domenica 26 settembre 2010

Schio Comics 2010!



Arrivata alla terza edizione, Schio Comics è una manifestazione fumettistica in crescita che punta molto sulla centralità degli autori dedicando loro delle mostre personali ricche e molto curate. A proposito di cura, il curatore è l’eroico Mauro Penzo che anche questa volta ha fatto un ottimo lavoro.

Le star di questa edizione sono Alessandro Gottardo e Silvia Ziche e quindi non potevo proprio esimermi dall’andarci. E infatti ci sono andato. La presentazione si è svolta ieri pomeriggio alle sei davanti a un folto pubblico (e ne ho le prove, come si usa dire).

Per l’occasione, come di consueto, è stato realizzato un albo a fumetti - dedicato questa volta a un eroe locale costruttore del primo dirigibile interamente italiano - e realizzato da una valente schiera di autori. Facciamo - come gli informatori della polizia - i nomi. Alcuni sono famosi, altri lo diventeranno: Emanuele Apostolidis, Davide Ceccon, Sara Isello, Piero Pierotti, Mark Donato, Marco Pasin e El-Hadji Sidy Ndaye.

La manifestazione prosegue anche oggi, per cui chi si trova in zona farebbe bene a farci un salto: si trova a Palazzo Fogazzaro, via Pasini 44. A Schio, ovviamente.

Alessandro Gottardo mi ha gentilmente fornito qualche documentazione fotografica che, godardianamente, non si incentra sul cuore della manifestazione ma sui dettagli. Pertanto, qua sopra posso inserire una foto del pubblico (ci sono anch’io, somewhere) che è tra l’altro la prova di cui sopra (che era folto, cioè). Poi il Gotta mi ha mandato anche un breve - ma veramente breve - filmato della presentazione in cui (da un’angolatura che farebbe orgoglioso Enrico Ghezzi) si riesce a scorgere Silvia Ziche, oltre a Mauro Penzo (che sta parlando). Mentre scrivo queste righe non so se sarò in grado di inserirlo (il filmato): chi legge potrà scoprire da solo se alla fine ce l’ho fatta.

Alessandro mi ha mandato anche un filmato e una foto della ricca cena post mostra (realizzata da cuochi sopraffini: la cena, non la mostra), ma dato che ci sono anch’io per ovvii motivi di privacy (e di buon gusto) non posso pubblicarli.

Qui sopra anche la copertina dell’albo speciale realizzato per l’occasione.

venerdì 24 settembre 2010

Bob Dylan a fumetti (3)



Concludo la trilogia fumettistico-biografico su Bob Dylan. Come ho già detto, la miniserie di tre comic-books è uscita all’interno di una collana intitolata Rock’n’Roll Comics pubblicata dalla Revolutionary Comics. Gli albi su Bob Dylan occupano i numeri 50, 51 e 52 della collana e sono usciti nel 1992 (agosto, settembre, ottobre). Del primo e del secondo albo ho parlato rispettivamente qui e qui.

Il terzo albo porta la vicenda up-to-date al 1992. La copertina si ispira a quella dell’allora recentissimo
Under the Red Sky, l’ultimo album di materiale originale dylaniano uscito sino a quel momento (e tale sarebbe rimasto per anni, sino a Time Out of Mind del 1997). L’interno segue la linea degli albi precedenti e non è che sia un bene: la cronologia dei fatti è abbastanza accurata, ma i disegni e i dialoghi sono più legnosi di una foresta vergine. Un esempio è la vignetta riprodotta qui sopra, che si riferisce al Grammy alla carriera del 1991 e a una delle varie apparizioni di Dylan al Letterman Show (ne ho parlato anche nel mio libro, Il cinema di Bob Dylan).

