanza, la “sua” stanza, in cui Anna non dovrebbe entrare.
The Transparent Woman è il nuovo film di Domiziano Delvaux Cristopharo - giovane regista indipendente italiano di cui ho scritto spesso in questo blog - ed è sceneggiato da Andrea Cavaletto (che per Cristopharo ha già scritto Doll Syndrome), su soggetto dello stesso Cristopharo, Francesco Massaccesi (sceneggiatore, tra l’altro, di Weekend tra amici di Stefano Simone) ed Elio Mancuso (che per Cristopharo è stato attore nel segmento da lui diretto di E.N.D. The Movie, oltre ad aver scritto The Museum of Wonders).
L’inizio del film è rilassato, quasi circospetto: mostra i due personaggi mentre affrontano la nuova vita facendo leva sul loro affiatamento. La regia esplora la casa assieme ai protagonisti cercando di misurarne gli spazi e le oscurità. Gli elementi di disturbo, com’è tradizione degli horror ambientati in luoghi chiusi, vengono introdotti poco alla volta, dapprima come accenni.
Il ritmo è molto lento. La routine quotidiana della vita solitaria di Anna, rimasta sola dopo la partenza del marito, è mostrata senza fretta, con grande utilizzo di musica di accompagnamento per creare un’atmosfera languida e, per certi versi, serena. Anche l’uso del vinile, invece del digitale, dà un’impronta rétro, di cose perdute, come la musica suonata, ma ha una sua funzione narrativa sia per l’aspetto visuale del braccio e della puntina che scorre sul disco sia per la possibilità - utilizzata - di una interruzione brusca e preoccupante.
Cristopharo si concentra sulle immagini più che sulla storia - decisamente esile - e produce un insieme di immagini affascinanti e visualmente eleganti, con uno stile perfettamente riconoscibile, ma meno confrontazionale rispetto ai suoi film più controversi ed “estremi” (per le tematiche).
I dialoghi per larghi tratti sono ridotti all’osso per lasciare spazio al suggestivo mélange di immagini, colori e musica. L’atmosfera creata è sospesa, misteriosa. Il tempo però passa, ma i personaggi non vengono più di tanto approfonditi. Si resta nella superficie della loro psicologia e questo non aiuta a creare coinvolgimento nello spettatore.
La situazione della donna priva di vista e soggetta a oscure minacce rimanda a thriller di molti anni fa da Terrore cieco a Gli occhi della notte, mentre la situazione della moglie vittima di strane circostanze fa venire in mente miriadi di thriller, tra cui, non so perché, mi è passato per la testa Latidos de panico. La stanza chiusa, che nasconde segreti, rimanda - per la presenza di un rapporto di coppia in pericolo e la presenza di un pregresso misterioso - ex multis al classico di Fritz Lang, Dietro la porta chiusa. Ma la cecità rende la protagonista in un certo senso più pronta a fronteggiare gli inganni, poiché a volte la vista è un inganno in più.
Piccola digressione sistematica. Il film è un thriller-horror claustrofobico su una donna vulnerabile in pericolo. Il format è noto. Su tutto c’è un problema di base. Quando ci sono solo due personaggi, sostanzialmente, non è facile reggere un racconto basato su un mistero che si frappone tra i due. Sarebbe necessario alimentare una tensione sotterranea, un clima di reale incertezza che ci renda partecipi delle dinamiche relazionali, che ci faccia temere per una o entrambe le parti del rapporto o ci faccia dubitare di loro o di una di loro. Non è impossibile farlo, ma non è facile. Il problema è proprio di tecnica narrativa. Quando fai un thriller o un horror con un numero limitato di personaggi e un mistero sulla cui risoluzione punti tutto ai fini narrativi è molto difficile riuscire a trovare una soluzione che sia sorprendente, che cioè il pubblico non si aspetti: è una questione quasi matematica. Per questo esistono i red herrings e i falsi red herrings. Per questo si cerca di solito di mescolare le carte, ma se le carte sono poche (nel senso di personaggi) non è facile. Allora serve la soluzione del tutto a sorpresa. Un piccolo vecchio horror anni ’80 diretto da Arthur Allan Seidelman era tipico sotto questo profilo: La morte avrà i suoi occhi. Pretestuoso, certo, ma con un finale che spiazzava. Non da prendere a esempio, naturalmente, ma indicativo di un tentativo di superare il problema. Lì, peraltro, c’era Malcolm McDowell. Anche un film come Gli insospettabili - non certo un horror - resta un paradigma in questo senso, ma lì il gioco è tutto di sceneggiatura.
