domenica 29 agosto 2010
Nam Nai Choi su Segnocinema
È uscito il numero 165 (settembre-ottobre 2010) di Segnocinema sul quale, oltre al classico e utilissimo compendio Tutti i film dell’anno che scheda tutte le uscite della stagione, c’è l’undicesimo articolo della mia serie Kings of Exploitation, questa volta dedicato a Nam Nai Choi.
Nam Nai Choi - ho usato questa grafia perché è quella che mi è più familiare, ma è conosciuto con traslitterazioni e pseudonimi diversi - è un regista molto interessante e molto misconosciuto. Amante dell’eccesso e caratterizzato generalmente da uno stile iperdinamico e brillante, ha percorso tumultuosamente un decennio abbondante (1981-1992) del cinema di Hong Kong per poi sparire nel nulla. Ha diretto alcuni film che sono rimasti indelebilmente nella memoria del cinema di genere - Story of Ricky e The Seventh Curse sono forse i più famosi - ma ha dato buona prova di sé anche in opere meno conosciute e assai curiose: Killer’s Nocturne, per citarne una sola, tra le più bizzarre.
Il periodo in cui ha lavorato come regista è tra i più significativi del cinema di Hong Kong e lui ne è stato in qualche modo un emblema, pur agendo sostanzialmente sotto traccia, sempre poco considerato, almeno a livello individuale. La commistione di generi che caratterizzava quegli anni ha trovato in lui un artefice tra i più spavaldi, capace di mettere insieme elementi disparati con esiti spesso felici o comunque inconsueti.
“Maledizioni esplosive, canguri boxeur, affascinanti spiriti della natura sedotti e seducenti, gatti alieni, supermonaci contro il male, carcerati capaci di spappolare stomaci con un pugno: l’immaginario di Nam Nai Choi è variegato e multiforme, oltre ogni limite. Mostra cose mai viste e mai più riviste, a testimonianza di un momento particolare di una cinematografia in cui tutto sembrava possibile” scrivo nella presentazione dell’articolo su Segnocinema.
Della mia serie Kings of Exploitation ho già parlato qui in occasione, l’anno scorso, dell’uscita del pezzo di Teruo Ishii. Mi sembra utile aggiornare l’indice della serie:
Jesus Franco (Segnocinema 104/2000)
Jean Rollin (Segnocinema 111/2001)
Pete Walker (Segnocinema 117/2002)
Jack Hill (Segnocinema 123 e 124/2003)
Doris Wishman (Segnocinema 129/2004)
Eddie Romero (Segnocinema 135/2005)
Paul Naschy (Segnocinema 141/2006)
René Cardona e Juan Lopez Moctezuma (Segnocinema 147/2007)
Michael e Roberta Findlay (Segnocinema 153/2008)
Teruo Ishii (Segnocinema 159/2009)
Nam Nai Choi (Segnocinema 165/2010)
Buona lettura a chi deciderà di intraprenderla.
I miei fumetti e Bob Dylan (2)
Riprendo dopo un bel po’ la mini miniserie dedicata ai miei fumetti con citazioni o implicazioni dylaniane. Ne avevo iniziato a parlare in questo post. Stavolta il riferimento è più diretto. Il fumetto si intitola Le radici dell’odio: la storia di Emmett Till, è stato disegnato da mio fratello Gianni ed è stato pubblicato sul Messaggero dei Ragazzi n. 11 del 1993. Qualche annetto fa, quindi.
La vicenda è quella dell’omicidio di un ragazzo di colore avvenuta nel profondo Sud degli Stati Uniti il 28 agosto del 1955. Si tratta di un caso che ha avuto ai tempi una certa risonanza - anche per il suo esito processuale - nell’ambito della lotta per i diritti civili. Bob Dylan ha scritto una canzone sull’argomento, The Death of Emmett Till, nel 1962. L’ha cantata spesso dal vivo nei primi tempi della sua attività - ne esiste un’ottima versione nel programma radiofonico di Cynthia Gooding, Folksinger’s Choice, sempre del 1962 - ma non è mai finita su uno dei suoi album, benché sia stata registrata durante le sessioni per The Freewheelin’ Bob Dylan, il suo secondo album. È uscita solo - se la memoria non mi inganna - nell’album collettivo Broadside Ballads vol. 6: Broadside Reunion al quale Dylan ha partecipato con lo pseudonimo di Blind Boy Grunt. Questo per quanto riguarda le uscite ufficiali.
La canzone è piuttosto semplice, a suo modo efficace soprattutto per l’interpretazione, ma sicuramente non è una delle migliori. Il motivo è quasi banale: diversamente da quanto avrebbe fatto in seguito a questo suo pionieristico sforzo (è una delle prime canzoni che ha scritto, sostanzialmente). Dylan fa largo uso di una facile retorica e non riesce ad andare oltre la narrazione dei fatti, traendone una morale ovvia. Manca quel passaggio dal particolare all’universale che avrebbe caratterizzato i suoi successivi esempi di canzone politica: basta fare un confronto con la ben più riuscita The Lonesome Death of Hattie Carroll, di soli due anni più tardi e anch’essa riguardante un omicidio a sfondo razziale rimasto in pratica impunito, per cogliere facilmente la differenza di profondità e di scopo.
