venerdì 19 aprile 2024

Omicidio al cimitero


Omicidio al cimitero
è il nuovo film di Stefano Simone. Come il precedente Il fantasma di Alessandro Appiani, si tratta di un giallo dai toni leggeri, improntati alla juvenile detection, con un mistero iniziale e il tortuoso procedimento deduttivo per arrivare alla sua soluzione.
Il giovane Christian (Giovanni Casalino), in visita all’isolato cimitero di un paesino pugliese, scopre nella cappella il cadavere di Ivan (Filippo Totaro), il custode. Dà subito l’allarme alle altre persone presenti, in tutto cinque: i fratelli Gabriel (Matteo Mangiacotti) e Nora (Rosella Castigliego), la ribelle Mia (Giada Latronica), il pavido Alan (Bruno Simone) e l’altezzosa Victoria (Luigia Riccardi). I telefonini non prendono, le auto con cui alcuni di loro sono arrivati al cimitero sono in panne perché qualcuno ha misteriosamente perforato i serbatoi, per cui non è possibile avvisare la polizia e non resta quindi che attendere l’arrivo del pullman per tornare in paese. Pullman che però è atteso solo dopo un’ora. Perciò, con il dubbio che l’assassino sia ancora nei pressi e che magari possa essere uno di loro, i giovani iniziano a indagare, prendendo spunto da quanto riescono a ricavare dal cellulare della vittima, che esaminano con cura.
Scritto da Roberto Lanzone, il film risente di un’impostazione un po’ teatrale, racchiusa in un unico spazio, con i dialoghi a definire non solo il procedere della storia, ma anche le caratterizzazioni dei personaggi, che si precisano un po’ alla volta, ma restano un po’ schematiche. La situazione di base è un po’ improbabile - con i protagonisti che non si preoccupano più di tanto di alterare la scena del crimine e di impossessarsi del telefonino del morto - e gli sviluppi, benché non manchi una certa arguzia nel dipanare la matassa delle indagini, si susseguono in modo piuttosto piatto, senza suscitare particolare tensione, ma insistendo soprattutto sul gioco deduttivo, con tanto di classici spiegoni davanti ai possibili colpevoli riuniti nel medesimo luogo, come nei classici del giallo di una volta. Rispetto a Il fantasma di Alessandro Appiani, manca un po’ di verve e di varietà nella messa in scena. Così il film procede senza scossoni sino alla conclusione come in un classico whodunit in cui tutto è incentrato sulla scoperta dell’omicida, sulla soluzione dell’enigma. Quando arriva, questa soluzione è apprezzabile e anche ben motivata, ma il viaggio per arrivarci non è stato particolarmente avvincente.
Il cast è volenteroso. Il più professionale è Filippo Totaro, incisivo nel ritratto del custode. Sempre appropriate e capaci di dare la giusta atmosfera le musiche di Luca Auriemma.

