martedì 31 ottobre 2017
Saw - Legacy
Oggi è uscito nelle sale italiane (con qualche anteprima ieri, per la verità) l'ottavo film della serie iniziata ormai qualche anno fa con Saw - L'enigmista. Il titolo di questo nuovo film (l'ottavo) è Saw - Legacy e il perché lo si capisce vedendolo. La regia è dei fratelli Spierig e se vi interessa potete cliccare qui e leggere la recensione che ho scritto per MYmovies. Nel cast non manca Tobin Bell.
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domenica 22 ottobre 2017
Movieman di Alberto Lavoradori e Giorgio Finamore
Movieman (edito da Weird Book, € 20,00) è un libro particolare. Potremmo definirlo un romanzo illustrato. Scritto da Alberto Lavoradori e illustrato da Giorgio Finamore. Alberto Lavoradori ha anche realizzato le schede tecniche che costellano il volume.
Movieman non è un libro particolare solo perché è un romanzo (riccamente) illustrato, ma anche e soprattutto perché è un romanzo particolare che rifugge dalla normale scansione narrativa per privilegiare una sintesi estrema che scarnifica la storia per mantenerne gli aspetti salienti in una progressione austera quanto efficace. La fantascienza di questo libro è del tipo che non rifugge le asperità psiclogiche e sociali, ma anzi le cerca per addentrarsi nel profondo della natura umana e delle sue deviazioni, non ultima la ricerca del profitto. E proprio la metafora dell’atteggiamento, o meglio del sogno proibito, dell’industria culturale è quella che mi è venuta in mente leggendo questo libro: poter fare a meno dei creativi, soppiantarli in modo da realizzare intrattenimento senza doverlo (doverli) pagare. Agli albori del cinema, le case di produzione evitavano accuratamente di indicare i nomi del cast e dei credits nei film perché non volevano che gli artisti diventassero famosi e avanzassero quindi delle pretese economiche. L’atteggiamento cambiò solo quando le case produttrici si resero conto che i “divi” sarebbero stati più redditizi come tali. Ma il concetto di base era quello e tale è rimasto sotto forme diverse. E il cinema - quello mutato, quello di un possibile futuro non auspicabile, ma percepibile appunto come metafora, come ammonimento - è al centro del romanzo, ne costituisce l’anima corrotta e allo stesso tempo indefettibile.
Alberto Lavoradori è un famoso disegnatore di fumetti: ho avuto il piacere di collaborare con lui più volte negli anni passati, in campo disneyano (nel quale Alberto è una colonna: basterebbe il suo lavoro di creazione dell’immaginario grafico di PK per definirlo tale) e non. Oltre ai fumetti si è distinto nel campo della grafica, dell’illustrazione e della pittura. Ma anche nella scrittura pura e semplice, come dimostra il suo precedente romanzo fantascientifico, Unrank. In questo caso, ha lasciato la parte grafica a Giorgio Finamore, apprezzato artista e illustratore. Il risultato è notevole. L’integrazione della parte scritta e di quella illustrata è sinergica e totale. Le illustrazioni di Finamore si fondono perfettamente con le parole di Lavoradori creando un universo distopico di grande cupezza, immerso in un’atmosfera tecnologico-psicologica nella quale l’umanità si perde e si scolora, ma permane come sensazione irreprimibile.
Inutile dire che ne consiglio la lettura.
La prefazione, puntuale e arguta, è di Massimo Perissinotto. Io ho contribuito con una breve riflessione conclusiva che spero appropriata, scritta al buio rispetto al contenuto del romanzo, sul cinema nei film di fantascienza.
Movieman non è un libro particolare solo perché è un romanzo (riccamente) illustrato, ma anche e soprattutto perché è un romanzo particolare che rifugge dalla normale scansione narrativa per privilegiare una sintesi estrema che scarnifica la storia per mantenerne gli aspetti salienti in una progressione austera quanto efficace. La fantascienza di questo libro è del tipo che non rifugge le asperità psiclogiche e sociali, ma anzi le cerca per addentrarsi nel profondo della natura umana e delle sue deviazioni, non ultima la ricerca del profitto. E proprio la metafora dell’atteggiamento, o meglio del sogno proibito, dell’industria culturale è quella che mi è venuta in mente leggendo questo libro: poter fare a meno dei creativi, soppiantarli in modo da realizzare intrattenimento senza doverlo (doverli) pagare. Agli albori del cinema, le case di produzione evitavano accuratamente di indicare i nomi del cast e dei credits nei film perché non volevano che gli artisti diventassero famosi e avanzassero quindi delle pretese economiche. L’atteggiamento cambiò solo quando le case produttrici si resero conto che i “divi” sarebbero stati più redditizi come tali. Ma il concetto di base era quello e tale è rimasto sotto forme diverse. E il cinema - quello mutato, quello di un possibile futuro non auspicabile, ma percepibile appunto come metafora, come ammonimento - è al centro del romanzo, ne costituisce l’anima corrotta e allo stesso tempo indefettibile.
