giovedì 22 marzo 2012
Robert Fuest (1927-21 marzo 2012)
Regista molto singolare, Robert Fuest, capace di innovare come pochi altri, ma in direzioni che quasi nessuno avrebbe poi preso. Mi era piaciuto molto da subito, quando era comparso sulla scena cinematografica (in Italia: il suo esordio dal titolo dylaniano, Just Like A Woman, mai arrivato da noi non l’ho purtroppo visto) con il mirabile horror Il mostro della strada di campagna, con una bravissima Pamela Franklin. Quello sì, a ripensarci, un film che è stato poi parecchio imitato e ha avuto recentemente anche un remake. Ma la più evidente singolarità Fuest l’aveva messa in mostra con il suo dittico sul dottor Phibes (L’abominevole Dr. Phibes e Frustrazione), connubio amabilmente crudele di orrore e commedia con vette di elegante stravaganza che lasciavano trasparire pienamente il suo spirito artistico. Mi era piaciuto molto anche Alpha Omega - Il principio della fine. Lo vidi per la seconda volta nel '79 a Londra proprio nel periodo in cui leggevo la tetralogia che Michael Moorcock aveva dedicato a Jerry Cornelius, un singolare personaggio-non-personaggio che aveva creato e messo a disposizione (Moebius, un altro grande che ci ha lasciato da poco, se ne sarebbe poi quasi impossessato). Il film di Fuest è tratto dal primo di quei romanzi e ne cattura lo spirito aggiungendo un ordinato delirio immaginifico che non soffre dei pochi mezzi a disposizione. Quello è stato forse l’ultimo film veramente innovativo di Fuest, la cui carriera avrebbe poi perso via via quell’intensità creativa, per motivi del tutto indipendenti da lui. Mi era comunque sembrato un regista così interessante che gli avevo dedicato - forse per la prima volta in Italia (o forse no, non sono così enciclopedico da saperlo) - un lungo articolo riepilogativo intitolato L’abominevole Dr. Fuest e pubblicato sul n. 3 di Aliens (gennaio 1980). Vecchi tempi e vecchie storie. Con Fuest se ne va uno degli ultimi pezzi di un particolarissimo (modo di fare) cinema.
Ho appena letto sul sito di Nocturno un bel ricordo di Fuest scritto da Mario Gerosa: questo è il link, vi consiglio di andare a leggerlo. Gerosa ha anche scritto un libro su Fuest: Robert Fuest e l’abominevole dottor Phibes (Falsopiano).
lunedì 19 marzo 2012
InHumane Resources
InHumane Resources è il nuovo cortometraggio di Michele Pastrello (del precedente, Ultracorpo, ho scritto qui) e segna una interessante deviazione nel suo percorso stilistico, allontanandosi ulteriormente - ma non del tutto - dal genere horror, anche se resta ancor più in primo piano il vero fulcro tematico centrale della sua opera, il commento socio-politico.
Una citazione di Orwell - da 1984 - apre, non casualmente, il film. Un uomo e una donna in camicia bianca e cravatta si affrontano selvaggiamente in una sorta di corridoio all’aperto, desolato e senza vita. L’arrivo di un terzo uomo e poi di un’altra donna, entrambi nelle medesime condizioni dei precedenti, alza il livello della lotta il cui scenario si amplia in una distesa post-industriale di capannoni abbandonati. I contorni dell’ambiente sono spesso soffusi e sfumati sino a quando i personaggi non si ritrovano in dettagliatissimi primi piani, come se provenissero dal nulla e guadagnassero individualità nello scontro all’ultimo sangue. La lotta è infatti senza quartiere, cruenta. Una delle donne si ricarica psicologicamente guardando le foto di una bambina - la sua, ci si immagina - sull’iPhone. Lotta anche per lei, probabilmente. Tutti, nonostante combattano crudelmente, hanno momenti di debolezza che tengono nascosti, lasciandoli uscire solo quando non sono visti, nelle pause di una battaglia che non prevede prigionieri.
L’atmosfera - più che orwelliana - è quella di certa fantascienza sociologica sarcastica e amara, tipica (per fare solo un nome) di Robert Sheckley, autore di molti racconti capaci di rendere in modo implacabile l’assurdità della società (in)umana (da uno di questi, Elio Petri trasse il film La decima vittima). Edifici abbandonati, desolati simulacri di una civiltà industriale ormai agli sgoccioli, perduta e non rimpianta, ma forse necessaria: sono lo scenario di un confronto nel quale l’uomo (e la donna) sono riportati alla bestialità delle origini. La storia, condotta con abilità usando pochissimi dialoghi, si regge sullo sviluppo di una singola situazione, ma il ritmo è abbastanza sostenuto e la buona interazione tra i personaggi permette un’adeguata varietà narrativa. Una piccola debolezza è che il film segue il suo teorema senza trovare una sorpresa assoluta, ma accontentandosi di una relativa.
