Nei primi anni ‘70, come quasi tutti i giovani che all’epoca si interessavano di cinema, ero infatuato dai registi della cosiddetta Nuova Hollywood: Bob Rafelson, Dennis Hopper, Hal Ashby, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e molti altri - alcuni dei quali oggi considerati giustamente molto marginali - nonché Peter Bogdanovich, di cui avevo molto apprezzato L’ultimo spettacolo, un film che consiglio tutt’oggi di guardare anche se non è che sia di quelli che ti tira su il morale (il film, non io).
Ero rimasto però perplesso perché avevo letto una dichiarazione di Bogdanovich che sminuiva i nuovi registi, del cui gruppo pensavo facesse parte, per lodare assai i grandi maestri del passato che, in quel periodo, erano quasi tutti ancora in attività benché magari ritenuti sorpassati: Hawks, Ford, Hitchcock, Dwan e così via. Non riuscivo a capire il perché di tanto disprezzo per i maestri del presente, così ricchi di “contenuti”, e di così tanta ammirazione per quelli che da molti venivano ritenuti al più degli abili artigiani, magari di lusso, ma pur sempre artigiani. Mi sembrava snobismo. Ovviamente, mi sbagliavo e aveva ragione lui, Bogdanovich, che, prima che regista, era stato critico e ancor prima appassionato spettatore e, soprattutto, aveva conosciuto e intervistato (e avrebbe, cosa ancora più incredibile, continuato a farlo anche una volta divenuto un famoso regista) molti di quei maestri, analizzandone gli stili e raccogliendone le confidenze e le memorie. Un po’ come, coincidenza non casuale, Truffaut con Hitchcock (ma con Hitchcock anche Bogdanovich ha parlato parecchio).
Il risultato di tanto acume e di tanta passione è un libro (Chi ha fatto quel film?, Fandango), un tomone di 1320 pagine (non è un errore di battitura, sono proprio 1320) che se lo leggi a letto, come ho fatto io, ti procura un notevole peso sullo stomaco o ti regala bicipiti (o qualunque altro muscolo deputato al sostegno) poderosi, ma anche una lettura di raffinato piacere.
Le interviste sono quasi tutte corpose e tutte molto interessanti, Quelle che mi hanno istantaneamente fatto decidere, con la loro presenza, che dovevo averlo sono quelle a Edgar Ulmer e a Joseph H. Lewis, due maestri sin troppo poco lodati per quello che hanno fatto. Detour e La sanguinaria sono film che da soli garantiscono loro l’Olimpo dei registi, ma oltre a quelli ne hanno fatti molti altri di assoluto valore. Anzi, basterebbe, per Lewis, la sola sequenza della rapina in La sanguinaria per dargli la patente di genio, per l’inventiva e la brillantezza mostrata. Leggere in questo libro perché ha deciso di fare quella sequenza in quel modo è un tributo alla sua genialità perché nulla è dovuto al caso.
Oltre a loro sono intervistati (e in alcuni casi sono interviste che da sole potrebbero essere un volume): Robert Aldrich, George Cukor, Allan Dwan, Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Chuck Jones, Fritz Lang, Sidney Lumet, Leo McCarey, Otto Preminger, Don Siegel, Josef von Sternberg, Frank Tashlin, Raoul Walsh. E scusate se è poco. Spesso al tramonto, talvolta in momenti di difficoltà per salute o guai finanziari, ma comunque capaci di comunicare anche con poche parole la singolarità della loro arte. Destini diversi uniti dalla passione per il loro lavoro.
Chi è interessato di cinema non può non leggere questo libro. E dopo averlo fatto dovrebbe leggere Chi c’è in quel film?, libro gemello dedicato agli attori, scritto da Bogdanovich e sempre edito, qui in Italia, da Fandango. Oppure se vuole può cominciare da quello e poi passare a questo. O magari leggerli alternativamente. Ma non contemporaneamente.
La risposta che non si trova in questi libri è però come mai Bogdanovich che di certo aveva preso le lezioni giuste ed era partito alla grande (con Bersagli e L’ultimo spettacolo) non sia poi riuscito a dare continuità qualitativa alla sua carriera. Cose che succedono.
mercoledì 20 giugno 2012
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