lunedì 24 agosto 2009

Il cinema di Bob Dylan

Non c’è modo migliore di cominciare il mio blog che parlando del mio ultimo libro, con la precisazione che ultimo non è da intendersi nel senso che non ne farò più - questo non mi sento di assicurarlo - ma in quello di più recente.


Il libro è Il cinema di Bob Dylan, 320 pagine + 12 pagine a colori di illustrazioni. È uscito di recente, pubblicato da Le Mani. Questa è la pagina relativa sul sito dell’editore. Chi sia interessato all’acquisto può trovarlo più o meno ovunque sul web, anche qui, per esempio. Gli intrepidi che ancora si avventurano nel mondo reale possono trovarlo nelle migliori librerie, per usare un’espressione antica.


Chi non mi conosce personalmente - credetemi, un bel mucchio di persone - può trovare singolare che abbia fatto seguire al mio Dizionario dei film horror (del quale avremo modo di riparlare) un libro di argomento tanto diverso, ma chi mi conosce sa che la cosa è perfettamente naturale. Come mi sono sempre interessati i film horror, così Bob Dylan è sempre stato uno dei miei autori di riferimento, forse l’autore di riferimento in assoluto, nonostante lo abbia mancato nei suoi anni di maggior fulgore come artista di tendenza. Negli anni ‘60, in Italia Dylan era passato quasi inosservato: giusto qualche versione in italiano di alcune sue canzoni e qualche lp di importazione. Mi ricordo d’aver visto Tito Schipa jr cantare in una trasmissione Tv la sua versione in italiano di Mr. Tambourine Man, trasformato correttamente ma con assai meno fascino in Signor Tamburino. Prima ancora ricordo d’aver comperato all’Upim il mini 45 giri (sì, sono esistiti anche quelli!) di Mr. Tambourine Man nella versione dei Byrds, della quale ricordo mi piaceva l’attacco di chitarra e poco altro. Poi nel 1973, ero in attesa di partire per una vacanza in moto con gli amici, ma avevo alcuni minuti di tempo. Ero a casa da solo e ho acceso la radio, un sontuoso mobile Philips in radica di noce, perfetto reperto (tuttora esistente, lo dico per chi fosse preoccupato) degli anni ‘50. Era il fortunato periodo in cui trasmettevano le canzoni senza che ci fossero fastidiosi deejay a parlare tra i brani e/o in mezzo ai brani (da farli a brani loro, sarebbe). Il programma era targato Rai, naturalmente. Era un programma tappabuchi a basso costo che avevo sentito altre volte senza molto interesse, strutturato semplicemente nella trasmissione di alcune canzoni senza che venisse detto nulla se non alla fine quando uno speaker con la voce metallica elencava titoli e interpreti. La canzone che trasmettevano in quel momento era l’ultima. Non appena l’ho sentita mi sono reso conto che era qualcosa di completamente diverso da quello cui ero abituato. Non capivo praticamente nulla delle parole e quindi non era il testo ad attirarmi. Erano la voce, il modo di cantare, la musica suggestiva, l’arrangiamento spartano ma per nulla povero, l’armonica suonata in maniera originalissima. Nonostante cominciassi a essere quasi in ritardo aspettai sino a che la voce metallica - e anche disinteressata - dello speaker mi disse che si trattava di Mr. Tambourine Man cantata da Bob Dylan. Proprio la canzone che non mi era sembrata niente di che nelle versioni succitate. Da quel momento, sono andato alla scoperta di Dylan e del suo repertorio passato, recuperando tutto, compresa l’edizione italiana dell’album John Wesley Harding con il bizzarrissimo strillo in copertina su Drifter’s Escape trionfatore a Bandiera Gialla, il programma radiofonico di Boncompagni che allora era il top della musica “giovane”. Poi ho seguito Dylan nel corso degli anni attraverso continui cambiamenti, trovando sempre il suo lavoro un’ottima fonte di ispirazione. Caso più unico che raro, Dylan ha saputo trovare nel cambiare delle epoche e dell’età gli spunti creativi per una produzione artistica sempre in linea con i tempi e allo stesso modo quasi senza tempo. Ho trovato molto significativo quanto ha detto Richard Marquand - il regista di Hearts of Fire - in una dichiarazione riportata anche in Il cinema di Bob Dylan. Marquand ha detto in sostanza che poteva ricordarsi benissimo quando aveva visto e sentito la prima volta Bob Dylan da quanta era stata l’impressione che gli aveva suscitato e che da quel momento in poi gli era sembrato che Dylan lo avesse accompagnato per tutte le cose creative che aveva fatto nella sua professione. Marquand aveva poi coronato il suo sogno arrivando appunto a dirigere Dylan in un suo film, Hearts of Fire. Ma è morto subito dopo e il film è stato un fallimento, per cui non so se il suo sia un esempio da imitare.


