mercoledì 16 giugno 2010

Bob Dylan ieri 15 giugno 2010 in concerto a Padova

Avrei voluto aprire questo post con una bonaria reprimenda dell’approssimazione dei media che parlavano quasi tutti del concerto di Bob Dylan a Padova anche se in effetti era a Piazzola sul Brenta, ridente cittadina nei pressi di Padova e dotata di una sua precisa identità e autonomia (era successo del resto - ed era ancora più grave - qualche anno fa con il concerto di Strà). E invece cos’è successo? Che causa maltempo il concerto è stato spostato veramente a Padova, al cosiddetto Palafabris. Per me di una comodità assoluta: di meglio avrebbe potuto esserci solo un concerto in Prato della Valle o nel salotto di casa mia.

Inoltre, ero in una posizione invidiabile, centrale, in quarta fila, a pochissimi metri dal palco e con una visibilità perfetta. Una situazione quasi analoga, ma leggermente più lontana, mi era capitata solo nel secondo concerto all’Arena di Verona nel lontano 1984.

Il palazzetto era, per usare un’espressione tipica del giornalismo calcistico, “gremito in ogni ordine di posti” e conseguentemente ho capito come ci si sente dentro un forno a microonde in funzione: decisamente accaldati.

E il concerto? Ottimo, direi. Uno dei migliori a cui ho assistito negli ultimi anni. Bob Dylan era in grande forma, vispo, capace di farsi più di qualche risata, anche grassa, e incline a una ironica teatralità gestuale. Più volte ha lasciato il suo organetto e ha preso il centro del palco per cantare e suonare l’armonica. In quasi quattro canzoni ha anche imbracciato la chitarra (mai, purtroppo, quella acustica: il set acustico, che era generalmente il mio preferito, è ormai scomparso dal palinsesto dei concerti dylaniani) producendosi in qualcuno dei suoi curiosi e personalissimi assoli anticinetici. Se Dylan è stato mobile e vivace, Tony Garnier è invece rimasto seduto per tutto il concerto... spero per scelta tecnica e non per motivi di salute.

La scaletta non è stata ricca di sorpresa, ma solida e ben strutturata. La prima canzone è stata Leopard-Skin Pill-Box Hat, più che altro per riscaldare l’ambiente (che, come ho detto, in realtà non ne aveva bisogno). A seguire una delle vette del concerto, un’intensa It’s All Over Now, Baby Blue e una I’ll Be Your Baby Tonight nella norma.

Tangled Up In Blue ha goduto grandemente del nuovo arrangiamento che le ha dato nuova linfa e vigore. Resta uno dei capisaldi del Dylan migliore, ma, com’era già accaduto nel 1984, aveva bisogno di una rinfrescata dopo una certa inflazione negli anni passati e questo arrangiamento, più duro, gliel’ha data validamente.

The Levee’s Gonna Break è un brano che non amo particolarmente, ma ha una sua efficacia soprattutto dal vivo per il suo ritmo coinvolgente.

Poi è stata la volta di Masters of War, un’altra di quelle canzoni classiche che rinnova sempre la propria potenza e il proprio significato anche a quasi cinquant’anni dal concepimento. Dylan la cantò polemicamente ai Grammi Awards molti anni fa all’esordio della prima guerra in Iraq in una versione rabbiosa e oggi la canta ancora perché è sempre attuale. La versione di ieri è stata particolarmente dura, ritmata, sferzante con richiami a quella del tour del ’78 e con qualche innovazione nel fraseggio, con la ripetizione dell’ultimo verso di ciascuna strofa. Le parole risuonano ancora vere: “A World War can be won/They want me to believe”. Proprio così, lo stiamo vedendo.

