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lunedì 28 agosto 2017

Tobe Hooper (1943-2017)

Quando in un caldo giorno dell’estate 1974 sono andato al cinema Ducale per vedere un nuovo film, Non aprite quella porta, non mi aspettavo l’impatto che avrebbe avuto su di me e la forte impressione che mi avrebbe suscitato. Uno di quei film che, soprattutto se vai a vederlo da solo (come era capitato a me), ti fanno continuare a guardarti le spalle quando percorri la strada verso casa. Un paio d’anni dopo, la mia ragazza di quel periodo, sapendo della mia passione per gli horror e avendone visti diversi con me (roba classica per l’epoca, gli Hammer, i Poe della AIP, che avevo programmato in una rassegna in un cinema locale), mi disse che gli horror non facevano per niente paura, al massimo facevano ridere. Le dissi che c’erano anche degli horror che, in effetti, facevano paura e lei mi sfidò a mostrargliene uno. Caso volle che al cinema Arcobaleno facessero Non aprite quella porta (a quei tempi i film duravano parecchio e riemergevano quando meno te l’aspettavi). Perciò, avvertendola che era un film tosto, la portai a vederlo. Dopo penso più o meno un quarto d’oro, molto seccata e penso anche piuttosto turbata, mi ingiunse di uscire dicendo che film del genere erano per persone malate. Aveva visto un horror di quelli che lasciano il segno.

Tobe Hooper è morto un paio di giorni fa dopo una lunga carriera a lottare contro l’etichetta di one hit wonder. E che Non aprite quella porta sia stato un hit non c’è dubbio. Non solo per il grande successo, ma anche per la forte influenza che ha esercitato nel cinema horror successivo. Assieme a La notte dei morti viventi e a L’ultima casa a sinistra completa un'ideale triade di film fondamentali di quegli anni che hanno, chi più chi meno, posto le basi per gran parte del genere horror futuro. La compattezza, il profondo senso della suspense, la capacità di creare stilemi nuovi, il perfetto senso del ritmo, la sottigliezza dell’analisi sociopolitica: tutto questo e altro ancora congiurò a creare un film perfetto anche nelle sue imperfezioni.

Proprio per questo, per me fu un disappunto vedere qualche tempo dopo il suo secondo film, Quel motel vicino alla palude, così diverso e slabbrato, pieno di humor malato, ma senza la lucida ferocia del film precedente. Probabilmente ero rimasto vittima di aspettative mal riposte e Hooper aveva semplicemente fatto una cosa diversa. Col tempo avrei rivalutato (non del tutto, però) quel film, ma allora mi diede l’impressione che Hooper forse non fosse quel grande autore che mi era sembrato.

La sua filmografia successiva è stato un continuo rincorrere barlumi di quella grandezza, cercando di vederli dovunque e sempre auspicando che arrivasse il grande film che ce la restituiva intatta. Per vari motivi, Le notti di Salem e Il tunnel dell’orrore sembravano mancanti di qualcosa, anche se rimanevano film più che validi e si vedeva sempre la mano un regista capace e ricco di inventiva. Poi c’è stato Poltergeist - Demoniache presenze che, se ha restituito a Hooper il grande successo di pubblico, l’ha anche messo in una situazione poco piacevole con un produttore molto presente come Steven Spielberg, lasciando in molti il dubbio che il vero autore fosse il produttore e non il regista (come capitava ai tempi di Val Lewton). Un successo quindi sotto forma di polpetta avvelenata. Dobbiamo comunque attenerci ai credits originali e dare a Hooper quello che è di Hooper: lui è stato il regista ufficiale di Poltergeist, anche se probabilmente la sua visione è stata almeno in parte compromessa dalle ingerenze di Spielberg (che del resto, se avesse potuto, avrebbe volentieri diretto lui stesso il film).