giovedì 18 aprile 2024

Rorret




Rorret
(noto anche come Mr. Rorret - Ad altezza d’uomo) è un film del 1988, lungometraggio d’esordio di Fulvio Wetzl, un regista dalla carriera molto varia e interessante, che si sarebbe poi dipanata in direzioni assai diverse. Si tratta di un film curioso e particolare, degno certamente di una riscoperta. Ripropongo quindi qui, opportunamente aggiornata e ampliata in seguito a una nuova visione del film, la recensione che avevo scritto parecchi anni fa per il mio Dizionario dei film horror.
Carlo Modena (Massimo Venturiello) risponde a un annuncio per un proiezionista alla nuova sala cinematografica Peeping Tom. Joseph Rorret (Lou Castel), proprietario del cinema, lo assume perché è stato l’unico tra gli aspiranti a restare nonostante lui non si fosse fatto vivo all’appuntamento e a entrare nella sala cinematografica vuota. Carlo accetta l’incarico, ma è perplesso: Rorret si comporta infatti in modo molto strano e tutta la trattativa viene svolta per telefono, dato che il misterioso datore di lavoro non vuole farsi vedere. Il cinema è specializzato in film dell’orrore e Rorret, non visto, spia le reazioni del pubblico in sala durante le scene più violente. Ma non si limita a questo: individuata in platea una donna attraente che litiga con il partner, la segue sino a casa per vedere dove abita. Poi le telefona di notte, corteggiandola. Sheila (Rossana Coggiola), la donna, dapprima è impaurita, poi ammaliata e accetta di incontrarlo. Ma Rorret, che le ha dato un nome falso, ha strane idee e non esita a metterle in pratica.
Interessante e originale riflessione sul rapporto tra l’orrore dei film e quello della realtà, presenta un personaggio centrale ambiguo e insolito che, grazie anche all’interpretazione quietamente minacciosa e carismatica  di Lou Castel, emerge con forza. Il contesto estetizzante e ricercato in cui il personaggio si muove raggela il dramma, evidenziandone nel contempo il contenuto “filosofico”. Il risultato è interessante anche se non del tutto riuscito. Il film infatti non evita una certa ripetitività delle situazioni e le motivazioni dei personaggi secondari sono talvolta poco coerenti e credibili: le donne che Rorret, non certo un affascinante conquistatore, avvicina gli aprono subito le braccia; Sara, la fidanzata di Carlo, invece diffida di Rorret oltre misura anche se questi, tutto sommato, per quanto la riguarda, s’è solo limitato a non farsi vedere. E certe figure di contorno sono macchiette poco riuscite (la mamma di Sheila, per esempio, rappresenta una digressione superflua). C’è in sostanza uno scarto qualitativo tra le scene in cui compare Rorret e quelle in cui è invece assente, che risultano talvolta un po’ banali. Ma quando Rorret è in scena - e lo è molto spesso - c’è sempre una sottile tensione che anima la vicenda e la rende genuinamente  inquietante, profonda e anche capace di affrontare in modo per nulla banale il significato della paura, una paura che respinge e al tempo stesso affascina e quindi attrae. L’iniziale viaggio sulle montagne russe è un significativo tour de force nella psicologia del protagonista che dice molto con pochissime parole. “La paura è stata bellissima. Mano a mano è cresciuta, è esplosa e si è fatta terrore” commenta quasi sorpreso di se stesso Rorret al termine del viaggio ed è quasi inutile sottolineare come di fatto molto horror sia in sostanza un vero e proprio viaggio nelle montagne russe della paura. Curiosi e riusciti anche filologicamente i film nel film, proiettati al Peeping Tom (richiamo al titolo originale de L’occhio che uccide di Michael Powell), tra cui Blood in the Shower, suggestiva rielaborazione di Psyco, e una versione proprio de L’occhio che uccide, ma non mancano riusciti richiami anche ad altri classici come Suspense (la versione di Jack Clayton dal Giro di vite di Henry James). Il gioco cinefilo che ne consegue non è per nulla fine a se stesso, ma è anzi funzionale alla storia e alla riflessione che induce. Nel finale questo gioco di specchi si fa ancora più complesso in un insieme di rimandi e citazioni sofisticato e forse un po’ troppo cerebrale. Se Lou Castel, in un ritratto da perfetto weirdo, domina incontrastato, nel cast si vedono con piacere il sempre bravo Massimo Venturiello e Anna Galiena. Notevole anche l’intensa prova di Patrizia Punzo in un ruolo cruciale. In un piccolo ruolo anche Sebastiano Somma, all’epoca divo dei fotoromanzi alle soglie di una lunga carriera tra cinema e televisione.
 

