lunedì 16 gennaio 2012
I Love You Like a Twist
Il panorama del cinema indipendente, spesso caratterizzato da low e no-budget e molto entusiasmo, propone più di qualche volta incursioni nel campo dell’horror, probabilmente non a caso uno dei generi più frequentati dai giovani registi. Talvolta, seguendo la spinta alla contaminazione dei generi che accompagna la sperimentazione e la voglia di affastellare tutte o quasi le proprie ispirazioni, l’horror non è il genere di assoluto riferimento, ma è un ingrediente forte di un cocktail che contiene anche altro. Di Lorenzo Lepori avevo visto Il vangelo secondo Taddeo, un horror esuberante e scombinato che inseriva elementi da pulp tarantiniano in un contesto orrorifico a suo modo tradizionale (come, del resto, si sa, aveva fatto lo stesso Tarantino sceneggiatore di Dal tramonto all’alba).
I Love You Like a Twist, il nuovo film di Lepori, segue in parte la stessa strada ma segna un deciso passo in avanti rispetto a Taddeo, facendo piazza (quasi) pulita delle imprecisioni e degli errori di inesperienza del film precedente. Anche in questo caso, gli elementi narrativi sono una sorta di noir da periferia degradata e un horror ancor più tradizionale. Solo che stavolta, la prevalenza è nella crime story e l’horror fa da contorno.
Dino Strano (Pio Bisanti) fa il killer, dopo essere evaso dal carcere dov’era rinchiuso. Dopo un’esecuzione di massa in un bar, si porta via nel baule dell’auto una ragazza (Valentina Poddighe) che, nel corso della sparatoria, l’aveva ferito con un colpo di pistola. Senza spiegazioni, consegna la macchina al suo amico Charlie (Stefano Boni) incaricandolo di portarla a un appuntamento dove qualcuno che sa cosa c’è nel baule se lo prenderà in consegna. Charlie - che non sa cosa contiene il bagagliaio - esegue, ma per sicurezza porta con sé due amici sbulinati: uno violento e l’altro strafatto. Il violento è seccato perché la sua ragazza non si fa viva da tre giorni: i tre amici ne approfittano per disquisire sulla natura poco fedele e comprensiva delle donne. Nel frattempo, Dino va a farsi curare da una sorta di cinese. Ma naturalmente ha anche altro in mente. Fatta la consegna, Charlie e i suoi scoprono che il “pacco” è una ragazza e che chi lo riceve è una setta satanica dalle intenzioni programmaticamente poco raccomandabili.
Recentemente ho letto un’intervista a Herschell Gordon Lewis (su Videoscope #73, Winter 2010) nella quale il creatore dello splatter dava tre consigli agli aspiranti registi: 1) tenere l’ego fuori dalla porta; 2) non girare con la macchina a mano; 3) non dare a parenti e amici ruoli da protagonista solo perché sono parenti e amici. Sui consigli 1 e 3 non posso garantire, ma di certo Lepori ha dato in gran parte retta al secondo consiglio - pur senza magari averlo ricevuto - perché le inquadrature e i movimenti di macchina sono spesso sobri e rilassati, soprattutto rispetto al delirium tremens di Taddeo, senza che ne abbia a soffrire la tensione narrativa. Anzi. La scelta del bianco e nero è vincente dal punto di vista figurativo perché dà alla storia il sordido realismo e l’austerità di cui aveva bisogno, smussando le limitazioni scenografiche che il colore avrebbe evidenziato. L’umorismo e l’ironia sono spesso ben giocati e ci sono alcuni momenti da teatro dell’assurdo che si sposano senza fatica con la caratterizzazione fumettistica dei personaggi. I dialoghi sono generalmente simpaticamente tosti e pulp: “Un orgasmo di frattaglie” vagheggia speranzoso uno dei satanisti; “Ti ha reso una schifezza” commenta amaramente l’amico violento vedendo lo strafatto ridotto a scheletro. I momenti di splatter sono molto più ridotti - sempre rispetto a Taddeo, la mia pietra di paragone - e anche questo è un bene, per molti motivi, non ultimo dei quali il fatto che la storia non ne necessitava. C’è un maggiore citazionismo cinefilo, ma anche questo è autoironico: per esempio, all’inizio uno dei gangster trucidato parla con dialoghi formati da titoli di vecchi film. Nei titoli di coda, poi, c’è una lunga elencazione che a vario titolo presenta nomi indicativi delle preferenze e dei riferimenti del regista. Tra i molti: Larry Buchanan (mitico autore di Zontar: The Thing from Venus) e i Blue Oyster Cult, per i quali scrisse alcuni testi Michael Moorcock, il creatore di Jerry Cornelius. Poi altri nomi assortiti dell’exploitation (e non) da Di Leo a John Agar, da Roger Corman al Dizionario Stracult di Marco Giusti. Il film, inoltre, è dedicato alla memoria di Kevin McCarthy, Leslie Nielsen, Bobby Farrel, Juan Piquer Simon e Tura Satana. I titoli di coda sono quindi un momento di affermazione delle proprie radici e debiti culturali.