Una riflessione però è d’obbligo sulla difficoltà intrinseca di rappresentare la musica e i musicisti nei fumetti. Il fumetto è per sua natura muto. I suoni onomatopeici suppliscono bene a quelli naturali, ma la musica è un’altra cosa. I personaggi a fumetti che hanno avuto a che fare con la musica non sono stati molti - i protagonisti che facevano musica, intendo - proprio perché la loro rappresentazione è sempre inevitabilmente stata goffa. Si suppliva all’espediente facendo fare loro dell’altro - che ne so, il cantante che si trovava dentro trame gialle - ma questo era solo un espediente. Allo stesso modo, rievocare in un fumetto un cantante famoso risulta in qualche modo monco: in questo caso si può chiedere un contributo al lettore (che conosce le canzoni e quindi supplisce alla loro effettiva mancanza), ma a mio parere la cosa resta un’esperienza incompleta. Niente di grave, comunque.

mercoledì 22 settembre 2010

The Dunwich Horror


Questa volta sulla rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies mi occupo di Howard Phillips Lovecraft, uno scrittore che dovrebbe essere un tantino noto a chi si interessa di horror: in particolare, naturalmente, mi occupo delle sue (s)fortune cinematografiche e, ancor più in particolare, del film The Dunwich Horror, diretto nel 2009 da Leigh Scott.

Molti ricorderanno
Le vergini di Dunwich, un film di Daniel Haller che come titolo originale aveva proprio The Dunwich Horror. Questo non è un remake di quello, ma piuttosto una nuova versione dell'originale lovecraftiano. Le vergini di Dunwich aveva come protagonista, oltre a Sandra Scandalo al sole Dee, Dean Stockwell. Questo ha come protagonista Dean Stockwell. Combinazione. Le somiglianze si fermano più o meno qui.

Chi è interessato a leggere cosa ne ho scritto può cliccare qui ed essere spedito automaticamente al posto giusto.

Qui sopra una foto di Dean Stockwell (e chi se no?) da
The Dunwich Horror, che comunque ha nel cast anche l'immarcescibile Jeffrey Combs, altro lovecraftiano di ferro (Re-Animator docet).

lunedì 13 settembre 2010

Flani (7): La notte dei diavoli


Riprende il piccolo viaggio nella memoria del tempo (cinematografico) che fu attraverso un altro flano, stavolta relativo a un piccolo ma interessante film di Giorgio Ferroni, La notte dei diavoli.

Si tratta di una nuova versione dello stesso racconto di Aleksei Tolstoi già usato da Mario Bava per uno degli episodi del suo I tre volti della paura. Chi vuole può leggersi la scheda che ho scritto per il Dizionario dei film horror. Tra gli interpreti, il sempiterno Gianni Garko e una Agostina Belli al massimo del suo splendore. Ma ci sono anche la bambina per eccellenza di quei tempi (Cinzia De Carolis) e una veterana del cinema spagnolo, Teresa Gimpera. Un film che vale la pena di vedere, se vi capita.

La frase di lancio fa pensare a un film di licantropi (la luna, la trasformazione, le forze incontrollabili) e sembra essere stata scritta da qualcuno che non aveva visto il film.

Per la cronaca, la suspense ogni tanto si interrompeva.

Sempre per la cronaca, la matematica mi dice che questo è il centesimo post di questo blog. Niente di che festeggiare, ma è comuque un dato di fatto.

Erich von Stroheim e il cinema


Recentemente sono incappato nel numero 2 della rivista Sequenze, datato ottobre 1949. Sequenze era una rivista cinematografica diretta da Luigi Malerba e il numero in questione è monografico: si intitola “I registi parlano del film”. Coerentemente, contiene, assieme a pochi saggi critici, una serie di interventi di registi all’epoca famosi (e famosi anche adesso - o almeno dovrebbero esserlo - perché hanno fatto la storia del cinema).

Tra i registi intervenuti ci sono Chaplin, Eisenstein, Laurence Olivier, Pudovkin, Visconti, Dreyer, René Clair e altri ancora. Ignoro l’origine degli interventi - se siano stati scritti appositamente o siano traduzioni o altro ancora (non è specificato - ma quello che è certo è che sono molto interessanti.

Il più interessante di tutti, per me, è comunque quello di Erich von Stroheim. Come prima cosa perché già allora non dirigeva film da molti anni e non ne avrebbe più diretti. Colpito da una sorta di bando perpetuo, aveva dovuto - un po’ come sarebbe successo a Orson Welles (che avrebbe però potuto in qualche misura continuare a dirigere) - limitarsi a utilizzare uno dei suoi talenti di cui era dotato, la recitazione, spesso in film modesti che proprio dalla sua presenza traevano il motivo primo della loro esistenza. Come seconda cosa perché le sue riflessioni gettano una luce anche sulla vicenda umana di un autore di immense capacità costretto al silenzio creativo. L’articolo nel suo insieme è una lettura imperdibile e comprende anche il racconto degli inizi di von Stroheim come comparsa per D.W. Griffith, ma qui non posso che limitarmi a riportarne alcune frasi significative del rapporto di von Stroheim con il cinema e la produzione:

“Mi sono dato interamente al cinema perché, amico delle arti, vi ho trovato il più grande mezzo di espressione artistica. Il teatro non dispone che di mezzi limitati: è incompleto e sovente artificioso, il cinema è senza limitazioni e vi si può mostrare la vita reale con tutte le sue sozzure”.