Cristopharo, come già accennato, è molto più interessato agli aspetti visuali e sotto questo profilo mostra una notevole maturità muovendo con discrezione ed efficacia la camera, senza strafare inutilmente, ricercando inquadrature efficaci, anche insolite quando serve, cambiando angolature per dare respiro e imprevedibilità alla visione. Anche l’uso del colore non è mai banale e costituisce sempre un valore aggiunto, che impreziosisce l’immagine. In sostanza, il regista manifesta uno stile sicuro e inventivo. Alcune sequenze sono particolarmente riuscite sotto questo profilo, come la ricerca delle perle da parte di Anna. Anche l’utilizzo del telefonino a descrivere le immagini alla donna non vedente è ingegnoso e porta al miglior momento del film, a livello di sorpresa.
La storia prende corpo soltanto verso la fine del film, quando cominciano a precisarsi i contorni del mistero che lega Carlo al suo passato, ma la sostanza non è molta e il ritmo narrativo non decolla, tendendo ad assecondare una visione estetizzante che se conferma, come detto, le qualità visuali di Cristopharo non risolve il problema dell’esilità della storia che sfocia in un finale che, arricchito da qualche dettaglio gore, è adeguato, ma non sorprendente.
Padre Mario è il classico elemento di dissonanza, di disturbo, non un vero red herring, ma qualcosa che gli assomiglia per il fatto di allargare, sia pure di poco, il parco dei personaggi in modo da instillare qualche incertezza. Anche perché Padre Mario, interpretato con esuberanza da Giovanna Nocetti, è davvero una presenza singolare, un piccolo colpo di genio di casting, che esprime una natura dissonante e disturbante in modo discreto senza che quasi lo spettatore se ne accorga. Il disagio, nel vederlo, è curioso e insinuante. Ha chiaramente la funzione di fornire informazioni (allo spettatore e alla protagonista), ma lo fa in modo inquietante. I due protagonisti sono in parte e garantiscono una resa funzionale dei loro personaggi.
Molto interessante e appropriata la colonna sonora (con musica originale di Salvatore Sangiovanni, Susan Dibona e musica addizionale Giovanna Nocetti), capace di arricchire in modo sinuoso ed efficace l’atmosfera. All’inizio, con i suoi fraseggi vocali di accompagnamento, sembra fare il verso ai thriller italiani degli anni ’70.
Molto belli anche i titoli di testa (e di coda) di Alessandro Redaelli (autore di uno degli episodi di Shock - My Abstraction of Death), con giochi di geometrie quasi a ricordare Saul Bass.
The Transparent Woman è il nuovo film di Domiziano Delvaux Cristopharo - giovane regista indipendente italiano di cui ho scritto spesso in questo blog - ed è sceneggiato da Andrea Cavaletto (che per Cristopharo ha già scritto Doll Syndrome), su soggetto dello stesso Cristopharo, Francesco Massaccesi (sceneggiatore, tra l’altro, di Weekend tra amici di Stefano Simone) ed Elio Mancuso (che per Cristopharo è stato attore nel segmento da lui diretto di E.N.D. The Movie, oltre ad aver scritto The Museum of Wonders).
L’inizio del film è rilassato, quasi circospetto: mostra i due personaggi mentre affrontano la nuova vita facendo leva sul loro affiatamento. La regia esplora la casa assieme ai protagonisti cercando di misurarne gli spazi e le oscurità. Gli elementi di disturbo, com’è tradizione degli horror ambientati in luoghi chiusi, vengono introdotti poco alla volta, dapprima come accenni.
Il ritmo è molto lento. La routine quotidiana della vita solitaria di Anna, rimasta sola dopo la partenza del marito, è mostrata senza fretta, con grande utilizzo di musica di accompagnamento per creare un’atmosfera languida e, per certi versi, serena. Anche l’uso del vinile, invece del digitale, dà un’impronta rétro, di cose perdute, come la musica suonata, ma ha una sua funzione narrativa sia per l’aspetto visuale del braccio e della puntina che scorre sul disco sia per la possibilità - utilizzata - di una interruzione brusca e preoccupante.