Dal punto di vista formale, si notano l’eleganza delle immagini, grazie anche all’ottima fotografia di Mattia Gri, e soprattutto la padronanza del mezzo espressivo: la regia è sicura e vivace, ricca di inventiva e pienamente capace di raccontare nel modo migliore la storia. Com’è positiva consuetudine nel cinema di Pastello - che cortometraggio dopo cortometraggio ha formato un corpus autoriale di tutto rispetto, per tematiche e stile - la recitazione è buona. Gli interpreti si impegnano con risultati apprezzabili e si fa notare in modo particolare Mariasole Michielin che dispiega un registro espressivo ampio e convincente.
Ultimo aggiornamento: se volete vedere il film andate qui. Don't dare to miss it.
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venerdì 16 marzo 2012
Rosco e Sonny e la leggenda di Bigfoot
Una nuova avventura di Rosco e Sonny è in edicola ne Il Giornalino n. 12, quello di questa settimana. Il titolo è La leggenda di Bigfoot e, nella tradizionale onestà titolatrice che talvolta mi contraddistingue, ha a che fare con il misterioso ominide che popola le zone montuose e boschive del Nord America (o almeno ci piace pensare che le popoli). Per scrivere la storia non mi è servito aver visto diversi film su Bigfoot - noto anche come Sasquatch - ma li ho visti lo stesso volentieri (e di alcuni di loro ne ho dato conto nel mio Dizionario dei film horror). I disegni sono come sempre del bravissimo Rodolfo Torti.
sabato 10 marzo 2012
P.O.E. Poetry of Eerie
Edgar Allan Poe ha goduto delle attenzioni del cinema soprattutto negli anni ’60, quando Corman costruì un intero ciclo di pellicole sui suoi racconti, ma anche in altri periodi non sono mancati film ispirati alle sue opere, dai tempi de La caduta della casa Usher (1928) di Jean Epstein ai giorni nostri, con esempi come l’ineffabile Ligeia (2009) di Michael Staininger. Questa presenza massiccia, nonostante le difficoltà insite nella trasposizione cinematografica dei racconti tutt’altro che cinematografici di Poe, è un segno evidente del fascino che lo scrittore ha sempre esercitato.
Normalmente, dato che i racconti di Poe sono brevi e spesso più interiori che esteriori nella narrazione, il metodo per trarne dei film è quello di rimpolparli al punto che della materia originale rimane ben poco. Per ovviare a questo problema si è talvolta puntato su film a episodi invece che su lungometraggi tratti da un singolo racconto. Lo ha fatto Corman con I racconti del terrore e lo hanno fatto, tra gli altri, Dario Argento e George A. Romero con Due occhi diabolici. Ma anche quando si è scelta questa via, il materiale aggiunto si è spesso rivelato preponderante. Nel caso di questo nuovo film indipendente, P.O.E. Poetry of Eerie (2011), diretto da un gruppo di promettenti e giovani autori, la scelta è stata quella, ancora più radicale, di episodi molto brevi. Questa brevità avrebbe potuto consentire - se ciò effettivamente fosse possibile e, soprattutto, fosse stato l’obiettivo degli autori - di restare piuttosto fedeli a Poe. Ma invece, in prevalenza, si è preferito prendere spunto dai racconti per trattare d’altro. Dopo anni e anni di Poe al cinema non si può dire che la scelta sia astrattamente sbagliata. Il problema è che ciò può talvolta tradursi in una banalizzazione del materiale e nella difficoltà nel trovare il senso dell’operazione, di trovare cioè Poe all’interno delle nuove storie raccontate.
In questo e anche in altro, ogni episodio fa comunque storia a sé. Il complesso è quello che gli americani definiscono una mixed bag, con momenti riusciti che si alternano ad altri meno riusciti: il destino praticamente inevitabile dei film a episodi, soprattutto quando sono di autori diversi.
