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venerdì 5 marzo 2021

Surviving in a Ruthless World - Bob Dylan's Voyage to Infidels

 


Infidels, uscito nel 1983, è un album particolare e unico nella discografia di Bob Dylan, che si caratterizza per essere prevalentemente composta da dischi particolari e unici. Ma Infidels è diverso da ogni altro disco di Bob Dylan: è arrivato dopo dischi assolutamente diversi e il suo particolare sound e la particolarità delle sue canzoni sono rimasti senza seguito (un po' come avvenuto con Desire o Street Legal). All'epoca della sua uscita, Infidels venne considerato il ritorno al “laicismo” da parte di Dylan dopo la cosiddetta trilogia cristiana che tanto aveva sorpreso e diviso i suoi fan. Echi reggae, versi visionari e immaginifici assieme ad altri più apparentemente semplici, la chitarra di Mick Taylor, il ritmo sostenuto della mitica coppia composta da Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, la meticolosa produzione (e la chitarra) di Mark Knopfler: tutto questo e molto altro rendono Infidels un disco di notevole bellezza e fascino. Anche senza considerare che due delle sue canzoni migliori, vale a dire Blind Willie McTell (una delle migliori canzoni di Dylan in assoluto) e Foot of Pride, non vennero nemmeno inserite nel disco e - a parte i benedetti bootleg - riemersero solo dopo anni in versione ufficiale nei primi volumi della cosiddetta Bootleg Series.

La storia di quel disco è ora in un ottimo libro. Surviving in a Ruthless World - Bob Dylan’s Voyage to Infidels, scritto da Terry Gans (tra le altre cose collaboratore a suo tempo di quella meravigliosa rivista dylaniana che fu The Telegraph sino alla morte del suo autore-editore John Bauldie) e pubblicato (in inglese) da Red Planet, ci dice tutto quello che c’è da sapere sulla realizzazione del disco, seguendo le mosse di Dylan a partire dalle premesse e dalla creazione delle canzoni a bordo della sua barca a vela nel mare dei Caraibi sino alle sessioni di registrazione con tutto il processo creativo a esse sotteso per poi arrivare alla post produzione e all’uscita del disco, senza trascurare i video che per la prima volta nell’epoca dei videoclip venivano realizzati su canzoni di Dylan. Il tutto con un livello di documentazione eccezionale grazie all’accesso da parte dell’autore al The Bob Dylan Archive dell’Università di Tulsa che come si sa ha acquistato da Dylan il suo archivio documentale. Così Gans ha potuto consultare tutti i note-book di Dylan, riuscendo a verificare il processo creativo con i vari spunti che via via si trasformavano - quando lo facevano - in canzoni compiute. E ha anche potuto ascoltare - dandone conto nel libro - tutti i nastri delle sessioni di registrazione, con le varie versioni delle canzoni, comprese quelle che non ce l’hanno fatta a finire sul disco e i frammenti, le cover, le warm-up songs. Il quadro che emerge è affascinante e, oltre a mettere voglia di riascoltare un disco così complesso e interessante, apre uno spiraglio unico nella mente creativa di Dylan e nei suoi processi. E nel passare in rassegna, nel dettaglio, a ciascuna delle canzoni di Infidels, il libro ci ricorda come anche un disco che di certo non è tra i più celebrati di Dylan contenga perle inarrivabili (Jokerman, giusto per citarne una) e sia ricchissimo di spunti, di stimoli e di profondità.

In sostanza, un libro del genere è imperdibile per chiunque sia interessato a Dylan (e chi non è interessato dovrebbe iniziare a farlo prima che sia troppo tardi). Dovrebbe essercene uno simile per ciascun disco di Dylan e speriamo che prima o poi ciò accada.

lunedì 16 gennaio 2012

Bob Dylan: Blind Willie McTell per Martin Scorsese



Nel corso dei decenni, le partecipazioni televisive di Bob Dylan sono sempre state in bilico tra il memorabile e il fallimentare, con larga prevalenza della prima tipologia sulla seconda, ma con altrettanto larga controversia sull’annessione delle singole fattispecie a ciascuna categoria, in larga parte in dipendenza della sensibilità, chiamiamola così, dello spettatore. Ne ho scritto diffusamente ne Il cinema di Bob Dylan e ne scrivo volentieri ancora.