Cristopharo si concentra sulle immagini più che sulla storia - decisamente esile - e produce un insieme di immagini affascinanti e visualmente eleganti, con uno stile perfettamente riconoscibile, ma meno confrontazionale rispetto ai suoi film più controversi ed “estremi” (per le tematiche).
I dialoghi per larghi tratti sono ridotti all’osso per lasciare spazio al suggestivo mélange di immagini, colori e musica. L’atmosfera creata è sospesa, misteriosa. Il tempo però passa, ma i personaggi non vengono più di tanto approfonditi. Si resta nella superficie della loro psicologia e questo non aiuta a creare coinvolgimento nello spettatore.
La situazione della donna priva di vista e soggetta a oscure minacce rimanda a thriller di molti anni fa da Terrore cieco a Gli occhi della notte, mentre la situazione della moglie vittima di strane circostanze fa venire in mente miriadi di thriller, tra cui, non so perché, mi è passato per la testa Latidos de panico. La stanza chiusa, che nasconde segreti, rimanda - per la presenza di un rapporto di coppia in pericolo e la presenza di un pregresso misterioso - ex multis al classico di Fritz Lang, Dietro la porta chiusa. Ma la cecità rende la protagonista in un certo senso più pronta a fronteggiare gli inganni, poiché a volte la vista è un inganno in più.
Piccola digressione sistematica. Il film è un thriller-horror claustrofobico su una donna vulnerabile in pericolo. Il format è noto. Su tutto c’è un problema di base. Quando ci sono solo due personaggi, sostanzialmente, non è facile reggere un racconto basato su un mistero che si frappone tra i due. Sarebbe necessario alimentare una tensione sotterranea, un clima di reale incertezza che ci renda partecipi delle dinamiche relazionali, che ci faccia temere per una o entrambe le parti del rapporto o ci faccia dubitare di loro o di una di loro. Non è impossibile farlo, ma non è facile. Il problema è proprio di tecnica narrativa. Quando fai un thriller o un horror con un numero limitato di personaggi e un mistero sulla cui risoluzione punti tutto ai fini narrativi è molto difficile riuscire a trovare una soluzione che sia sorprendente, che cioè il pubblico non si aspetti: è una questione quasi matematica. Per questo esistono i red herrings e i falsi red herrings. Per questo si cerca di solito di mescolare le carte, ma se le carte sono poche (nel senso di personaggi) non è facile. Allora serve la soluzione del tutto a sorpresa. Un piccolo vecchio horror anni ’80 diretto da Arthur Allan Seidelman era tipico sotto questo profilo: La morte avrà i suoi occhi. Pretestuoso, certo, ma con un finale che spiazzava. Non da prendere a esempio, naturalmente, ma indicativo di un tentativo di superare il problema. Lì, peraltro, c’era Malcolm McDowell. Anche un film come Gli insospettabili - non certo un horror - resta un paradigma in questo senso, ma lì il gioco è tutto di sceneggiatura.
Cristopharo, come già accennato, è molto più interessato agli aspetti visuali e sotto questo profilo mostra una notevole maturità muovendo con discrezione ed efficacia la camera, senza strafare inutilmente, ricercando inquadrature efficaci, anche insolite quando serve, cambiando angolature per dare respiro e imprevedibilità alla visione. Anche l’uso del colore non è mai banale e costituisce sempre un valore aggiunto, che impreziosisce l’immagine. In sostanza, il regista manifesta uno stile sicuro e inventivo. Alcune sequenze sono particolarmente riuscite sotto questo profilo, come la ricerca delle perle da parte di Anna. Anche l’utilizzo del telefonino a descrivere le immagini alla donna non vedente è ingegnoso e porta al miglior momento del film, a livello di sorpresa.
La storia prende corpo soltanto verso la fine del film, quando cominciano a precisarsi i contorni del mistero che lega Carlo al suo passato, ma la sostanza non è molta e il ritmo narrativo non decolla, tendendo ad assecondare una visione estetizzante che se conferma, come detto, le qualità visuali di Cristopharo non risolve il problema dell’esilità della storia che sfocia in un finale che, arricchito da qualche dettaglio gore, è adeguato, ma non sorprendente.