Alberto Lavoradori è un famoso disegnatore di fumetti: ho avuto il piacere di collaborare con lui più volte negli anni passati, in campo disneyano (nel quale Alberto è una colonna: basterebbe il suo lavoro di creazione dell’immaginario grafico di PK per definirlo tale) e non. Oltre ai fumetti si è distinto nel campo della grafica, dell’illustrazione e della pittura. Ma anche nella scrittura pura e semplice, come dimostra il suo precedente romanzo fantascientifico, Unrank. In questo caso, ha lasciato la parte grafica a Giorgio Finamore, apprezzato artista e illustratore. Il risultato è notevole. L’integrazione della parte scritta e di quella illustrata è sinergica e totale. Le illustrazioni di Finamore si fondono perfettamente con le parole di Lavoradori creando un universo distopico di grande cupezza, immerso in un’atmosfera tecnologico-psicologica nella quale l’umanità si perde e si scolora, ma permane come sensazione irreprimibile.
Inutile dire che ne consiglio la lettura.
La prefazione, puntuale e arguta, è di Massimo Perissinotto. Io ho contribuito con una breve riflessione conclusiva che spero appropriata, scritta al buio rispetto al contenuto del romanzo, sul cinema nei film di fantascienza.
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mercoledì 11 ottobre 2017
It
La settimana prossima esce in sala la nuova versione cinematografica (la precedente era una miniserie televisiva negli anni '90) del capolavoro di Stephen King, It. Il regista è Andy Muschietti, fattosi notare qualche anno fa con La madre, un horror interessante.
Se volete sapere cosa ne penso, potete leggere la recensione andando qui, sul sito di MYmovies.
Una considerazione a parte merita il successo travolgente che il film ha incontrato negli Stati Uniti e nel mondo. Un incasso stratosferico che lo ha portato immediatamente al primo posto nella hit parade degli incassi horror di tutti i tempi (d'accordo, non aggiustati con l'inflazione, ma tant'è). L’horror è un genere particolare che vive spesso di eccessi, trasgressioni, umori malsani. Non necessariamente, perciò, i film di maggior successo sono i “migliori”, proprio perché per raggiungere il grande pubblico devono in qualche modo rendere apprezzabile il proprio contenuto opinabile a una grande massa (ci sono le notevoli eccezioni - i film tutti di atmosfera - ma sono in genere capolavori di pura, appunto, eccezione) attenuando gli eccessi. Però il successo strepitoso di It se non certifica di per sé la qualità artistica (ma neanche la nega) certifica già la capacità di intercettare un bisogno da parte del pubblico, un bisogno di essere spaventato da qualcosa di possibilmente non troppo spaventoso o disturbante. Non è poco.
Qui sopra Sophia Lillis in un'immagine dal film.
Se volete sapere cosa ne penso, potete leggere la recensione andando qui, sul sito di MYmovies.
Una considerazione a parte merita il successo travolgente che il film ha incontrato negli Stati Uniti e nel mondo. Un incasso stratosferico che lo ha portato immediatamente al primo posto nella hit parade degli incassi horror di tutti i tempi (d'accordo, non aggiustati con l'inflazione, ma tant'è). L’horror è un genere particolare che vive spesso di eccessi, trasgressioni, umori malsani. Non necessariamente, perciò, i film di maggior successo sono i “migliori”, proprio perché per raggiungere il grande pubblico devono in qualche modo rendere apprezzabile il proprio contenuto opinabile a una grande massa (ci sono le notevoli eccezioni - i film tutti di atmosfera - ma sono in genere capolavori di pura, appunto, eccezione) attenuando gli eccessi. Però il successo strepitoso di It se non certifica di per sé la qualità artistica (ma neanche la nega) certifica già la capacità di intercettare un bisogno da parte del pubblico, un bisogno di essere spaventato da qualcosa di possibilmente non troppo spaventoso o disturbante. Non è poco.
Qui sopra Sophia Lillis in un'immagine dal film.
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