“Non ho affatto abbandonato del tutto l’idea di dirigere di nuovo altri film. Avevo elaborato un progetto nel 1938 assieme al mio caro amico Jean Renoir. Egli aveva dialogato una sceneggiatura scritta da me:
La Dame Blanche. Io dovevo realizzarla con Jacques Becker come assistente. Ma la guerra ha impedito che il progetto fosse portato a termine. Quasi nello stesso tempo una società francese mi aveva assunto per realizzare un soggetto a mia scelta. Io proponevo una storia molto interessante intitolata La Couronne de Fer. I produttori la fecero adattare in un modo tale che la sceneggiatura era indegna di questo nome. Io ruppi il contratto. In seguito si realizzò questo film, credo, in Italia”. (qui von Stroheim si riferisce molto probabilmente a La corona di ferro di Blasetti del 1941)

“Mi è stato proposto recentemente di fare tre versioni di uno stesso film per una somma ridicolmente modesta e questo ‘per provare al mondo che io sono ancora capace di fare dei film’. Io non ho affatto bisogno di questa elemosina. Il mio passato parla sufficientemente, io penso, per permettermi di rifiutare degli affari che tornerebbero a esclusiva utilità dei produttori. E tuttavia non sono molto esigente. Io domando che si accetti un preventivo di 50-60 milioni, somma che si concede a dei registi debuttanti. Ho anche pronto un soggetto:
Les Feux de Saint-Jean. È la storia di un uomo che ama la sorella della moglie, per le qualità che vorrebbe trovare in questa”.

“Il cinema di domani non potrà essere che a colori e in rilievo poiché la vita è a colori e in rilievo”.

“Molto spesso quando ho lavorato sotto la direzione di altri registi, il mio cuore era spezzato, mi si sottoponevano dei progetti interessanti e molto denaro di cui una parte mi era data subito. Io firmavo; quando arrivava il giorno in cui bisognava cominciare a girare il film, mi si presentava una sceneggiatura impossibile, ma ormai io avevo accettato e consumato il denaro. Ero obbligato a recitare. Qualche volta si domandava il mio parere su certe scene, ma sovente il regista mi considerava troppo vecchio per comprendere la tecnica moderna”.

“Fra i registi di cui apprezzo il lavoro c’è anche” (prima ha citato Renoir e Clouzot) “Lewis Milestone, Christian Jacque e soprattutto Billy Wilder col quale ho fatto
Five Graves to Cairo e sotto la direzione del quale reciterò prossimamente Sunset Boulevard” (vale a dire Viale del tramonto, funereo ritratto della Hollywood che fu con un grandissimo von Stroheim quasi nei panni di se stesso).

“Quattro anni fa la veggente mi ha predetto una vita da ‘palla da tennis’ e dei grandi onori. Dopo di che i miei produttori non hanno affatto onorato i miei contratti e altri mi debbono ancora del denaro”.

Traspare una grande amarezza, oltre a una notevole dignità. Gli appassionati di horror amano ricordare von Stroheim per le sue caratterizzazioni indimenticabili in film come La donna e il mostro, ma c’era stato molto di più e molto altro avrebbe potuto esserci se la genialità non fosse così poco considerata.

martedì 7 settembre 2010

Horror Frames: Sauna


Questa volta, nella rubrica Horror Frames che scrivo per MyMovies, mi occupo di Sauna, un interessante film finlandese (in coproduzione con la Repubblica Ceca, per la precisione) di Antti-Jussi Annila: è un film che mi sento di raccomandare anche a chi non ama l'horror, oltre a qualche distributore italiano volenteroso. Come sempre, chi vuole leggere cosa ho scritto, non ha che da andare qui.

L'horror nordico sta sfornando sempre più prodotti di valore, diversi e stimolanti. Niente male, davvero.

