giovedì 10 novembre 2011
Bob Dylan e Mark Knopfler a Padova: una recensione.
Di nuovo a Padova a distanza di poco più di un anno (del precedente concerto ho parlato qui). E con Mark Knopfler. Da non credere per la comodità (per me, naturalmente). Diversamente dall’anno scorso, stavolta i posti a sedere nel Palafabris - caratterizzato ahimè da un’acustica ben poco commendevole - non sono davanti al palco, ma in fondo e ai lati, nelle tribune e gradinate del palazzetto. Il campo da gioco, invece, è riservato ai posti in piedi. Evidentemente, si è preso atto dell’impossibilità di impedire l’accesso al fronte palco ai soliti noti.
Comunque. Il Palafabris era assai gremito. Non ce l’ho fatta a contare tutti i presenti perché ho subito finito le dita delle mani, ma il colpo d’occhio era imponente. Con perfetta puntualità, notevole professionalità e grande cordialità, Mark Knopfler si è presentato sul palco circa alle nove con una nutrita band di sette elementi (più Knopfler) con chitarre e altri strumenti a corda in bella evidenza. Come anticipato dagli altri concerti del tour, il set è stato composto prevalentemente da pezzi del repertorio “solo” di Knopfler, perlopiù ignoti al pubblico che ha però dimostrato educatamente di gradire. Il tono era da folk-rock alla britannica, soft e sufficientemente delicato, con ampi spazi per virtuosismi strumentali non solo di Knopfler. I momenti topici, nei quali il pubblico si è sicuramente scaldato di più (al di là del fatto che la temperatura media del palazzetto era torrida) sono stati quelli dell’esecuzione di due vecchi e gloriosi cavalli di battaglia dei Dire Straits: la fantastica e sempre struggente Brother in Arms e la coinvolgente So Far Away, eseguite come di consueto quale premio finale alla disponibilità della folla.
Qualche minuto per la risistemazione del palco ed è stata la volta di Bob Dylan, accompagnato dalla sua solita band di cinque elementi (l’immarcescibile Tony Garnier al basso, George Recile alla batteria, Stu Kimball alla chitarra ritmica, Charlie Sexton alla chitarra più o meno solista e Donnie Herron a tutto il resto). Nei primi quattro brani, com’è divenuta consuetudine di questo tour, si è unito a loro Mark Knopfler, come guest star alla chitarra.
Il confronto tra la band di Dylan e quella di Knopfler sulle prime può sembrare impietoso: più elegante, raffinata, tecnicamente ineccepibile e maggiormente “colorata” nei toni e nelle sfumature del ricamo musicale quella dell’ex Dire Straits. Però è probabile che il sound attuale del gruppo di Dylan sia rispondente a una scelta precisa. Sexton, per fare un esempio, è chitarrista abile e virtuoso: se adesso brilla poco e ha poco spazio per assoli trascinanti non è perché non li sappia fare. Dylan, forse anche per lo stato della sua voce (rotta, strappata, gracchiante: anche se, curiosamente, non sempre), punta a un rock-blues tosto, duro, aspro, molto percussivo e ritmato, a volte troppo quadrato forse, ma anche capace di suadenti nuance. Non c’è più spazio per l’arpeggio elettrico alla Grateful Dead di una volta o al gioco chitarristico acustico che era tipico dei concerti degli anni ‘90. Il sound attuale è evidentemente quello che Dylan vuole e la band lo realizza con adesione. Possono esserci rimpianti per ciò che non c’è più, ma, per quanto mi riguarda, preferisco godermi quello che c’è, che non è affatto poco.
La scaletta è stata il consueto alternarsi tra pezzi scatenati e pezzi più riflessivi.
Leopard-Skin Pill-Box Hat ha aperto il concerto con la giusta enfasi sul ritmo, arricchito dai florilegi chitarristici di Mark Knopfler a dare respiro musicale. È un vecchio cavallo di battaglia un po’ abusato, ma sempre capace di scaldare l’ambiente.
It Ain’t Me, Babe è tra i vecchi pezzi uno di quelli che più soffre per l’arrangiamento duro cui è stato sottoposto. Nonostante gli interventi di Knopfler, si è persa l’atmosfera suggestiva di un vero e proprio manifesto dell’indipendenza sentimentale. Eppure, all’epoca del tour del ‘66 e della Rolling Thunder Revue, It Ain’t Me, Babe era stato elettrificato e roccheggiato in modo assai convincente. Bello l’assolo di armonica, comunque.
