lunedì 13 settembre 2010

Erich von Stroheim e il cinema


Recentemente sono incappato nel numero 2 della rivista Sequenze, datato ottobre 1949. Sequenze era una rivista cinematografica diretta da Luigi Malerba e il numero in questione è monografico: si intitola “I registi parlano del film”. Coerentemente, contiene, assieme a pochi saggi critici, una serie di interventi di registi all’epoca famosi (e famosi anche adesso - o almeno dovrebbero esserlo - perché hanno fatto la storia del cinema).

Tra i registi intervenuti ci sono Chaplin, Eisenstein, Laurence Olivier, Pudovkin, Visconti, Dreyer, René Clair e altri ancora. Ignoro l’origine degli interventi - se siano stati scritti appositamente o siano traduzioni o altro ancora (non è specificato - ma quello che è certo è che sono molto interessanti.

Il più interessante di tutti, per me, è comunque quello di Erich von Stroheim. Come prima cosa perché già allora non dirigeva film da molti anni e non ne avrebbe più diretti. Colpito da una sorta di bando perpetuo, aveva dovuto - un po’ come sarebbe successo a Orson Welles (che avrebbe però potuto in qualche misura continuare a dirigere) - limitarsi a utilizzare uno dei suoi talenti di cui era dotato, la recitazione, spesso in film modesti che proprio dalla sua presenza traevano il motivo primo della loro esistenza. Come seconda cosa perché le sue riflessioni gettano una luce anche sulla vicenda umana di un autore di immense capacità costretto al silenzio creativo. L’articolo nel suo insieme è una lettura imperdibile e comprende anche il racconto degli inizi di von Stroheim come comparsa per D.W. Griffith, ma qui non posso che limitarmi a riportarne alcune frasi significative del rapporto di von Stroheim con il cinema e la produzione:

“Mi sono dato interamente al cinema perché, amico delle arti, vi ho trovato il più grande mezzo di espressione artistica. Il teatro non dispone che di mezzi limitati: è incompleto e sovente artificioso, il cinema è senza limitazioni e vi si può mostrare la vita reale con tutte le sue sozzure”.

“Non ho affatto abbandonato del tutto l’idea di dirigere di nuovo altri film. Avevo elaborato un progetto nel 1938 assieme al mio caro amico Jean Renoir. Egli aveva dialogato una sceneggiatura scritta da me:
La Dame Blanche. Io dovevo realizzarla con Jacques Becker come assistente. Ma la guerra ha impedito che il progetto fosse portato a termine. Quasi nello stesso tempo una società francese mi aveva assunto per realizzare un soggetto a mia scelta. Io proponevo una storia molto interessante intitolata La Couronne de Fer. I produttori la fecero adattare in un modo tale che la sceneggiatura era indegna di questo nome. Io ruppi il contratto. In seguito si realizzò questo film, credo, in Italia”. (qui von Stroheim si riferisce molto probabilmente a La corona di ferro di Blasetti del 1941)

“Mi è stato proposto recentemente di fare tre versioni di uno stesso film per una somma ridicolmente modesta e questo ‘per provare al mondo che io sono ancora capace di fare dei film’. Io non ho affatto bisogno di questa elemosina. Il mio passato parla sufficientemente, io penso, per permettermi di rifiutare degli affari che tornerebbero a esclusiva utilità dei produttori. E tuttavia non sono molto esigente. Io domando che si accetti un preventivo di 50-60 milioni, somma che si concede a dei registi debuttanti. Ho anche pronto un soggetto:
Les Feux de Saint-Jean. È la storia di un uomo che ama la sorella della moglie, per le qualità che vorrebbe trovare in questa”.

“Il cinema di domani non potrà essere che a colori e in rilievo poiché la vita è a colori e in rilievo”.

“Molto spesso quando ho lavorato sotto la direzione di altri registi, il mio cuore era spezzato, mi si sottoponevano dei progetti interessanti e molto denaro di cui una parte mi era data subito. Io firmavo; quando arrivava il giorno in cui bisognava cominciare a girare il film, mi si presentava una sceneggiatura impossibile, ma ormai io avevo accettato e consumato il denaro. Ero obbligato a recitare. Qualche volta si domandava il mio parere su certe scene, ma sovente il regista mi considerava troppo vecchio per comprendere la tecnica moderna”.

“Fra i registi di cui apprezzo il lavoro c’è anche” (prima ha citato Renoir e Clouzot) “Lewis Milestone, Christian Jacque e soprattutto Billy Wilder col quale ho fatto
Five Graves to Cairo e sotto la direzione del quale reciterò prossimamente Sunset Boulevard” (vale a dire Viale del tramonto, funereo ritratto della Hollywood che fu con un grandissimo von Stroheim quasi nei panni di se stesso).

“Quattro anni fa la veggente mi ha predetto una vita da ‘palla da tennis’ e dei grandi onori. Dopo di che i miei produttori non hanno affatto onorato i miei contratti e altri mi debbono ancora del denaro”.

Traspare una grande amarezza, oltre a una notevole dignità. Gli appassionati di horror amano ricordare von Stroheim per le sue caratterizzazioni indimenticabili in film come La donna e il mostro, ma c’era stato molto di più e molto altro avrebbe potuto esserci se la genialità non fosse così poco considerata.

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