Sull’onda di quel successo, lo sciagurato incontro con la Cannon di Golan-Globus. Sciagurato perché, per qualche motivo, i film della Cannon andavano tutti male al botteghino, anche quando sembrava che andassero bene. Però in Space Vampires abbiamo forse il miglior film di Hooper dopo Non aprite quella porta: un fantahorror apocalittico che rimanda a certe atmosfere lovecraftiane dell’hammeriano L’astronave degli esseri perduti, con una Mathilda May assolutamente stratosferica. E anche il seguito di Non aprire quella porta con un demenziale (in senso positivo) Dennis Hopper è un film tutt’altro che brutto: solo, probabilmente, non era il film che il pubblico si aspettava perché era molto diverso dall’originale, per atmosfera e per passo. Ma fare cose diverse da quelle che tutti si aspettano dovrebbe essere un pregio, non un difetto. Su Invaders, invece, stenderei il classico velo pietoso, ma dovrei dargli un’altra chance (in effetti gliel’ho data: pur avendo detestato il film, ho comperato il dvd nell’agosto 2008, ma devo ancora rivederlo).

Da lì in poi, la carriera di Hooper prende uno scivolo verso il basso che ha pochi sussulti. Non mancano momenti felici in alcuni film nel complesso infelici, non mancano nemmeno film gradevoli (ma non all’altezza della sua fama) e non mancano, naturalmente, film che qualcuno ha ritenuto grandi. Io trovo poco da salvare, per esempio, in Vestito che uccide (salvo una sempre bellissima Madchen Amick), ne I figli del fuoco o in The Mangler - La macchina infernale, tanto per citarne qualcuno. O ne Le notti proibite del Marchese De Sade, trionfo del vorrei (essere malsano) ma non posso. Qualcosa di meglio si è visto ne La casa dei massacri, buon remake di un cult dello sleaze o ne Il custode, ma siamo chiaramente in un piccolo cabotaggio alimentare, ben lontano dai fasti di quello che avrebbe potuto essere. Anche i suoi Masters of Horror sono prodotti medi, ben fatti, ma senza un’ispirazione particolare, come se a un certo punto, deposti i sogni di gloria, Hooper avesse cercato di essere (solo) un buon professionista. Niente di male, peraltro.

Come che sia - e senza la pretesa di riassumere una comunque lunga e variegata carriera in poche parole (in ogni caso non ho ancora visto Djinn, il suo ultimo film, e cercherò senz’altro di rimediare: recensioni più approfondite dei film di Hooper le trovate nel mio Dizionario dei film horror) - Hooper per quello che ha fatto ha tutto il diritto di restare negli annali dell’horror come un maestro, un innovatore, un vero autore come pochi altri. Che tutt’oggi continuino a prodursi film della saga che lui ha inventato assieme al suo amico Kim Henkel è un tributo alla grandezza della sua opera. La mia sola speranza è che ne detenesse ancora in qualche misura i diritti.



A chi vuole approfondire la conoscenza con l'opera di Hooper ricordo il libro che gli ha dedicato Fabio Zanello, Il cinema di Tobe Hooper (Falsopiano): è un po' datato (2001), ma l'Hooper migliore c'è già quasi tutto.

mercoledì 26 giugno 2013

Richard Matheson (20 febbraio 1926 – 23 giugno 2013)

Assieme a Kurt Vonnegut, ma certamente per altri versi, è stato lo scrittore che più mi ha influenzato. Era confortante sapere che era ancora vivo e attivo. Adesso che è morto resta il conforto di sapere che ha avuto una vita lunga, produttiva e ricca di successi. Maestro della paranoia e degli incubi quotidiani, ha spaziato per i generi e per i mezzi espressivi diventando anche uno dei più grandi sceneggiatori cinematografici (il ciclo da Poe di Corman resta forse il suo esercizio più famoso; il film Night Creatures da Io sono leggenda per la Hammer, non realizzato per il divieto della censura inglese, forse il rimpianto più forte).

La sua influenza ha colpito tutti o quasi quelli che si sono occupati di horror a livello di scrittura o, conseguentemente, di cinema. King lo considerava uno dei suoi maestri. Spielberg, ho letto, ha detto che era un grande, della stessa categoria di Bradbury e Asimov. Capisco il senso della sua dichiarazione, ma disapprovo in parte: Matheson era più grande di entrambi. George A. Romero ha confessato anche a Matheson in persona d'aver preso spunto da Io sono leggenda per La notte dei morti viventi. La cosa divertente è che Matheson gli chiese se ci avesse guadagnato e quando Romero gli rispose che il film non gli aveva reso niente, Matheson gli disse, più o meno, che allora non c'erano problemi.