Oggi infatti le cose sono abbastanza (ma non del tutto) cambiate e le apparizioni televisive, rare come al solito ma non rarissime, di Dylan sono caratterizzate da riuscite pressoché universali, anche se non sempre la riuscita è colta da tutti. Infatti, ogni volta Dylan si presenta come una sorta di Ufo calato da un altra dimensione rispetto a ciò che si vede - di musicale, in particolare, ma non solo - sul piccolo schermo e ogni volta riafferma, con la sola presenza, la sua carismatica diversità. Ed essendo diverso può provocare ammirazione oppure sconcerto.

Questo è puntualmente avvenuto qualche giorno fa nella serata in onore di Martin Scorsese (Martin Scorsese Critics’ Choice tribute), nella quale Dylan è intervenuto eseguendo Blind Willie McTell, uno dei suoi capolavori. Tanto grande da essere stato lasciato fuori dall’album Infidels (1983) per il quale era stato registrato e da essere pubblicato solo anni dopo in The Bootleg Series (1991), peraltro in una versione acustica (pur ottima) inferiore a quella elettrica, stratosferica e ancora inedita.

Bob Dylan si è esibito con la sua solita band - diversamente da quanto fatto in altre recenti circostanze televisive (alla Casa Bianca - ne ho parlato qui - e nel documentario The People Speak su History Channel, con una toccante versione di Do Re Mi di Woody Guthrie) - e senza cappello, rispettando in questo caso la sua consuetudine televisiva. Ha interpretato Blind Willie McTell in una versione più light e ritmata, meno straziante e blues, ma comunque potente ed evocativa - con tre assoli di armonica suggestivi e magistrali - ben allineata alla forza di un testo che ripercorre momenti topici della storia americana per trarne una verità incontrovertibile. Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell. Sofferenza e dolore generano la capacità di comprendere la realtà e di trasfigurarla in arte, magari senza saperlo o senza elucubrarci sopra. Come Blind Willie McTell. Ma se quella è la verità evidente, altre sono più elusive, in un gioco di rimandi e stimoli che è tipico delle grandi canzoni di Dylan. Confidente e disinvolto come negli ultimi tempi in concerto, meno tetragono e più aperto, Dylan sembra aver raggiunto invece la piena consapevolezza di sé e delle sue capacità. La voce roca e spezzata del Dylan attuale è perfetta per una canzone che parla di soprusi e di violenza, ma è stato davvero curioso vedere il contrasto tra le parole della canzone (e il loro significato) e il contesto rutilante di divi dello spettacolo che, eleganti, ascoltavano e parlottavano tra loro. Di Caprio - maestro di cerimonia - ha chiesto poi la standing ovation, che è avvenuta di riflesso, ma non saprei dire quanto spontaneamente. L’Ufo era atterrato e come Michael Rennie aveva portato notizie sulla realtà che il mondo dorato non sempre riesce a cogliere nella sua vera essenza limitandosi spesso a proporne dei - come dicono i giornalisti sportivi televisivi - riflessi filmati. Martin Scorsese però sembrava realmente colpito e ammirato. Del resto, dall’Ultimo valzer a No Direction Home, ha avuto modo di capire cosa può aspettarsi da Dylan.

sabato 14 novembre 2009

Bob Dylan, Forever Young e Hanging in the Balance


Se qualcuno mi chiedesse di isolare un singolo momento dell’attività live di Bob Dylan come quintessenziale e rappresentativo, non avrei dubbi nell’indicare una delle versioni di Forever Young eseguita nel 1981. C’è una certa dose di provocazione in questa scelta, ma non troppa.