Qui sopra una immagine dal film con, di spalle, Ville Virtanen, l'ottimo protagonista.

venerdì 3 settembre 2010

Rosco, Sonny e un'antenna in pericolo


Nel numero 36 del Giornalino, in edicola questa settimana, nuovo episodio della serie Rosco e Sonny. Il titolo è Un'antenna in pericolo e la storia si basa su una successione di quelli che venivano chiamati cliffhanger e che qui lo sono sostanzialmente per davvero, dato che i nostri poliziotti si trovano sospesi nel vuoto di un burrone, decisamente nei guai.

Come ho già scritto - ma lo ripeto volentieri - la serie è stata ideata dal maestro Claudio Nizzi e disegnata dapprima da Giancarlo Alessandrini e poi, quasi subito, dal dinamico Rodolfo Torti. Io sono subentrato ai testi nel novembre 1990, quindi mi appresto a celebrare volentieri le prime due decadi. Caratteristiche della serie sono ironia, azione e capovolgimenti di scena. Buona lettura.

domenica 29 agosto 2010

Nam Nai Choi su Segnocinema


È uscito il numero 165 (settembre-ottobre 2010) di Segnocinema sul quale, oltre al classico e utilissimo compendio Tutti i film dell’anno che scheda tutte le uscite della stagione, c’è l’undicesimo articolo della mia serie Kings of Exploitation, questa volta dedicato a Nam Nai Choi.

Nam Nai Choi - ho usato questa grafia perché è quella che mi è più familiare, ma è conosciuto con traslitterazioni e pseudonimi diversi - è un regista molto interessante e molto misconosciuto. Amante dell’eccesso e caratterizzato generalmente da uno stile iperdinamico e brillante, ha percorso tumultuosamente un decennio abbondante (1981-1992) del cinema di Hong Kong per poi sparire nel nulla. Ha diretto alcuni film che sono rimasti indelebilmente nella memoria del cinema di genere -
Story of Ricky e The Seventh Curse sono forse i più famosi - ma ha dato buona prova di sé anche in opere meno conosciute e assai curiose: Killer’s Nocturne, per citarne una sola, tra le più bizzarre.

Il periodo in cui ha lavorato come regista è tra i più significativi del cinema di Hong Kong e lui ne è stato in qualche modo un emblema, pur agendo sostanzialmente sotto traccia, sempre poco considerato, almeno a livello individuale. La commistione di generi che caratterizzava quegli anni ha trovato in lui un artefice tra i più spavaldi, capace di mettere insieme elementi disparati con esiti spesso felici o comunque inconsueti.

“Maledizioni esplosive, canguri boxeur, affascinanti spiriti della natura sedotti e seducenti, gatti alieni, supermonaci contro il male, carcerati capaci di spappolare stomaci con un pugno: l’immaginario di Nam Nai Choi è variegato e multiforme, oltre ogni limite. Mostra cose mai viste e mai più riviste, a testimonianza di un momento particolare di una cinematografia in cui tutto sembrava possibile” scrivo nella presentazione dell’articolo su Segnocinema.

Della mia serie Kings of Exploitation ho già parlato qui in occasione, l’anno scorso, dell’uscita del pezzo di Teruo Ishii. Mi sembra utile aggiornare l’indice della serie:
Jesus Franco (Segnocinema 104/2000)
Jean Rollin (Segnocinema 111/2001)
Pete Walker (Segnocinema 117/2002)
Jack Hill (Segnocinema 123 e 124/2003)
Doris Wishman (Segnocinema 129/2004)
Eddie Romero (Segnocinema 135/2005)
Paul Naschy (Segnocinema 141/2006)
René Cardona e Juan Lopez Moctezuma (Segnocinema 147/2007)
Michael e Roberta Findlay (Segnocinema 153/2008)
Teruo Ishii (Segnocinema 159/2009)
Nam Nai Choi (Segnocinema 165/2010)

Buona lettura a chi deciderà di intraprenderla.

I miei fumetti e Bob Dylan (2)



Riprendo dopo un bel po’ la mini miniserie dedicata ai miei fumetti con citazioni o implicazioni dylaniane. Ne avevo iniziato a parlare in questo post. Stavolta il riferimento è più diretto. Il fumetto si intitola Le radici dell’odio: la storia di Emmett Till, è stato disegnato da mio fratello Gianni ed è stato pubblicato sul Messaggero dei Ragazzi n. 11 del 1993. Qualche annetto fa, quindi.

