domenica 24 novembre 2019
The Making of George A. Romero's Day of the Dead
Il giorno degli zombi è il film più sfortunato dell’originale trilogia dedicata da George A. Romero ai morti viventi. Sfortunato perché condizionato da avverse convergere produttive che hanno portato Romero a rivedere drasticamente la sua visione originaria in seguito al consistente abbattimento del budget e sfortunato perché, per vari motivi, non ha incontrato, almeno all’epoca della sua uscita, né la fortuna commerciale né quella critica. Considerato dai più una sorta di prodotto minore, soprattutto in relazione ai suoi fratelli maggiori (La notte dei morti viventi e Zombi), è sempre stato difeso, soprattutto negli ultimi anni, da Romero che era arrivato al punto da considerarlo il migliore dei suoi film dedicati ai morti viventi.
Sia come sia, è un film interessante, anche per il modo in cui è venuto alla luce e per le circostanze che ne hanno caratterizzato la produzione. Per questo il libro di Lee Karr The Making of George A. Romero’s Day of the Dead (Plexus Publishing Ltd) si rivela una lettura indispensabile per ogni appassionato di horror e, soprattutto, per chi voglia approfondire il cinema di Romero. Io ho letto la Kindle Edition, in inglese: chi vuole può acquistarla a questo link.
Il libro è un’analisi completa, per quanto possibile tenuto conto che è stato pubblicato a circa trent’anni dall’uscita del film, della fase produttiva de Il giorno degli zombi, ricomprendendo anche la fase di preproduzione e quella relativa alla distribuzione e all’accoglienza del film. Il grosso del libro è dedicato a una sorta di diario di produzione con la suddivisione giorno per giorno e l’indicazione di quali scene sono state girate quando. Il tutto arricchito da dettagli, curiosità e dichiarazioni di quasi tutte le persone coinvolte nella produzione, dagli attori ai tecnici, da Romero stesso al team che si occupava di trucchi ed effetti speciali, capitanato da Tom Savini. Ne emerge il ritratto vivido di un capolavoro imperfetto che ha visto Romero costretto a riscrivere integralmente la sceneggiatura in seguito alla riduzione del budget (dovuta, com’è noto, al suo desiderio di realizzare un film unrated, che non subisse le pastoie della censura). E ne emerge anche un ritratto colorato e vivace del clima di lavorazione un po’ anarchico e pieno di buonumore tipico dei set di Romero. Le riprese del film sono durate ben oltre i 50 giorni e questo rende l’idea del perfezionismo e della dedizione di Romero, se teniamo conto di come molti degli horror dell’epoca - e di epoche precedenti - venissero girati in quattro settimane o anche meno. Le condizioni di lavorazione erano piuttosto estreme dato che gran parte del film è stata girata in una vera miniera, con tutto ciò che ne consegue.
Molto interessante è anche la dichiarazione di Romero contenuto nel libro che spiega perché, subito dopo la fine del film, lui ha lasciato la Laurel di Richard Rubinstein con cui aveva stretto un ferreo sodalizio: “La cosa con la Laurel, Richard voleva fare più televisione e io volevo fare film. È stata una specie di rottura naturale. La mia ragione per lasciare era puramente relativa a una strategia di business. Io volevo fare film, non ero molto interessato alla TV”. Il riferimento è alla serie televisiva Tales from the Darkside.
Interessante è anche il resoconto dell’andamento commerciale del film che, costato circa tre milioni e duecentomila dollari, ha incassato poco meno di sei milioni di dollari negli Stati Uniti e circa 28 milioni nel mondo. Perciò, alla fine, non un insuccesso totale.
Lettura consigliata, sotto molti profili.
sabato 16 novembre 2019
Cattive storie di provincia
Cattive storie di provincia è il nuovo film di Stefano Simone, regista di cui mi sono occupato più volte in questo blog, e rappresenta il suo ritorno al thriller dopo alcuni film nei quali erano state tematiche di impegno sociale a prevalere. Tratto liberamente dall’omonimo lavoro letterario di Gordiano Lupi, il film segue un percorso narrativo articolato, ma piuttosto semplice e lineare.