Quello era un periodo particolare per Bob Dylan, in uscita dalla fase “religiosa” e un po’ risentito per l’accoglimento controverso dei suoi concerti del biennio 79/80, nei quali aveva cantato esclusivamente i pezzi provenienti dai cosiddetti album della conversione, causando il risentimento da parte degli spettatori che speravano nell’esecuzione di almeno alcuni dei classici degli anni precedenti. Già nell’ultima parte del 1980 il format dei concerti era cambiato con l’introduzione di canzoni non “religiose”, ma è nel 1981 che questa struttura si perfeziona dando più spazio alle canzoni “secolari”. Il clima però è quasi rabbioso, con un Dylan che dà l’impressione - chissà poi se vera - di essere quasi risentito per la concessione che si è sentito di dover fare. Oppure comunque carico di una energia quasi antimaterica che dilania e reinventa le sue vecchie canzoni, annientandole per rinvigorirle. Shot of Love, l’album in studio del 1981, è quasi del tutto scevro da questa carica, ma rappresenta un punto di passaggio importante tra l’abbandono delle tematiche religiose “evidenti” e il ritorno a un laicismo dubbioso, ma certamente spirituale, evidenziato in Infidels di due anni dopo.

Proprio per questo i concerti del 1981 sono del tutto particolari e unici anche all’interno del variegatissimo canone dylaniano. E Forever Young ne è il momento più alto e significativo. Scritta - pare - per il figlio Jakob (più tardi leader dei Wallflowers), Forever Young è una di quelle canzoni di Dylan che acquistano rilievo soprattutto per l’interpretazione. Il testo infatti è suggestivo, ma semplice, a tratti anche banali nel suo dispensare i consigli che un padre avveduto potrebbe dare al suo figlioletto. E che sia una canzone che dipende dall’interpretazione per la sua ottimizzazione dev’essere stato sin da subito chiaro anche a Dylan perché bell’album Planet Waves (1974) che per primo la contiene ne ha inserito, cosa più unica che rara, addirittura due versioni del tutto diverse tra loro. In una, giocosa e veloce, l’ottimismo sprigiona da ogni nota. Nell’altra, lenta e struggente, si intuisce perfettamente il tono di un augurio da parte di chi sa che ci sarà più di qualche possibilità che l’esortazione a essere per sempre giovane (non fisicamente, ovviamente) avrà bisogno di molta fortuna e buona volontà per realizzarsi.

La versione live del 1981 è straziata, dilaniata, pessimistica, guidata da due assoli di armonica lancinanti che possono essere (al pari di quelli di Mama You Been On My Mind cantata al Phoenix Festival nel 1995) un valido banco di prova per testare il grado di sopportazione di chiunque alla musica di Bob Dylan: se riuscite a coglierne la grandezza e non siete allontanati dal loro suono volutamente stridente, ci siete. Si capisce che stavolta è la disperazione a dettare le parole e che chi le canta sa che non c’è alcuna possibilità che l’augurio si concretizzi: è quasi un grido nel deserto. Da ottimistica, la canzone diventa pessimistica, disillusa. Acquista uno spessore insolito e musicalmente è assai diversa da qualsiasi versione precedente e successiva. Forever Young è una canzone molto eseguita nei concerti di Dylan degli ultimi decenni, ma, pur risultando sempre più che gradevole, non ha mai avuto né avrà mai più (sino ad ora almeno) le caratteristiche salienti e toccanti che ha avuto nel 1981.

Tutte le Forever Young del 1981 sono memorabili, ma se dovessi sceglierne una, suggerirei quella contenuta nel bootleg in vinile Hanging in the Balance (dal concerto di Bad Segeberg del 14 luglio 1981), la prima che ho sentito, ai tempi in cui i bootleg erano in libera vendita nei negozi di dischi. L’unico rammarico è che purtroppo mancano registrazioni di quel periodo - stranamente uno dei meno considerati anche dagli appassionati di Dylan - di alta qualità sonora, per cui l’augurio che mi faccio è che prima o poi la Columbia decida di far uscire un volume delle Bootleg Series dedicato proprio a quei concerti.