I Don’t Believe You è stata ravvivata dall’armonica di Dylan e ha preceduto la vetta assoluta del concerto (per me, naturalmente): Workingman’s Blues #2 è una grande canzone e l’esecuzione dal vivo le rende sempre giustizia. Anche ieri la performance è stata toccante e impeccabile, impreziosita - e non accade spesso a questa canzone - da un ottimo lavoro all’armonica. Le parole di questo amaro inno “operaio” sono sempre più vere in questi tempi di crisi: “They say low wages are a reality/If we want to compete abroad”. E ancor più: “Well, they burned my barn and they stole my horse/I can’t save a dime/I got to be careful, I don’t want to be forced/Into a life of continual crime”.

Cold Irons Bound è stata eseguita ottimamente, anch’essa con un trascinante assolo di armonica, seguita da Under the Red Sky, che ho riascoltato con piacere. Proviene dallo sfortunato album omonimo e Dylan, nel corso degli anni, l’ha eseguita poco dal vivo - ma non raramente - sempre con buona efficacia. Anche ieri.

Highway 61 Revisited è invece una di quelle canzoni che mi sono molto piaciute a suo tempo, ma che oramai faccio un po’ fatica ad ascoltare perché troppo inflazionata. A seguire una Can’t Wait che dal vivo ci guadagna e una Thunder on the Mountain non troppo esaltante (altre volte è stata eseguita meglio).

Ballad of a Thin Man è un classico che Dylan esegue sempre in modo grandioso. Anche stavolta, con i consueti ma sempre interessanti giochi di luce perfettamente in atmosfera con la canzone, un capolavoro surreale e fortemente politico. È stata la canzone che ha chiuso il set principale ed è stata anche quella in cui il servizio d’ordine ha perso la partita contro i soliti che vogliono imporre le loro preferenze (dimenarsi davanti al palco urlando e agitando le braccia) a quelle di tutto il resto del pubblico cui impediscono la visibilità del palco (ma a loro, direte, che gliene frega? Niente, appunto). È una circostanza che si ripete a ogni concerto di Dylan cui ho assistito soprattutto negli ultimi anni e stavolta ci è andata anche bene (a Trento, per fare un esempio, era andata molto peggio).

Dopo la pausa, il concerto è ripreso con una trascinante Like A Rolling Stone e, dopo Jolene (una canzone modesta che resta tale anche dal vivo), si è concluso alla grande con All Along the Watchtower, una canzone che, con qualunque arrangiamento venga suonata, resta magistrale.

La band ha offerto una prestazione professionale, senza troppi fronzoli: niente di cui scrivere a casa, ma neanche male. Continuo ad apprezzare George Recile come batterista, puntuale e scatenato al momento giusto. Stu Kimball e Donnie Herron fanno il loro lavoro con una certa precisione, ma non aggiungono mai molto colore al suono (come facevano, per andare a qualche esempio di media lontananza temporale, J.J. Jackson e Bucky Baxter). Charlie Sexton, rinomato chitarrista, mi è sembrato piuttosto in ombra: qualche assolo di buon livello e un solido professionismo, ma niente di travolgente. Però è solo una mia impressione (l’ultimo chitarrista dylaniano che mi ha impressionato molto positivamente è stato Fred Koella, che è durato ahimè troppo poco).

Anche per quest’anno è fatta: ogni volta penso che sia l’ultima perché il buon vecchio Bob avrebbe tutto il diritto a una pensione dai concerti intensivi (ma non dagli album, quella non gliela possiamo concedere) e se vorrà smettere non si potrà certo fargliene una colpa. Ogni volta però non è mai l’ultima e mi auguro che sia così anche stavolta.

3 commenti:

Samuele Zàccaro ha detto...

Sono contento che sei rimasto soddisfatto di questa esperienza;-)

Non gli hai fatto avere il tuo libro su di lui :-D?

Anonimo ha detto...

Infatti, è quello che mi chiedevo anch'io. Gli hai fatto pervenire il libro? Se non lo hai fatto, come penso, daccene una buona ragione.

Rudy Salvagnini ha detto...

Mi interessa molto quello che fa Bob Dylan, ma non credo che la cosa sia reciproca. Come disse lui stesso - pare - a un fan che l'aveva beccato in un ascensore dicendogli che sapeva tutto di lui, anche se lui (Dylan) non lo conosceva: "Continuiamo così".