Things Have Changed è invece una canzone che migliora con gli anni, sempre più attuale, sempre più simbolo di anni di disillusione. Superba la resa di Dylan che “recita” simpaticamente i versi senza detrarne significato, ma anzi aggiungendo amara e ironica consapevolezza. Notevole il lavoro di Knopfler alla chitarra e strepitosa l’armonica di Dylan, stridente e agghiacciante (non quanto quella di Mama You Been On My Mind ai Festival di Phoenix, ma ci siamo vicini).
Mississippi: versione dira e spigolosa di una delle migliori canzoni del repertorio recente di Dylan. Knopfler, alla sua ultima partecipazione, la arricchisce con la sua inconfondibile chitarra e la potenza della canzone emerge fumante e tagliente.
Honest With Me, con Dylan alla chitarra, è il classico pezzo funzionale a intervallare canzoni più pregnanti. Devo dire che è un brano che non mi ha mai detto granché e continua a non dirmelo, ma è un bluesaccio elettrico che mantiene quello che promette.
Tangled Up in Blue: un altro classico, ultimamente rivitalizzato da un ennesimo nuovo arrangiamento che se non altro ne rinvigorisce l’indubbio fascino (è una delle più belle canzoni di Blood on the Tracks). Notevole il lavoro all’armonica di Dylan.
The Levee’s Gonna Break, in tempi di inondazioni ha la sua attualità (High Water sarebbe stata ancora più pregnante, oltre che più bella) e svolge una funzione simile a quella di Honest With Me, ma con maggiore qualità.
Desolation Row è tra i super classici, una canzone che per definizione non può deludere. L’arrangiamento è quello ormai consueto da decenni, con appena qualche spigolosità in più. La parata di mostri resta sempre amaramente vera.
Highway 61 Revisited: questa non manca mai, immutabile e immarcescibile.
Man in the Long Black Coat: una delle canzoni più profonde, belle di Dylan, da un album di eccezionale spessore (Oh Mercy), in un nuovo arrangiamento, soft e ritmato,arricchito da un’armonica straziante. Forse il punto più alto della serata, inquieto e inquietante.
Thunder on the Mountain: divertissement eseguito con brio e con gusto.
Ballad of a Thin Man: un’altra canzone che non delude mai e che, semplicemente, Dylan non riesce a eseguire male. Un’altra ottima versione, senza i giochi di luce che eravamo abituasti a vedere, ma con una sostanza concreta e spiazzante che non ha perso un grammo della sua forza nonostante i 46 anni d’età.
All Along the Watchtower: ha occupato per anni il terzo slot della scaletta e tuttora è una delle canzoni più eseguite in concerto. Anche questa è una canzone che riesce sempre bene, ma stavolta è stata un po’ in tono minore, senza lo sviluppo devastante e trascinante cui siamo stati abituati. Non male, comunque.
Like A Rolling Stone è stata la degna conclusione con la sua rabbia classica nella descrizione di una caduta precipitosa dal benessere che non è solo il destino di un singolo ma, di questi tempi, sembra poter essere quello di intere nazioni che forse scopriranno come ci si sente a non avere più una direzione verso casa. Devastante e scatenata.
Non c’è spazio per i bis, consuetudine rarissima in questo tour da doppio programma. Non ci si può però lamentare: dalle nove sin quasi a mezzanotte di musica serrata e senza pause. Niente male.
Il bello delle migliori canzoni di Bob Dylan è di rifiutarsi di essere datate, di acquistare sempre nuovi significati in aderenza con i tempi che cambiano, senza che esse abbiano bisogno di cambiare.
Dylan è apparso vivace, di buon umore, ha dispensato sorrisi e ha accennato a passi di danza: la sua voce è rotta, ma resta espressiva. Sembra piacergli quello che fa. E piace anche a me (quello che fa lui).
Etichette:
Bob Dylan,
concerto,
live,
Mark Knopfler,
Padova,
Palafabris,
recensione
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
3 commenti:
E´meraviglioso leggere che Bob abbia regalato per due sere di fila. In Germania ha avuto delle serate non proprio OK, mi dicono. A Innsbruck ha ballato e gesticolato molto, ed ha cantato davvero bene.
Ottima la disquisizione sul sound, che comunque mi pare si sia finalmente assestato (negli anni 2001-2008 ho sentito cose non proprio esaltanti). O forse era il posto VIP che mi dava l'acustica giusta?
Levee: mi piace pensare che, oltre alle inondazioni, possa avere un significato più globale, del tipo "Se va avanti così, ci molla tutto il giochino". Ma con Bob, chi lo sa...certo, un pezzo perfetto per le date italiane.
bel post, qui a Milano ieri sera suppergiù la stessa cosa... che musica, ragazzi... tre ore smaglianti a 50 euro, mica male di questi tempi ;-)
I eenjoyed reading this
Posta un commento