Non mancano i difetti, com’è forse inevitabile. Certi episodi apertamente parodistici - come quello del cinese - non funzionano del tutto, perché l’iperbole si scontra con l’inadeguatezza e non ne risulta vincitrice, anche se, pure lì, non mancano momenti divertenti. La mescolanza tra noir urbano e horror si compie nella parte finale in modo abbastanza naturale, ma, per quanto lo sbocco non sia forzato, la parte horror risente di qualche goffaggine nella messa in scena che la parte thriller riesce quasi sempre a evitare. Il mostro - figurativamente più suggestivo che efficace, ma non male - è un richiamo agli horror sparagnini del primo Corman e a quelli che li hanno imitati, da The Monster of Piedras Blancas a tanti altri. Il suo ingresso in scena porta il film in un’altra dimensione, ma non in quella migliore. Mostro e satanismo sono la faccia più sbrigativa del film, ancorché non priva di interesse.
Il vero colpo di scena del film è la comparsa nel finale di Gianni Dei, icona di decenni dell’exploitation italiana. Il confronto finale è da melodramma, anzi da feuilleton, ma dà al film una chiusa adeguatamente tragica e un senso compiuto. Sempre nell’ottica di un’ironia che è il tratto caratteristico del film e gli evita la caduta nel trucido.
Stranezze caratteriali e curiosità comportamentali si amalgamano in un insieme il cui collante è la musica - prevalentemente rock, ma non solo - che accompagna quasi incessantemente le immagini non sempre riuscendo a evitare di sovrapporsi in modo preponderante al parlato.
Buono il montaggio, abbastanza stringente, e apprezzabile nel complesso la recitazione che - a parte il veterano Dei - ha punte di buon esito soprattutto nel protagonista Pio Bisanti. Ma tutti gli attori principali si dimostrano adatti al ruolo e piuttosto disinvolti, da Stefano Boni a Roberto Cardelli al trasognato Andrea Di Vita. Anche la regia mostra una crescita e una maggiore maturità rispetto al film precedente, con una buona attenzione compositiva.
La sceneggiatura è di Valentina Vannelli, apprezzabile nei dialoghi e nella scansione dei fatti. Forse una maggiore definizione - a livello del soggetto - della parte horror avrebbe potuto darle più originalità e migliorare la sua fusione con il resto della storia. Curiosamente, per essere un film sceneggiato da una donna, quello del film è un universo totalmente maschile e in parte misogino (anche se probabilmente ciò discende dalla caratterizzazione e dalla tipologia dei personaggi), in cui le donne sono una presenza del tutto marginale e, più o meno, solo come vittime. A parte la “strega”, la satanista - che peraltro è un personaggio del tutto di maniera - mancano figure femminili forti.
Nel complesso, il film è simpatico, si vede volentieri e costituisce un buon auspicio per i prossimi.
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