Giacomo Lupi (Luigi Armiento) è un giovane scrittore in difficoltà. Sono passati tre anni dal suo ultimo romanzo - che peraltro non ha nemmeno avuto un particolare successo - ed è in totale crisi creativa, del tutto paralizzato e incapace di creare qualcosa di nuovo. La moglie Mara (Rosa Fariello) non manca di manifestargli il proprio disprezzo sia perché la trascura sia perché non è in grado di garantirle un adeguato tenore di vita. L’editore (Filippo Totaro) lo sollecita a produrre dandogli una sorta di ultimatum: se non gli porterà qualcosa entro due mesi risolverà il contratto. Giacomo non sa che pesci pigliare. In suo soccorso arriva un amico che gli consiglia di guardarsi intorno e di trarre spunti dalla realtà che lo circonda. Incapace di trovare alternative, Giacomo segue il consiglio dell’amico e osserva. Il metodo sembra funzionare e arrivano i primi spunti permettendo a Giacomo di ricominciare a scrivere di buona lena. Ma qualche conseguenza c’è.
La storia presenta motivi di interesse e tratteggia in modo convincente l’arco psicologico del personaggio principale che da inerte diventa osservatore e poi sempre più partecipe agli avvenimenti. Le cose che non vengono spiegate o vengono presentate, per così dire, in lontananza con la conseguente (e preziosa) ambiguità danno un tono adeguatamente misterioso alla vicenda. Si alternano sequenze mute - in genere le più efficaci anche per la capacità di Simone nella scelta delle inquadrature e del contesto scenico - ad altre molto dialogate che spiegano la situazione sin troppo nei dettagli (pur senza, opportunamente, dire tutto) e sono talvolta un po’ piatte e meramente funzionali.
Ma il difetto principale del film è la sua lentezza che, unita a un’eccessiva lunghezza (quasi due ore), rallenta troppo il ritmo dilatando gli avvenimenti oltre quanto sarebbe opportuno per rendere del tutto avvincente e godibile la visione. Eppure, il montaggio (a cura di Simone) di alcune sequenze - veloce, con molti stacchi ripetuti - evidenzia una capacità narrativa che, se applicata anche al resto del film, lo avrebbe reso, a mio avviso, migliore. In questo senso, è esemplare in senso positivo la parte conclusiva, soprattutto la sequenza chiave del film, risolta quasi senza parole - con il solo monologo molto efficace di Rosa Fariello - e con un azzeccato uso della colonna sonora, in modo da massimizzare l’efficacia e da garantire un’economia narrativa altrove assente.
Gli interpreti hanno un’efficacia perlopiù variabile: a volte (più spesso, per la verità) si dimostrano efficaci e in parte, altre volte denotano incertezze dovute probabilmente a inesperienza. Il più continuo ed efficace è Filippo Totaro, aiutato anche dal fatto che il suo ruolo è giocato su toni ironici e sopra le righe che gli sono congeniali. Oltre alla regia e al montaggio, Simone cura anche la fotografia - molto buona e con ottima scelta dei colori - e scrive la sceneggiatura. Efficace ed espressiva la colonna sonora di Luca Auriemma.
Nell’insieme, il film è interessante e fa buon uso delle ambientazioni, ma gli avrebbe giovato una maggiore severità nel montaggio conclusivo, in modo da ridurne la durata e rendere più concisa e veloce la narrazione.
sabato 2 novembre 2019
Doctor Sleep
Giovedì scorso è sucito nelle sale italiane Doctor Sleep, un horror un po' particolare in quanto è tratto da un romanzo di Stephen King (e questo non è per niente particolare) che è il seguito di un altro suo romanzo di successo, vale a dire The Shining (e questo è particolare perché, a quanto pare, King non aveva ancora fatto un seguito di un suo romanzo). Ma la cosa ancora più particolare è che è anche e soprattutto il seguito della versione cinematografica che il grande Stanley Kubrick trasse dal romanzo originario di King. Dirige Mike Flanagan (Il gioco di Gerald).
Chi è interessato a leggere la recnesione che ho scritto per MYmovies, può cliccare qui e andare su quel glorioso sito.
Quis opra un'immagine della protagonista Rebecca Ferguson.
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