Padre Mario è il classico elemento di dissonanza, di disturbo, non un vero red herring, ma qualcosa che gli assomiglia per il fatto di allargare, sia pure di poco, il parco dei personaggi in modo da instillare qualche incertezza. Anche perché Padre Mario, interpretato con esuberanza da Giovanna Nocetti, è davvero una presenza singolare, un piccolo colpo di genio di casting, che esprime una natura dissonante e disturbante in modo discreto senza che quasi lo spettatore se ne accorga. Il disagio, nel vederlo, è curioso e insinuante. Ha chiaramente la funzione di fornire informazioni (allo spettatore e alla protagonista), ma lo fa in modo inquietante. I due protagonisti sono in parte e garantiscono una resa funzionale dei loro personaggi.
Molto interessante e appropriata la colonna sonora (con musica originale di Salvatore Sangiovanni, Susan Dibona e musica addizionale Giovanna Nocetti), capace di arricchire in modo sinuoso ed efficace l’atmosfera. All’inizio, con i suoi fraseggi vocali di accompagnamento, sembra fare il verso ai thriller italiani degli anni ’70.
Molto belli anche i titoli di testa (e di coda) di Alessandro Redaelli (autore di uno degli episodi di Shock - My Abstraction of Death), con giochi di geometrie quasi a ricordare Saul Bass.
martedì 14 luglio 2015
Poltergeist
L'originale e i seguiti non bastavano, perciò ecco arrivato il remake di Poltergeist, una delle pietre miliari dell'horror degli anni '80. Ancora si dibatte se a dirigere l'originale davvero sia stato Tobe Hooper o Steven Spielberg (che figura come produttore), ma penso che questa volta non ci saranno dispute sulla paternità del film, tra Gil Kenan (regista) e Sam Raimi (uno dei produttori).
Chi è interessato a sapere cosa penso del film, può andare qui e leggersi la recensione che ho scritto (un paio di settimane fa, ma mi sono dimenticato di segnalarlo qui) per MYmovies.
Qui sopra un'immagine dal film (ma sono certo che l'avreste intuito anche se non ve l'avessi detto).
Chi è interessato a sapere cosa penso del film, può andare qui e leggersi la recensione che ho scritto (un paio di settimane fa, ma mi sono dimenticato di segnalarlo qui) per MYmovies.
Qui sopra un'immagine dal film (ma sono certo che l'avreste intuito anche se non ve l'avessi detto).
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mercoledì 8 luglio 2015
E.N.D. The Movie di Luca Alessandro, Allegra Bernardoni, Domiziano Cristopharo, Federico Greco
Quanti film di zombie sono stati prodotti negli ultimi decenni? Molti, non direi troppi, ma molti di sicuro. Abbastanza per richiedere un approccio originale a chi voglia inserirsi nel gruppo con l’idea di lasciare il segno. E.N.D. The Movie sceglie di avvicinarsi al tema in modo inizialmente minimalista per poi approdare a una rivisitazione stilisticamente affascinante di una situazione prototipica, concludendosi infine su un tentativo relativamente ambizioso di meditazione sul significato dell’essere diventato zombie e dell’essere rimasto umano. E se è vero che gli zombie, in fondo, da Romero in poi, siamo (anche) noi, la differenza è sfuggente e ambigua.
Il film è strutturato temporalmente in episodi riferiti a giorni specifici dal momento in cui parte una virulenta epidemia di zombite.
Day # 0: Questa volta il contagio zombesco si diffonde attraverso la cocaina. Nel bagno di un locale una donna (un simpatico cameo di Regina Orioli) assume cocaina e poi azzanna l’uomo (Patrizio Cigliano) che è con lei.
Day # 1 - Day # 2: In un’agenzia di pompe funebri, il truccatore di cadaveri Giorgio (Francesco Sannicandro) e gli amici Paolo (Giuseppe Ragone) e Sandra (Ilaria Baiocco) si risvegliano dopo una notte di bagordi nella sala d’esposizione delle bare e rimettono fretolosamente le cose a posto prima dell’arrivo del principale, Massimo (Antonio Bilo Canella). Che in effetti arriva accompagnato dal signor Ricchi (Marco Di Stefano), lì per le esequie del figlio morto dopo una lunga malattia. Ricchi vuole una bara speciale, dalla quale si possa uscire. Dev’essere pronta per la mattina dopo. Il mattino dopo Giorgio si sveglia tardi sempre nella sala delle bare e consiglia agli amici di bevute Paolo e Sandra, ancora assonnati, di restare a dormire nelle bare perché non c’è tempo per rimettere a posto. Ricchi arriva: la bara è pronta. Massimo ha anche dei torbidi affari in ballo che saranno cruciali per lo sviluppo degli avvenimenti. Una ragazza affannata e spaventata arriva e chiede se non sanno davvero nulla di cosa sta accadendo. Mentre è lì la radio trasmette un allarmato comunicato del Ministero dell’Interno: un virus propagato da una partita di cocaina tagliata male sta spargendosi a vista d’occhio rendendo chi ne è vittima molto aggressivo. Pare addirittura che i morti tornino in vita.