Il primo episodio è Silence, di Angelo e Giuseppe Capasso. Un uomo si sveglia ansimante, al suo fianco una donna sdraiata di lato che sembra dormire. Va in bagno, lo specchio ha un sussulto. Prende un caffè, gli casca la tazzina e si rompe. Chiama Annabel, come se pensasse fosse lei o il suo fantasma all’origine del suo turbamento. In bagno c’è del sangue nella vasca, assieme a frammenti di vetro. Ombre che passano, musica sinistra e avvolgente, camera sul personaggio, tensione sui dettagli: l’episodio è un classico esercizio di stile sulla paranoia e sull’ossessione, ben condotto, forse un po’ troppo debitore del cinema spettrale giapponese. Non c’è molta trama e nemmeno molto di nuovo, ma si lascia vedere con interesse. Stilisticamente promettente.
Il secondo episodio è The Sphinx di Alessandro Giordani. In uno squallido appartamento all’interno di un bunker in disfacimento, un uomo di una certa età studia degli insetti. Sua figlia cerca invano di lavarsi: non c’è acqua. Fuori invece c’è il mare. Ma anche una misteriosa pestilenza. La ragazza va fuori a prendere l’acqua anche se il padre gliel’aveva proibito per la possibile contaminazione. La ragazza nega che esista l’epidemia, vuole costringere il padre a bere l’acqua. Uno dei più curiosi e meno noti tra i racconti di Poe, che magnifica l’attenzione per il dettaglio che fa perdere di vista la realtà d’insieme (ne feci addirittura una versione a fumetti una quarantina di anni fa). Il contrasto tra le immagini cupe e claustrofobiche del bunker e quelle sognanti della spiaggia, di una luminosità soffusa, si accompagna a una musica dissonante e a dialoghi declamati fuori campo. L’effetto è interessante, straniante, ma non conduce a molto.
Il terzo episodio è Glasses di Matteo Corazza. Ginevra, una giornalista amante della mondanità, va con secondi fini a una festa invitata da un ex, Ruggero, che ha mollato. La ragazza è molto miope e alla festa gli occhiali le cadono e non li trova più. Ruggero si offre di cercarli e nel frattempo le presenta il fratello Riccardo di cui lei vede solo confusamente i lineamenti. Ne rimane comunque affascinata. Peggio per lei. Il racconto di Poe era in sostanza un’elaborata gag. Qui lo spunto degli occhiali è solo un pretesto all’interno di un quadro vendicativo di maniera che non presenta sorprese e si conclude in modo telefonato.
Il quarto episodio è Valdemar di Edo Tagliavini. Un medico, grazie all’aiuto di un esperto, mesmerizza Valdemar, un uomo affetto da tisi, quando sta per morire. L’esperimento riesce, ma il mesmerizzatore muore accidentalmente. Trovarne un altro si rivela impossibile, quindi il medico si trova in difficoltà, con Valdemar intrappolato tra la vita e la morte. Uno dei racconti di Poe più amati dal cinema - due le versioni di rilievo (Corman e Romero) - è stravolto a fini umoristici con esiti che si fanno apprezzare anche se talvolta più per lo spirito che per la pratica.
Il quinto episodio è The Tell-Tale Heart di Manuela Sica. Una donna visita una casa, mentre una voce legge la vicenda. Poi la donna stessa legge. Il racconto di Poe rimane nelle parole. Le immagini sembrano raccontare qualcos’altro. Ma non saprei dire cosa. Il collegamento più che negli occhi di chi guarda è in quelli di chi ha realizzato il film.
Il sesto episodio è Gordon Pym di Giovanni Pianigiani e Bruno Di Marcello. Gordon Pym, un marinaio, è imprigionato sotto coperta e costretto a mangiare scarafaggi per l’assenza di cibo. Un vecchio che lo chiama “padrone” cerca di ucciderlo, ma il marinaio, benché rimasto ferito, riesce a ucciderlo prima lui. Poi si nasconde ed è testimone di un pranzo cannibalesco. Ma i cannibali si accorgono di lui. L’unico romanzo di Poe diventa spunto per un raccontino claustrofobico con piccolo colpo di scena finale che vede la partecipazione di un giovane Poe alle prese con la sua creatura. La realizzazione privilegia le immagini alle parole - compendiando alcuni elementi del romanzo - ma non trova un colpo d’ala che renda quelle immagini capaci di vivere significativamente di luce propria.
Il settimo è The Black Cat di Paolo Gaudio. Forse il racconto di Poe più popolare al cinema, con svariate versioni molto significative, da Ulmer a Corman, a Dario Argento. Questa, realizzata in animazione, è simpatica, piuttosto burtoniana, ma con qualità sufficienti a garantirle un autonomo valore. Mettere Poe nel ruolo del protagonista di un suo racconto non è una novità, ma è decisamente appropriato. L’essenza del racconto è colta con bravura.