La vicenda è quella dell’omicidio di un ragazzo di colore avvenuta nel profondo Sud degli Stati Uniti il 28 agosto del 1955. Si tratta di un caso che ha avuto ai tempi una certa risonanza - anche per il suo esito processuale - nell’ambito della lotta per i diritti civili. Bob Dylan ha scritto una canzone sull’argomento, The Death of Emmett Till, nel 1962. L’ha cantata spesso dal vivo nei primi tempi della sua attività - ne esiste un’ottima versione nel programma radiofonico di Cynthia Gooding, Folksinger’s Choice, sempre del 1962 - ma non è mai finita su uno dei suoi album, benché sia stata registrata durante le sessioni per The Freewheelin’ Bob Dylan, il suo secondo album. È uscita solo - se la memoria non mi inganna - nell’album collettivo Broadside Ballads vol. 6: Broadside Reunion al quale Dylan ha partecipato con lo pseudonimo di Blind Boy Grunt. Questo per quanto riguarda le uscite ufficiali.

La canzone è piuttosto semplice, a suo modo efficace soprattutto per l’interpretazione, ma sicuramente non è una delle migliori. Il motivo è quasi banale: diversamente da quanto avrebbe fatto in seguito a questo suo pionieristico sforzo (è una delle prime canzoni che ha scritto, sostanzialmente). Dylan fa largo uso di una facile retorica e non riesce ad andare oltre la narrazione dei fatti, traendone una morale ovvia. Manca quel passaggio dal particolare all’universale che avrebbe caratterizzato i suoi successivi esempi di canzone politica: basta fare un confronto con la ben più riuscita The Lonesome Death of Hattie Carroll, di soli due anni più tardi e anch’essa riguardante un omicidio a sfondo razziale rimasto in pratica impunito, per cogliere facilmente la differenza di profondità e di scopo.

La storia in sé - la vicenda di Emmett Till - mi era sembrata comunque interessante, ottima materia per un racconto morale, a patto di evitare i toni enfatici e di cercare un approccio un po’ ellittico. Evitare cioè l’errore di inesperienza compiuto da Dylan (resta il fatto però che The Death of Emmett Till è una canzone comunque coinvolgente e molto bella all’ascolto), per quanto possibile. Per farlo, ho dato una struttura particolare alla storia inserendola in una cornice attuale, tracciando un parallelo tra il razzismo di allora e quello di adesso (più sottotraccia) ed evidenziando anche come quello che vediamo - in Tv, magari, come avviene nella mia storia - ci porti spesso a un facile coinvolgimento emotivo che ci fa sentire più giusti e più buoni, ma non ha alcuna ricaduta sulla realtà, sui comportamenti che adottiamo nella nostra vita. La storia è di 17 anni fa: oggi le cose si sono evolute in modo ancora più drammatico e disorientante.

Nella mia fulminea esperienza di insegnante in una scuola di fumetto ho usato proprio quella storia per mostrare un modo di intervenire sulla struttura di un soggetto per dargli maggiore forza drammatica, per caratterizzarlo e diversificarlo, aggiungendogli significati.

In effetti comunque un motivo non secondario per scrivere quella sceneggiatura era stato quello di fare un fumetto con dentro Bob Dylan, in qualche modo. Lo spunto mi era venuto da un interessante articolo che rievocava il fatto pubblicato su quell’insostituibile rivista di studi dylaniani che fu The Telegraph, creata e curata dal compianto John Bauldie. Poi mi ero documentato anche altrove e tutto quello che è rievocato nel fumetto dovrebbe rispecchiare i fatti. Anche se a me di solito piace di più lavorare di fantasia (come ha detto una volta ironicamente Jimmy Sangster: “Se una storia richiedeva che mi documentassi, non la scrivevo”), quando è necessario bisogna documentarsi per evitare di scrivere sciocchezze. A meno che - e anche questo capita - non si vogliano davvero scrivere sciocchezze: a volte possono essere molto divertenti.