Indeciso sull’essere horror o commedia, il film parte in modo guardingo manovrando luoghi comuni con una certa circospezione e cercando di caratterizzare personaggi che restano comunque appena abbozzati. Nel descrivere un’epidemia globale e devastante, rimane un film da camera, confinato in un luogo nel quale filtrano le notizie dall’esterno. Corretto nell’esposizione, ma poco coinvolgente, risulta un po’ monotono e piatto e non trova un’inventiva visuale tale da caratterizzare in modo autonomo gli eventi riscattandoli dalla prevedibilità. Condizionato forse, dal punto di vista narrativo, dalla necessità di introdurre la situazione, resta quindi un po’ ingessato, pur svolgendo funzionalmente il suo compito. Diretto collettivamente da Luca Alessandro, Allegra Bernardoni e Federico Greco.
Day # 1466: Il contagio si è cosparso velocemente e l’esercito statunitense interviene per creare un cordone sanitario lungo i confini italiani. Un furgoncino percorre una stradina nel bosco. A bordo, oltre al guidatore (Wayne Abbruscato), due donne, una delle quali, la più giovane (Aurora Kostova), incinta. Uno zombie compare sul sentiero. L’autista lo investe, ma la manovra blocca il furgoncino che non riparte più. Il guidatore fa scendere le donne, ma gli zombie attaccano e uccidono la donna più anziana. Benché colpita al cervello, una zombie risorge contro ogni regola romeriana. Il guidatore e la donna incinta si rifugiano in un casolare che liberano a fatica da diversi zombie. La donna avverte che il feto è morto, nonostante l’uomo le dica che si muove ancora. Hanno ragione entrambi.
Questo episodio centrale è sostanzialmente l’opposto del precedente, ambientato com’è in esterni, in una natura indifferente alle sorti degli uomini. Più dinamico e orientato all’uso degli effetti speciali, mette in scena con un certo vigore una classica lotta contro gli zombie. La situazione rimanda chiaramente a La notte dei morti viventi, ma non mancano riferimenti ad Antropophagus (la sceneggiatura è di Antonio Tentori). I dialoghi sono ridotti all’osso e l’enfasi è sugli aspetti visuali e sull’azione. Concettualmente, l’episodio non dice molto di nuovo sul tema - qualcosa sì, però, come il risvolto macabro sul rapporto tra madre e nascituro - ma è vivace, ben diretto, con un’ottima fotografia e una buona tensione. Alcune immagini sono fortemente evocative (su tutte quella della donna con il feto davanti alle mani protese dei morti viventi). Se gli altri episodi sono narrativamente collegati, questo sembra del tutto a se stante - pur rappresentando una necessaria fase intermedia nella narrazione - e si staglia sul resto del film come l’episodio migliore. La regia è di Domiziano Cristopharo (chi segue questo blog sa che ho parlato diverse volte dei suoi film: per esempio qui, qui e qui), che, dopo film decisamente tosti, sembra essersi preso una simpatica vacanza nel cuore dell’horror. Si rivede con piacere l'intensa Aurora Kostova, già in Doll Syndrome, affiancata dal vigoroso Wayne Abbruscato, perfettamente in parte.
Day # 2333: Un rapporto radiofonico criptato rivela che le armi da fuoco non fanno più effetto contro gli zombie e neanche colpirli alla testa serve più. Non si può più ucciderli, ma solo renderli inermi. Il numero dei contagiati ha superato quello dei sani. Il dottor Mengels, però, a Roma, città da dove è partito tutto, sta perfezionando un veleno anti-zombie. In un bunker sotterraneo alcuni zombie sono tenuti prigionieri dai soldati. Tra gli zombie, Giorgio che viene liberato da uno dei soldati, in realtà anch’egli zombie, il figlio del signor Ricchi. Gli zombie infatti si sono organizzati, ragionano e hanno strategie.