L’ottavo episodio è Ligeia di Simone Barbetti. Il ménage di una coppia è turbato dal ricordo di Ligeia, precedente e defunta moglie dell’uomo. Si turba ancora di più quando il ricordo si materializza in una figura fantasmatica. Corman aveva fatto di questo racconto un turgido e ambiguo melodramma gotico. Qui si resta alla sostanza dell’incubo per catturarne gli elementi più caratteristici, ma la passione per Ligeia resta un po’ troppo sulla carta, data per presupposta. Un tentativo comunque non banale, condotto con convinzione.
Il nono episodio è The Raven di Rosso Fiorentino. La poesia di Poe, è stata alla base - se così si può dire - di I maghi del terrore di Corman. Qui la lettura della poesia è illustrata, in modo alternativamente ossequioso e inquieto se non inquietante, da sequenze che restano sulla superficie della meditazione sulla morte.
Il decimo episodio è The Man of the Crowd di Paolo Fazzini. Un uomo osserva la folla e segue uno sconosciuto che ha attirato il suo interesse. L’attualizzazione all’odierno contesto urbano non è forzata, sembra quasi naturale, per la valenza extratemporale della tematica. La misteriosità della notte cittadina e l’inestricabile viluppo dei destini umani e della casualità che spesso li regola sono rese in modo sommario, ma efficace. Il finale tenta una sorpresa non del tutto conseguente: l’insieme è comunque inquieto e interessante.
L’undicesimo episodio è Berenice di Giuliano Giacomelli. Un uomo è affranto per la morte dell’amata moglie e la veglia. Ma lei, forse, non è morta. Tentativo di recuperare le atmosfere del gotico italiano dei tempi che furono, con un uso del colore e delle ambientazioni che si richiamano in parte a quella stagione, crea una discreta aura macabra seguendo l’esteriorità del racconto di Poe senza avere il tempo e forse la forza di catturare la sua ossessione.
Il dodicesimo episodio è Maelzel’s Chess Automaton di Domiziano Cristopharo ed è il migliore del lotto. Una partita a scacchi con un automa potrebbe essere l’occasione per rivalutare un’esistenza e Mr. Gray non vuole perderla. L’estetica dell’automa giocatore di scacchi è un elemento vincente che, con la sua aria rétro, si adatta molto bene - per contrasto - all’ambientazione luminosa e moderna. La partita a scacchi (e più in generale il gioco) vista come metafora della vita (e della morte) ha sempre il suo fascino e la sua validità, ma è il modo in cui è condotto il racconto a essere vincente. L’allucinata visione del predominio delle macchine sull’uomo è resa in modo elegante e visivamente raffinato ed efficace. L’assoluta (e vana, oltre che vacua) astrazione rappresentata dal gioco si evidenzia come il fine ultimo per un’umanità incapace di uscire dai propri limiti e difetti. Buona anche l’interpretazione di Luca Canonici e Angelo Campus.
Il tredicesimo episodio è Song di Yumiko “Sakura” Itou. In un’ambientazione giapponese, un’esecuzione rituale e uno spartito insanguinato. Direi che va un tantino sul criptico.
La durata complessiva è generosa (oltre un’ora e cinquanta) e l’impresa ambiziosa e nel complesso non priva di meriti, senz’altro da sostenere.
lunedì 5 marzo 2012
Segnocinema 174
Il nuovo numero di Segnocinema, il n° 174 (marzo-aprile 2012), è uscito e si presenta come sempre molto interessante. In particolare, è da segnalare lo speciale - come di consueto molto ampio e argomentato - che si intitola Trailer contro Trailer 2.0 e si occupa di uno dei fenomeni più suggestivi e singolari del mondo del cinema, quello di quei minifilm condensati che servono per spingere a vedere i film cui si riferiscono (ma spesso sortiscono l'effetto contrario, soprattutto quando raccontano così tanto del film che uno preferisce restarsene a casa). Mi corre luogo di segnalare anche che lo speciale - a cura di Mauro Antonini - contiene un mio micro-intervento, motivo già di per sé sufficiente per acquistare la rivista (almeno per i miei familiari e amici). A parte gli scherzi, già che ci sono, segnalo anche un paio di articoli che mi sembrano di particolare interesse, accomunati da un argomento catastrofico-cinematografico che di questi tempi mi attira molto: il primo si intitola The End (sulla fine del mondo cinematografica) ed è scritto da Mauro Caron, mentre l'altro si intitola A prova di orrore (sul cinema atomico), scritto da Roberto Lasagna.
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