Qui sopra un paio di pagine (la quinta e l'ottava) di quella storia.

lunedì 23 agosto 2010

Il nuovo Nightmare e altro


Le vacanze sono terminate e mi rimetto al passo segnalando alcune delle mie cose che nel frattempo sono uscite sul sito di MyMovies, per chi fosse interessato. La recensione del remake di
Nightmare la trovate qui. Non credo ce ne fosse davvero bisogno - di un remake di Nightmare, intendo - ma da sempre le cose inutili sovrastano quelle utili, per cui non ci resta che prenderne atto ancora una volta: l'industria del remake non conosce crisi. Certo, un Freddy Krueger senza Robert Englund è come uno Psycho senza Anthony Perkins (sì, lo so che hanno fatto anche quello: appunto...).

Nella rubrica Horror Frames ho parlato invece, nel corso di questo mese, di due film assai diversi, anche negli esiti.
Skjult (titolo internazionale Hidden: meglio il titolo originale, qualunque cosa significhi, Hidden mi pare un po' inflazionato come titolo) mi è piaciuto più che abbastanza e quel che ne penso lo trovater qui. Un film rarefatto, raggelante, ben fatto e ben diretto da Pål Øie (bel nome, no? Un giorno magari scoprirò anche come si pronuncia). Case 39, invece, è un classico film del filone sui bambini demoniaci: niente di nuovo, direi. La mia opinione la trovate qui.

Qui sopra una foto da
Skjult: l'attore in primo piano è il protagonista Kristoffer Joner, molto bravo.

domenica 8 agosto 2010

I maggiori incassi horror dell’ultima stagione cinematografica


L’aspetto commerciale del cinema mi ha sempre incuriosito e interessato. Sapere quanto un film aveva incassato e se aveva calamitato l’interesse del pubblico mi è sempre sembrato qualcosa di relativamente importante. Le pagine centrali del Giornale dello Spettacolo - tutte cifre, con il commento stringato ma puntuale e centrato di Ferraù - sono state per molti anni una lettura a cui non potevo rinunciare. Per questo motivo nel Dizionario dei film horror, laddove disponibili e significativi, ho messo i dati degli incassi. Anche se è ovvio che i film che mi piacciono di più - anche non in campo horror - non sono necessariamente (anzi, non sono quasi mai) quelli che incassano di più, il fatto che un film abbia avuto successo non significa automaticamente che sia triviale e “commerciale” nel senso deteriore della parola (ma Doris Wishman diceva che tutti i film sono commerciali - dai suoi fatti con due soldi ai blockbuster ai film impegnati - perché tutti mirano a essere visti da spettatori paganti). Però gli incassi ci dicono ugualmente qualcosa. Ci dicono soprattutto qualcosa sui gusti del pubblico, su come cambiano, su come un film abbia saputo intercettarli, magari con un budget ridotto, azzeccando una formula o un’idea vincente. E ci dicono anche il contrario, quando ci mostrano come filmoni costruiti per spaccare il mondo vengono rifiutati dal pubblico.


Ma non andiamo troppo nel sociologico, restiamo nel tecnico, come avrebbe fatto il mitico e insostituibile Ferraù, senza alcuna pretesa di emularlo. La stagione cinematografica 2009/2010 si è praticamente conclusa con la consueta calma piatta dell’estate italiana. Negli ultimi anni sono stati fatti diversi tentativi per rendere anche i mesi estivi dei mesi cinematografici, ma non è che i risultati siano stati eclatanti. Perciò, a parte qualche possibile limatura negli ultimi scampoli, la classifica dovrebbe essere ormai più o meno definitiva. Ho esaminato la classifica dei Top 100 come potete trovarla nel sito di MyMovies (se volete dare uno sguardo d’insieme potete dargli un’occhiata: è piuttosto interessante). Poi da quella ho estrapolato gli horror e ne è venuta fuori questa classifica, dedicata esclusivamente al genere. La posizione tra parentesi è quella che il film occupa nella classifica generale dei Top 100 tanto per dare un’idea dell’impatto degli horror nella classifica complessiva.