La storia in sé - la vicenda di Emmett Till - mi era sembrata comunque interessante, ottima materia per un racconto morale, a patto di evitare i toni enfatici e di cercare un approccio un po’ ellittico. Evitare cioè l’errore di inesperienza compiuto da Dylan (resta il fatto però che The Death of Emmett Till è una canzone comunque coinvolgente e molto bella all’ascolto), per quanto possibile. Per farlo, ho dato una struttura particolare alla storia inserendola in una cornice attuale, tracciando un parallelo tra il razzismo di allora e quello di adesso (più sottotraccia) ed evidenziando anche come quello che vediamo - in Tv, magari, come avviene nella mia storia - ci porti spesso a un facile coinvolgimento emotivo che ci fa sentire più giusti e più buoni, ma non ha alcuna ricaduta sulla realtà, sui comportamenti che adottiamo nella nostra vita. La storia è di 17 anni fa: oggi le cose si sono evolute in modo ancora più drammatico e disorientante.
Nella mia fulminea esperienza di insegnante in una scuola di fumetto ho usato proprio quella storia per mostrare un modo di intervenire sulla struttura di un soggetto per dargli maggiore forza drammatica, per caratterizzarlo e diversificarlo, aggiungendogli significati.
In effetti comunque un motivo non secondario per scrivere quella sceneggiatura era stato quello di fare un fumetto con dentro Bob Dylan, in qualche modo. Lo spunto mi era venuto da un interessante articolo che rievocava il fatto pubblicato su quell’insostituibile rivista di studi dylaniani che fu The Telegraph, creata e curata dal compianto John Bauldie. Poi mi ero documentato anche altrove e tutto quello che è rievocato nel fumetto dovrebbe rispecchiare i fatti. Anche se a me di solito piace di più lavorare di fantasia (come ha detto una volta ironicamente Jimmy Sangster: “Se una storia richiedeva che mi documentassi, non la scrivevo”), quando è necessario bisogna documentarsi per evitare di scrivere sciocchezze. A meno che - e anche questo capita - non si vogliano davvero scrivere sciocchezze: a volte possono essere molto divertenti.
Qui sopra un paio di pagine (la quinta e l'ottava) di quella storia.
lunedì 23 agosto 2010
Il nuovo Nightmare e altro
Le vacanze sono terminate e mi rimetto al passo segnalando alcune delle mie cose che nel frattempo sono uscite sul sito di MyMovies, per chi fosse interessato. La recensione del remake di Nightmare la trovate qui. Non credo ce ne fosse davvero bisogno - di un remake di Nightmare, intendo - ma da sempre le cose inutili sovrastano quelle utili, per cui non ci resta che prenderne atto ancora una volta: l'industria del remake non conosce crisi. Certo, un Freddy Krueger senza Robert Englund è come uno Psycho senza Anthony Perkins (sì, lo so che hanno fatto anche quello: appunto...).
Nella rubrica Horror Frames ho parlato invece, nel corso di questo mese, di due film assai diversi, anche negli esiti. Skjult (titolo internazionale Hidden: meglio il titolo originale, qualunque cosa significhi, Hidden mi pare un po' inflazionato come titolo) mi è piaciuto più che abbastanza e quel che ne penso lo trovater qui. Un film rarefatto, raggelante, ben fatto e ben diretto da Pål Øie (bel nome, no? Un giorno magari scoprirò anche come si pronuncia). Case 39, invece, è un classico film del filone sui bambini demoniaci: niente di nuovo, direi. La mia opinione la trovate qui.
Qui sopra una foto da Skjult: l'attore in primo piano è il protagonista Kristoffer Joner, molto bravo.
domenica 8 agosto 2010
I maggiori incassi horror dell’ultima stagione cinematografica
L’aspetto commerciale del cinema mi ha sempre incuriosito e interessato. Sapere quanto un film aveva incassato e se aveva calamitato l’interesse del pubblico mi è sempre sembrato qualcosa di relativamente importante. Le pagine centrali del Giornale dello Spettacolo - tutte cifre, con il commento stringato ma puntuale e centrato di Ferraù - sono state per molti anni una lettura a cui non potevo rinunciare. Per questo motivo nel Dizionario dei film horror, laddove disponibili e significativi, ho messo i dati degli incassi. Anche se è ovvio che i film che mi piacciono di più - anche non in campo horror - non sono necessariamente (anzi, non sono quasi mai) quelli che incassano di più, il fatto che un film abbia avuto successo non significa automaticamente che sia triviale e “commerciale” nel senso deteriore della parola (ma Doris Wishman diceva che tutti i film sono commerciali - dai suoi fatti con due soldi ai blockbuster ai film impegnati - perché tutti mirano a essere visti da spettatori paganti). Però gli incassi ci dicono ugualmente qualcosa. Ci dicono soprattutto qualcosa sui gusti del pubblico, su come cambiano, su come un film abbia saputo intercettarli, magari con un budget ridotto, azzeccando una formula o un’idea vincente. E ci dicono anche il contrario, quando ci mostrano come filmoni costruiti per spaccare il mondo vengono rifiutati dal pubblico.