Su Bob Dylan sono state scritti molti libri taluni dei quali decisamente acuti e brillanti. Tra quelli che vi si sono dedicati ci sono illustri studiosi che di solito si dedicano a John Milton o Keats, come l’insigne accademico Christopher Ricks (autore dell’ottimo tomone dylaniano Visions of Sin), del quale mi è sempre piaciuta l’affermazione - cito a memoria, con possibili imperfezioni - che non siamo noi che consideriamo Dylan un grande poeta a doverci giustificare per questo, ma dovrebbero essere quelli che non lo considerano tale a farlo. Detto in soldoni, chi non approfondisce l’opera di Bob Dylan non sa cosa si perde.


I libri però riguardano principalmente l’opera di Dylan come autore di canzoni e poesie, la parte preponderante della sua attività, quella in cui è un maestro riconosciuto. Dylan però ha fatto molto altro: dipinge, scrive prosa, ha fatto (mirabilmente) il deejay. E ha fatto cinema. Mi sono sempre interessato di cinema e mi sono sempre interessato di Bob Dylan: scrivere un libro sul cinema di Bob Dylan mi è sembrato naturale e doveroso. Anche perché mancava una trattazione organica dell’opera cinematografica dylaniana e pure all’estero i volumi specifici si contano sulle dita di una mano (o di una zampa anteriore, se preferite) di tirannosauro e c’è anche la possibilità che ne avanzi una (per chi non fosse ferrato in dinosauri, le dita di una zampa anteriore di tirannosauro sono due). Invece, l’apporto di Dylan al cinema è stato consistente: come regista, attore, musicista, sceneggiatore e altro ancora ha partecipato a parecchi film, lasciando su di loro la sua originale impronta. E anche in televisione le sue apparizioni sono spesso state indimenticabili (in senso buono o cattivo). Di tutto questo e di altro ancora parla il libro, dandone un quadro critico completo per il dylaniano e per chi non lo sia, ma abbia interesse a scoprire il mondo che c’è dietro al rapporto con il cinema di una delle figure culturali più complesse di questo e del secolo precedente e. In quest’ottica, si parla anche dei film in cui Dylan c’è senza esserci (Io sono qui) e quelli in cui non avrebbe mai voluto esserci, ma è richiamato fantasmaticamente (Factory Girl). Insomma, un viaggio attraverso più epoche cinetelevisive segnate da un personaggio sempre stimolante. Ne riparleremo.

6 commenti:

Samuele Zàccaro ha detto...

Ciao Rudy.
Per certi versi è un onore essere il primo a commentare nel tuo blog, per altri versi è un piacere ;-)
Ovviamente auguro lunga vita al tuo blog.

Il libro non sono riuscito a trovarlo, probabilmente non mi servo in una delle migliori librerie. Come sai sono un fan del Dizionario Horror.

Il mio commento quindi è scarso di contenuti, prendilo come un saluto.

Samuele.

Rudy Salvagnini ha detto...

Grazie per l'intervento e per gli auguri. Le migliori librerie sono per definizione, naturalmente, quelle che tengono il libro, mi ero dimenticato di specificarlo :-)
Comunque ho visto che c'è in parecchie delle Feltrinelli (lo dico per gli interessati...).
Presto parleremo qui anche del Dizionario.
Ciao.

Anonimo ha detto...

http://filmswithnobodyinthem.blogspot.com/2008/10/renaldo-and-clara.html

Anonimo ha detto...

Quando vedremo l'aggiornamento del dizionario?
Gianni

Samuele Zàccaro ha detto...

Credo che l'aggiornamento ci sarà, sarà corposo ma non imminente ;-)

Anonimo ha detto...

Romero mi sembra in gran forma al vederlo nella foto, ma il suo film è veramente bello?