1 (7) The Twilight Saga: New Moon € 16.451.801

2 (10) The Twilight Saga: Eclipse € 15.381.065

3 (29) Paranormal Activity € 6.474.554

4 (34) Dorian Gray € 5.734.280

5 (44) Wolfman € 4.356.908

6 (50) The Final Destination 3D € 3.664.274

7 (78) Saw VI € 1.888.366

8 (83) Il quarto tipo € 1.711.353

9 (84) The Hole in 3D € 1.708.485

10 (88) Solomon Kane € 1.675.677

11 (90) Predators € 1.481.881

12 (99) Il messaggero - The Haunting in Connecticut € 1.333.130


Le cifre ci dicono che l’horror rimane una consistente presenza in sala, con un discreto numero di rappresentanti nella classifica dei maggiori incassi, anche se è chiaro che, essendo un genere di nicchia, tende a essere maggiormente rappresentato nell’home video. Diversi dei film in classifica sono delle contaminazioni con altri generi. In particolare, i film della saga di Twilight, pur mantenendo una forte componente horror, vedono il loro tratto più significativo nel melodramma imparentato con la soap-opera che attira il pubblico femminile più giovane, quello che generalmente non va molto al cinema. È un fatto positivo? Per chi produce quei film sicuramente sì.


Il primo horror puro in classifica è Paranormal Activity, che rappresenta uno di quei “casi” che ogni tanto - vedi Blair Witch Project - smuovono le acque e dimostrano come anche con pochi soldi si possa, con un bel po’ di fortuna, generare incassi colossali. Dorian Gray e Wolfman sono due rivisitazioni di altrettanti miti dell’horror da lungo tempo presenti sugli schermi. Dorian Gray, il più glamour dei due, è andato inaspettatamente bene, mentre Wolfman ha avuto esito contrario: la scelta di fare un horror in costume non ha premiato. Probabilmente è stato considerato “vecchio” come approccio dal pubblico giovanile, che è poi quello che va al cinema. Bene è andato invece The Final Destination che ha tratto giovamento senz’altro dall’essere in 3D, come è avvenuto anche, in misura minore (ma in questo caso mancava il traino della serie), per The Hole, un film che ha riportato in sala il glorioso Joe Dante, reduce da alcuni flop che ne avevano in parte compromesso la carriera. L’esito di Saw VI dimostra come la serie cominci ad avere il fiato corto. Da Solomon Kane nessuno, credo, si aspettava di più e anche Il quarto tipo ha reso secondo le aspettative. Il messaggero, classica vicenda fantasmatica, e Predators chiudono la classifica: forse da quest’ultimo era lecito attendersi un incasso maggiore, ma l’uscita estiva non l’ha certo favorito. Nell’insieme, un gruppo variegato comprendente diverse tendenze e diversi aspetti dell’horror, da quello tradizionale a quello più moderno e “crudele” a quello contaminato con altri generi.


Sono stati questi i migliori horror che abbiamo avuto in sala in questa stagione? Ovviamente no. La città verrà distrutta all’alba avrebbe meritato di più e in fondo anche The Box, per non parlare di Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi (che però ha avuto una distribuzione meramente dimostrativa). Ma l’esito del botteghino è inappellabile e questo è quanto. Inoltre, almeno tra i film usciti in Italia al cinema in questa stagione, non c’è stato un capolavoro horror: una stagione interlocutoria nella quale, come accade spesso, i migliori film sono stati ignorati o sono usciti direttamente in dvd.


lunedì 26 luglio 2010

Survival of the Dead


Dovrebbe essere in uscita in dvd italiano, perciò ne ho parlato nella mia rubrica Horror Frames nel sito MyMovies: mi riferisco all'ultimo capitolo della saga zombesca di George A. Romero, Survival of the Dead. Per leggere cosa ho scritto, basta seguire questo link.

Sono passati parecchi anni da La notte dei morti viventi (42, per l'esattezza) e forse non c'è più molto di nuovo da dire sull'argomento, anche per la miriade di cloni e imitazioni che hanno imperversato negli ultimi decenni - ma in particolare nell'ultimo - però non si può negare al buon vecchio George il diritto aggiungere qualche postilla. La cosa singolare è che i suoi ultimi tre zombie movie hanno avuto la capacità di dividere aspramente critica e spettatori in detrattori e apologeti, quando forse, con un po' di equilibrio, si sarebbe potuto (o si potrebbe, siamo ancora in tempo) coglierne serenamente pregi (non pochi) e difetti (qualcuno c'è). In ogni modo, il mio augurio è che Romero faccia ancora tutti i film che vorrà fare, siano di zombie o di qualcos'altro. Io li andrò a vedere.

Qui sopra Alan Van Sprang, ultimo antieroe disilluso tipicamente romeriano, in Survival of the Dead.