Se l’episodio precedente rimandava a La notte dei morti viventi, questo richiama Il giorno degli zombi, invertendone in qualche misura la situazione e fornendone una sorta di parodia nella quale l’ironia la fa da padrona, con gli zombie che parlano tra loro grugnendo mentre i sottotitoli ci decifrano i loro versi gutturali. Il risultato è a tratti simpatico per l’inversione dei ruoli e la dinamica relazionale. E la riflessione sul ruolo degli zombie, attuata dal punto di vista degli zombie stessi (anche loro in fondo vittime della situazione), è interessante e originale, pur se non proprio chiaramente definita. L’episodio ripropone i personaggi dell’inizio mostrandone il destino. Federico Greco - coautore del non dimenticato Il mistero di Lovecraft - Road to L. (ben dieci anni fa: è proprio il caso di dire che il tempo vola) - lo dirige con buona mano, indulgendo forse un po’ troppo nel privilegiare, visivamente, tonalità oscure e tenebrose che non sempre aiutano a dipanare una narrazione talvolta confusa.
Come tutti i film diretti a più mani, il film è inevitabilmente diseguale, ma diversamente dai classici film a episodi mantiene un’apprezzabile unitarietà tematica e narrativa. Le sia pur relative novità che propone e, soprattutto, la qualità che traspare lo rendono un tentativo positivo di portare un nuovo mattone alla costruzione dell’epopea zombie. Apprezzabile, nell'insieme, la prova del cast.
Il film è strutturato temporalmente in episodi riferiti a giorni specifici dal momento in cui parte una virulenta epidemia di zombite.
Day # 0: Questa volta il contagio zombesco si diffonde attraverso la cocaina. Nel bagno di un locale una donna (un simpatico cameo di Regina Orioli) assume cocaina e poi azzanna l’uomo (Patrizio Cigliano) che è con lei.
Day # 1 - Day # 2: In un’agenzia di pompe funebri, il truccatore di cadaveri Giorgio (Francesco Sannicandro) e gli amici Paolo (Giuseppe Ragone) e Sandra (Ilaria Baiocco) si risvegliano dopo una notte di bagordi nella sala d’esposizione delle bare e rimettono fretolosamente le cose a posto prima dell’arrivo del principale, Massimo (Antonio Bilo Canella). Che in effetti arriva accompagnato dal signor Ricchi (Marco Di Stefano), lì per le esequie del figlio morto dopo una lunga malattia. Ricchi vuole una bara speciale, dalla quale si possa uscire. Dev’essere pronta per la mattina dopo. Il mattino dopo Giorgio si sveglia tardi sempre nella sala delle bare e consiglia agli amici di bevute Paolo e Sandra, ancora assonnati, di restare a dormire nelle bare perché non c’è tempo per rimettere a posto. Ricchi arriva: la bara è pronta. Massimo ha anche dei torbidi affari in ballo che saranno cruciali per lo sviluppo degli avvenimenti. Una ragazza affannata e spaventata arriva e chiede se non sanno davvero nulla di cosa sta accadendo. Mentre è lì la radio trasmette un allarmato comunicato del Ministero dell’Interno: un virus propagato da una partita di cocaina tagliata male sta spargendosi a vista d’occhio rendendo chi ne è vittima molto aggressivo. Pare addirittura che i morti tornino in vita.
Indeciso sull’essere horror o commedia, il film parte in modo guardingo manovrando luoghi comuni con una certa circospezione e cercando di caratterizzare personaggi che restano comunque appena abbozzati. Nel descrivere un’epidemia globale e devastante, rimane un film da camera, confinato in un luogo nel quale filtrano le notizie dall’esterno. Corretto nell’esposizione, ma poco coinvolgente, risulta un po’ monotono e piatto e non trova un’inventiva visuale tale da caratterizzare in modo autonomo gli eventi riscattandoli dalla prevedibilità. Condizionato forse, dal punto di vista narrativo, dalla necessità di introdurre la situazione, resta quindi un po’ ingessato, pur svolgendo funzionalmente il suo compito. Diretto collettivamente da Luca Alessandro, Allegra Bernardoni e Federico Greco.
