Tra pochi giorni uscirà il nuovo disco di Bob Dylan. Si tratta di Triplicate, un altro disco di covers dopo quelli già usciti negli anni scorsi, Shadows in the Night e Fallen Angels. È un disco triplo che quindi sembra una sorta di sfida a chi, magari sottovoce, aveva cominciato a dire che due dischi di cover potevano essere abbastanza. Ma naturalmente Dylan non lancerebbe mai sfide del genere: in realtà, sta semplicemente continuando a fare quello che ha sempre fatto, ciò che vuole.
Peraltro, Dylan ha spesso fatto cover: già il suo primo disco ne aveva parecchie. Poi nel corso degli anni, in maggiore o minore misura, ne ha continuate a fare con punte quantitative in dischi come Self Portrait o Down in the Groove. Per non parlare del dittico acustico dei primi anni ‘90, interamente composto di versioni di canzoni altrui, tradizionali e no. E anche dal vivo, soprattutto con l’inizio del Never Ending Tour (o comunque lo si sia voluto chiamare nel corso dei decenni) nel 1988, le cover non sono mancate.
Quindi, niente di strano. Apparentemente. In realtà qualcosa di strano c’è. Un aspetto ricorrente delle cover dylaniane dall’inizio sino quasi ai nostri giorni è che le canzoni venivano del tutto dylanizzate, non erano per niente simili ai pezzi originali e spesso potevano invece sembrare canzoni di Dylan. Dylan, infatti, le faceva proprie con la sua interpretazione, diventavano cosa sua. Gli esempi sono molteplici. Uno dei più eclatanti è la gershwiniana Soon, fatta in solitario con chitarra e armonica durante un concerto in onore di Gershwin nel 1987 (la ripresa televisiva dell’avvenimento è facile trovarla su youtube): da ascoltare per credere. Un altro esempio potrebbe essere The Lady Came from Baltimore scritta da Ty Hardin, ma ce ne sono davvero tanti.
Tra questi mi preme segnalare Golden Vanity. Si tratta di una canzone tradizionale di qualche secolo fa e ne esiste una miriade di versioni. Saltabeccando su youtube ne troverete a vagoni, ce n’è una di Pete Seeger, ma ce ne sono anche di gruppi moderni. Chi la fa vivace, chi la fa lenta, chi la fa ipermelodica. Poi c’è la versione di Bob Dylan. Dylan l’ha eseguita in concerto sette volte, ma la versione che si sente più facilmente è anche la migliore, quella eseguita a Waikiki nelle Hawaii il 24 aprile 1992 (annata di particolare interesse, molto hit or miss, per la parte acustica dei concerti dylaniani). Su youtube la trovate facilmente. Ascoltatela, magari dopo o prima d’aver ascoltato qualcuna delle altre versioni. Non era un periodo facile per Dylan, quello. Il pubblico gli chiedeva le sue canzoni famose, quelle di protesta. E Dylan rispose, acuto e caustico: “This one’s got all that stuff in it. You’ll see. It’s got all that and more”. Poi attacca la canzone e dimostra che quello che aveva detto era vero, non solo e non tanto per la canzone, quanto per l’interpretazione. Struggente, tragica, esemplificativa della cattiveria e dell’ingiustizia umane, capace di rendere il senso assolutamente individuale del riscatto, è una canzone che contiene davvero molto. L’interpretazione di Dylan è straziata, pienamente “dentro” ogni singola parola, anche di quelle parole che gli mancano, che si mastica e dimentica, anche con ciò dando il senso della disperazione e della mancanza di riconoscenza e gratitudine.
Oggi, invece, Dylan in queste sue nuove cover cerca di entrare nello spirito delle vecchie canzoni che interpreta, dei tempi che le hanno espresse. Un approccio completamente diverse. Invece di dylanizzare le canzoni, forse il contrario. Forse. Perché forse ci vorrà del tempo anche per capire questo.
lunedì 27 marzo 2017
Bob Dylan, le cover e Golden Vanity
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