Ma non andiamo troppo nel sociologico, restiamo nel tecnico, come avrebbe fatto il mitico e insostituibile Ferraù, senza alcuna pretesa di emularlo. La stagione cinematografica 2009/2010 si è praticamente conclusa con la consueta calma piatta dell’estate italiana. Negli ultimi anni sono stati fatti diversi tentativi per rendere anche i mesi estivi dei mesi cinematografici, ma non è che i risultati siano stati eclatanti. Perciò, a parte qualche possibile limatura negli ultimi scampoli, la classifica dovrebbe essere ormai più o meno definitiva. Ho esaminato la classifica dei Top 100 come potete trovarla nel sito di MyMovies (se volete dare uno sguardo d’insieme potete dargli un’occhiata: è piuttosto interessante). Poi da quella ho estrapolato gli horror e ne è venuta fuori questa classifica, dedicata esclusivamente al genere. La posizione tra parentesi è quella che il film occupa nella classifica generale dei Top 100 tanto per dare un’idea dell’impatto degli horror nella classifica complessiva.
1 (7) The Twilight Saga: New Moon € 16.451.801
2 (10) The Twilight Saga: Eclipse € 15.381.065
3 (29) Paranormal Activity € 6.474.554
4 (34) Dorian Gray € 5.734.280
5 (44) Wolfman € 4.356.908
6 (50) The Final Destination 3D € 3.664.274
7 (78) Saw VI € 1.888.366
8 (83) Il quarto tipo € 1.711.353
9 (84) The Hole in 3D € 1.708.485
10 (88) Solomon Kane € 1.675.677
11 (90) Predators € 1.481.881
12 (99) Il messaggero - The Haunting in Connecticut € 1.333.130
Le cifre ci dicono che l’horror rimane una consistente presenza in sala, con un discreto numero di rappresentanti nella classifica dei maggiori incassi, anche se è chiaro che, essendo un genere di nicchia, tende a essere maggiormente rappresentato nell’home video. Diversi dei film in classifica sono delle contaminazioni con altri generi. In particolare, i film della saga di Twilight, pur mantenendo una forte componente horror, vedono il loro tratto più significativo nel melodramma imparentato con la soap-opera che attira il pubblico femminile più giovane, quello che generalmente non va molto al cinema. È un fatto positivo? Per chi produce quei film sicuramente sì.
Il primo horror puro in classifica è Paranormal Activity, che rappresenta uno di quei “casi” che ogni tanto - vedi Blair Witch Project - smuovono le acque e dimostrano come anche con pochi soldi si possa, con un bel po’ di fortuna, generare incassi colossali. Dorian Gray e Wolfman sono due rivisitazioni di altrettanti miti dell’horror da lungo tempo presenti sugli schermi. Dorian Gray, il più glamour dei due, è andato inaspettatamente bene, mentre Wolfman ha avuto esito contrario: la scelta di fare un horror in costume non ha premiato. Probabilmente è stato considerato “vecchio” come approccio dal pubblico giovanile, che è poi quello che va al cinema. Bene è andato invece The Final Destination che ha tratto giovamento senz’altro dall’essere in 3D, come è avvenuto anche, in misura minore (ma in questo caso mancava il traino della serie), per The Hole, un film che ha riportato in sala il glorioso Joe Dante, reduce da alcuni flop che ne avevano in parte compromesso la carriera. L’esito di Saw VI dimostra come la serie cominci ad avere il fiato corto. Da Solomon Kane nessuno, credo, si aspettava di più e anche Il quarto tipo ha reso secondo le aspettative. Il messaggero, classica vicenda fantasmatica, e Predators chiudono la classifica: forse da quest’ultimo era lecito attendersi un incasso maggiore, ma l’uscita estiva non l’ha certo favorito. Nell’insieme, un gruppo variegato comprendente diverse tendenze e diversi aspetti dell’horror, da quello tradizionale a quello più moderno e “crudele” a quello contaminato con altri generi.
Sono stati questi i migliori horror che abbiamo avuto in sala in questa stagione? Ovviamente no. La città verrà distrutta all’alba avrebbe meritato di più e in fondo anche The Box, per non parlare di Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi (che però ha avuto una distribuzione meramente dimostrativa). Ma l’esito del botteghino è inappellabile e questo è quanto. Inoltre, almeno tra i film usciti in Italia al cinema in questa stagione, non c’è stato un capolavoro horror: una stagione interlocutoria nella quale, come accade spesso, i migliori film sono stati ignorati o sono usciti direttamente in dvd.