Day # 1466: Il contagio si è cosparso velocemente e l’esercito statunitense interviene per creare un cordone sanitario lungo i confini italiani. Un furgoncino percorre una stradina nel bosco. A bordo, oltre al guidatore (Wayne Abbruscato), due donne, una delle quali, la più giovane (Aurora Kostova), incinta. Uno zombie compare sul sentiero. L’autista lo investe, ma la manovra blocca il furgoncino che non riparte più. Il guidatore fa scendere le donne, ma gli zombie attaccano e uccidono la donna più anziana. Benché colpita al cervello, una zombie risorge contro ogni regola romeriana. Il guidatore e la donna incinta si rifugiano in un casolare che liberano a fatica da diversi zombie. La donna avverte che il feto è morto, nonostante l’uomo le dica che si muove ancora. Hanno ragione entrambi.
Questo episodio centrale è sostanzialmente l’opposto del precedente, ambientato com’è in esterni, in una natura indifferente alle sorti degli uomini. Più dinamico e orientato all’uso degli effetti speciali, mette in scena con un certo vigore una classica lotta contro gli zombie. La situazione rimanda chiaramente a La notte dei morti viventi, ma non mancano riferimenti ad Antropophagus (la sceneggiatura è di Antonio Tentori). I dialoghi sono ridotti all’osso e l’enfasi è sugli aspetti visuali e sull’azione. Concettualmente, l’episodio non dice molto di nuovo sul tema - qualcosa sì, però, come il risvolto macabro sul rapporto tra madre e nascituro - ma è vivace, ben diretto, con un’ottima fotografia e una buona tensione. Alcune immagini sono fortemente evocative (su tutte quella della donna con il feto davanti alle mani protese dei morti viventi). Se gli altri episodi sono narrativamente collegati, questo sembra del tutto a se stante - pur rappresentando una necessaria fase intermedia nella narrazione - e si staglia sul resto del film come l’episodio migliore. La regia è di Domiziano Cristopharo (chi segue questo blog sa che ho parlato diverse volte dei suoi film: per esempio qui, qui e qui), che, dopo film decisamente tosti, sembra essersi preso una simpatica vacanza nel cuore dell’horror. Si rivede con piacere l'intensa Aurora Kostova, già in Doll Syndrome, affiancata dal vigoroso Wayne Abbruscato, perfettamente in parte.
Day # 2333: Un rapporto radiofonico criptato rivela che le armi da fuoco non fanno più effetto contro gli zombie e neanche colpirli alla testa serve più. Non si può più ucciderli, ma solo renderli inermi. Il numero dei contagiati ha superato quello dei sani. Il dottor Mengels, però, a Roma, città da dove è partito tutto, sta perfezionando un veleno anti-zombie. In un bunker sotterraneo alcuni zombie sono tenuti prigionieri dai soldati. Tra gli zombie, Giorgio che viene liberato da uno dei soldati, in realtà anch’egli zombie, il figlio del signor Ricchi. Gli zombie infatti si sono organizzati, ragionano e hanno strategie.
Se l’episodio precedente rimandava a La notte dei morti viventi, questo richiama Il giorno degli zombi, invertendone in qualche misura la situazione e fornendone una sorta di parodia nella quale l’ironia la fa da padrona, con gli zombie che parlano tra loro grugnendo mentre i sottotitoli ci decifrano i loro versi gutturali. Il risultato è a tratti simpatico per l’inversione dei ruoli e la dinamica relazionale. E la riflessione sul ruolo degli zombie, attuata dal punto di vista degli zombie stessi (anche loro in fondo vittime della situazione), è interessante e originale, pur se non proprio chiaramente definita. L’episodio ripropone i personaggi dell’inizio mostrandone il destino. Federico Greco - coautore del non dimenticato Il mistero di Lovecraft - Road to L. (ben dieci anni fa: è proprio il caso di dire che il tempo vola) - lo dirige con buona mano, indulgendo forse un po’ troppo nel privilegiare, visivamente, tonalità oscure e tenebrose che non sempre aiutano a dipanare una narrazione talvolta confusa.
Come tutti i film diretti a più mani, il film è inevitabilmente diseguale, ma diversamente dai classici film a episodi mantiene un’apprezzabile unitarietà tematica e narrativa. Le sia pur relative novità che propone e, soprattutto, la qualità che traspare lo rendono un tentativo positivo di portare un nuovo mattone alla costruzione dell’epopea zombie. Apprezzabile, nell'insieme, la prova del cast.
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