sabato 16 novembre 2019

Cattive storie di provincia




Cattive storie di provincia è il nuovo film di Stefano Simone, regista di cui mi sono occupato più volte in questo blog, e rappresenta il suo ritorno al thriller dopo alcuni film nei quali erano state tematiche di impegno sociale a prevalere. Tratto liberamente dall’omonimo lavoro letterario di Gordiano Lupi, il film segue un percorso narrativo articolato, ma piuttosto semplice e lineare.

Giacomo Lupi (Luigi Armiento) è un giovane scrittore in difficoltà. Sono passati tre anni dal suo ultimo romanzo - che peraltro non ha nemmeno avuto un particolare successo - ed è in totale crisi creativa, del tutto paralizzato e incapace di creare qualcosa di nuovo. La moglie Mara (Rosa Fariello) non manca di manifestargli il proprio disprezzo sia perché la trascura sia perché non è in grado di garantirle un adeguato tenore di vita. L’editore (Filippo Totaro) lo sollecita a produrre dandogli una sorta di ultimatum: se non gli porterà qualcosa entro due mesi risolverà il contratto. Giacomo non sa che pesci pigliare. In suo soccorso arriva un amico che gli consiglia di guardarsi intorno e di trarre spunti dalla realtà che lo circonda. Incapace di trovare alternative, Giacomo segue il consiglio dell’amico e osserva. Il metodo sembra funzionare e arrivano i primi spunti permettendo a Giacomo di ricominciare a scrivere di buona lena. Ma qualche conseguenza c’è.

La storia presenta motivi di interesse e tratteggia in modo convincente l’arco psicologico del personaggio principale che da inerte diventa osservatore e poi sempre più partecipe agli avvenimenti. Le cose che non vengono spiegate o vengono presentate, per così dire, in lontananza con la conseguente (e preziosa) ambiguità danno un tono adeguatamente misterioso alla vicenda. Si alternano sequenze mute - in genere le più efficaci anche per la capacità di Simone nella scelta delle inquadrature e del contesto scenico - ad altre molto dialogate che spiegano la situazione sin troppo nei dettagli (pur senza, opportunamente, dire tutto) e sono talvolta un po’ piatte e meramente funzionali.

Ma il difetto principale del film è la sua lentezza che, unita a un’eccessiva lunghezza (quasi due ore), rallenta troppo il ritmo dilatando gli avvenimenti oltre quanto sarebbe opportuno per rendere del tutto avvincente e godibile la visione. Eppure, il montaggio (a cura di Simone) di alcune sequenze - veloce, con molti stacchi ripetuti - evidenzia una capacità narrativa che, se applicata anche al resto del film, lo avrebbe reso, a mio avviso, migliore. In questo senso, è esemplare in senso positivo la parte conclusiva, soprattutto la sequenza chiave del film, risolta quasi senza parole - con il solo monologo molto efficace di Rosa Fariello - e con un azzeccato uso della colonna sonora, in modo da massimizzare l’efficacia e da garantire un’economia narrativa altrove assente.

Gli interpreti hanno un’efficacia perlopiù variabile: a volte (più spesso, per la verità) si dimostrano efficaci e in parte, altre volte denotano incertezze dovute probabilmente a inesperienza. Il più continuo ed efficace è Filippo Totaro, aiutato anche dal fatto che il suo ruolo è giocato su toni ironici e sopra le righe che gli sono congeniali. Oltre alla regia e al montaggio, Simone cura anche la fotografia - molto buona e con ottima scelta dei colori - e scrive la sceneggiatura. Efficace ed espressiva la colonna sonora di Luca Auriemma.

Nell’insieme, il film è interessante e fa buon uso delle ambientazioni, ma gli avrebbe giovato una maggiore severità nel montaggio conclusivo, in modo da ridurne la durata e rendere più concisa e veloce la narrazione.

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