Qualcuno gli aveva rimproverato certe scivolate mistiche e sentimentali nella sua tarda e semi-tarda produzione, ma chi non diventa più soft con l'andare degli anni? Quello che Matheson ha fatto è così tanto che ogni eventuale piccolo o grande difetto era (ed è) perdonato in automatico e in ogni caso l'aver cercato strade nuove e diverse era la testimonianza di un autore ancora vivo e cangiante.

Teorizzatore - nella pratica, se così si può dire - dell’importanza della storia sui personaggi e sull’ambientazione, rendeva questi e quella solo nella misura in cui erano funzionali alla storia, alla narrazione. I suoi protagonisti erano degli everyman, eravamo noi ed erano lui, immersi nelle profondità oscure e ineluttabili della vita a fronteggiare un imponderabile indissolubilmente radicato nella realtà, una realtà trasfigurata ma non per questo meno reale. Per la sua biografia, andate a leggere i vari necrologi di questi giorni. Ma soprattutto andate a leggere i suoi libri, se non li avete ancora letti, e rileggeteli se l’avete già fatto: grazie a Fanucci molti di loro sono ancora in stampa. Quelli che mancano li potete trovare su qualche bancarella nelle vecchie edizioni o direttamente in inglese (qualcuno non è stato edito, a quanto mi risulta, tipo Now You See It...: non eccezionale, ma interessante). Gli imprescindibili, a mio avviso, sono Io sono leggenda, Tre millimetri al giorno, Io sono Helen Driscoll. E non trascurate i racconti: era un maestro delle short stories (alcune di queste hanno fatto la storia della televisione nella serie Ai confini della realtà).

giovedì 22 marzo 2012

Robert Fuest (1927-21 marzo 2012)


Regista molto singolare, Robert Fuest, capace di innovare come pochi altri, ma in direzioni che quasi nessuno avrebbe poi preso. Mi era piaciuto molto da subito, quando era comparso sulla scena cinematografica (in Italia: il suo esordio dal titolo dylaniano, Just Like A Woman, mai arrivato da noi non l’ho purtroppo visto) con il mirabile horror Il mostro della strada di campagna, con una bravissima Pamela Franklin. Quello sì, a ripensarci, un film che è stato poi parecchio imitato e ha avuto recentemente anche un remake. Ma la più evidente singolarità Fuest l’aveva messa in mostra con il suo dittico sul dottor Phibes (L’abominevole Dr. Phibes e Frustrazione), connubio amabilmente crudele di orrore e commedia con vette di elegante stravaganza che lasciavano trasparire pienamente il suo spirito artistico. Mi era piaciuto molto anche Alpha Omega - Il principio della fine. Lo vidi per la seconda volta nel '79 a Londra proprio nel periodo in cui leggevo la tetralogia che Michael Moorcock aveva dedicato a Jerry Cornelius, un singolare personaggio-non-personaggio che aveva creato e messo a disposizione (Moebius, un altro grande che ci ha lasciato da poco, se ne sarebbe poi quasi impossessato). Il film di Fuest è tratto dal primo di quei romanzi e ne cattura lo spirito aggiungendo un ordinato delirio immaginifico che non soffre dei pochi mezzi a disposizione. Quello è stato forse l’ultimo film veramente innovativo di Fuest, la cui carriera avrebbe poi perso via via quell’intensità creativa, per motivi del tutto indipendenti da lui. Mi era comunque sembrato un regista così interessante che gli avevo dedicato - forse per la prima volta in Italia (o forse no, non sono così enciclopedico da saperlo) - un lungo articolo riepilogativo intitolato L’abominevole Dr. Fuest e pubblicato sul n. 3 di Aliens (gennaio 1980). Vecchi tempi e vecchie storie. Con Fuest se ne va uno degli ultimi pezzi di un particolarissimo (modo di fare) cinema.

Ho appena letto sul sito di Nocturno un bel ricordo di Fuest scritto da Mario Gerosa: questo è il link, vi consiglio di andare a leggerlo. Gerosa ha anche scritto un libro su Fuest: Robert Fuest e l’abominevole dottor Phibes (Falsopiano).