martedì 16 aprile 2024

Funérailles


Antonio Bido è un regista dalla filmografia non molto nutrita di titoli, ma molto interessante per la varietà e l’eccentricità. Nella mente dell’amante del cinema di genere rimane soprattutto impresso il dittico di thriller della seconda metà degli anni ’70 (Il gatto dagli occhi di giada e Solamente nero) che sembrava preludere a sviluppi sul medesimo solco che invece non ci sono stati, disattesi proprio dall’eccentricità del percorso autoriale di Bido, che ha preso direzioni diverse. Adesso, dopo un leggero iato di circa 45 anni, il regista padovano torna con Funérailles a occupare quel medesimo territorio narrativo, ma lo fa in modo molto diverso, cercando soprattutto di affrontare una particolare e interessante tematica cui il genere è solo strumentale. Già Solamente nero era molto più personale e autoriale nell’affrontare il “giallo” de Il gatto dagli di giada facendo capire come Bido intendesse arricchire le meccaniche del genere con umori più profondi ed esistenzialisti, se così si può dire. Funérailles rappresenta, in questo senso, dopo così tanti anni, un’ulteriore evoluzione. La storia è molto semplice, ma, come sempre, a contare sono soprattutto i dettagli e il modo di raccontarla.
Miriam Grieco (Alessandra Chieli) è un’affermata pianista che vive con difficoltà la sua storia d’amore con Andrea (Fausto Morciano), anche lui pianista, ma di categoria chiaramente inferiore. Miriam cerca di elevarlo al suo livello facendolo suonare con lei. Andrea, invece, sembra puntare soprattutto ad avere un bambino, trovando la ferma opposizione di Miriam, che assolutamente non vuole concepire un figlio. Il motivo è che preferisce seguire la sua carriera e fare quello che le piace, suonare. C’è però qualcosa di più, un trauma evidentemente non superato che proviene dal suo passato. Andrea non si rassegna e il conflitto si acuisce sempre di più sino a conseguenze drammatiche.
La ricercatezza traspare sin dal titolo che sembra fatto per lasciar subito intuire che si tratta di un film particolare, non il thriller a tutto tondo che qualcuno si sarebbe potuto aspettare dall’autore de Il gatto dagli occhi di giada. Il film infatti sfida ogni classificazione. Tracce di thriller e persino anche di horror si trovano di certo, forse più nell’estetica di certi momenti, nelle scelte espressive riguardo alla raffigurazione del dramma interiore, ma complessivamente il film è più rivolto agli aspetti psicologici della vicenda, allo sfaccettato personaggio principale e alla profonda ingiustizia che deve vivere per l’impossibilità di affermare in maniera indipendente la propria volontà e la propria scelta. È quindi soprattutto un film di introspezione che si propone di indagare nell’animo umano, scandagliando le ragioni che lo muovono o lo bloccano, nella ricerca della realizzazione e dell’appagamento, della felicità, per quanto ciò sia possibile.
Scegliere lavoro, passione e anche, sì, successo in luogo della maternità - con il conseguente tragico dilemma che sembra sempre porre come presupposto un necessario abbandono di quanto caratterizza la propria personalità, con una cosa che sembra dover escludere le altre - rappresenta il fulcro del dramma, un fardello classico, magari, per la donna, ma di certo problematico. Tutto questo dal film emerge con forza e naturalezza, pur restando in un contesto di suspense psicologica ben assicurato dalle immagini e dai risvolti anche torbidi della trama.
Strutturato abilmente in un intersecarsi tra presente e passato (in flashback raffigurati in un significativo bianco e nero), il film ci racconta come Miriam cerchi la propria strada con determinazione, ma sia condotta dall’altrui ostinazione a vivere la possibile maternità come un vero e proprio incubo nel quale si innestano gli incubi pregressi che le derivano da un fosco passato di sopraffazione dal quale non riesce a liberarsi. E non ci riesce anche perché la sopraffazione e la violenza di genere ritornano puntuali a esigere il loro prezzo anche nella sua vita di artista affermata e apparentemente al sicuro nella sua posizione privilegiata.
In questo senso è cruciale anche il personaggio del protagonista maschile, tratteggiato in modo più schematico e meno approfondito, ma comunque interessante. Vengono evidenziate la sua debolezza caratteriale e la sua mediocrità come artista, ma anche la sua ambizione, il suo desiderio di riaffermare in qualche modo la supremazia nel gioco di coppia e, soprattutto, la sua ferma determinazione a ottenere quello che vuole. E, come la quotidianità della cronaca ci insegna spesso, quando questo qualcosa gli viene negato, una certa figura di maschio ha solo un modo per ottenerlo, la violenza, e non rinuncia a impiegarlo.
Se quindi il tormentato protagonista è caratterizzato dalle sue debolezze, la figura della protagonista femminile emerge con maggiore evidenza perché la sua sofferenza deriva proprio dalla sua forza, dalla sua bravura, che lei non vuole mettere in secondo piano, ma che i dettami sociali la spingerebbero a dover trascurare.
Notevole è il grado di introspezione che rende più vero il personaggio di Miriam, anche per l’intensa prova interpretativa di Alessandra Chieli che dà credibilità al dramma dell’artista che teme di essere privata della sua ragione di vita per la costrizione a generare una vita: in questo senso, "dare la vita" è un’espressione che ben si attaglia alla situazione.
Largo spazio è dato alle visioni e agli incubi che nel trasmetterci la sensazione del tormento vissuto dalla protagonista consentono a Bido di fare sfoggio di una non comune capacità di evocare immagini quietamente spettrali di notevole forza espressiva. Il viaggio che la donna compie così all’interno di sé, nel suo passato, nei suoi tormenti, nei suoi desideri è tracciato mirabilmente senza molte parole, lasciando appropriato spazio alla forza delle immagini. La potenza evocativa di certe visioni, come quella ricorrente della giovane con la carrozzina, di stampo quasi baviano, è notevole e mostra la sapienza compositiva e la capacità di raccontare per immagini che caratterizza il film.
La violenza e le sopraffazioni gettano la loro ombra prominente sul mondo femminile. A tale proposito è anche interessante la figura della mamma, resa con simpatica e dirompente personalità dalla sempre brava Stefania Casini (che torna così a collaborare con Bido a molti anni di distanza da Solamente nero), che rappresenta il lato pienamente integrato della femminilità, condiscendente ai dettami sociali in contrapposizione a quello rappresentato da Miriam, che vorrebbe solo poter scegliere quale direzione dare alla propria vita. Poter scegliere, quindi, per molti motivi, di rifiutare la maternità anche se questo significa rifiutare il ruolo che la società vorrebbe riservare alla donna.
La raffinatezza della messa in scena è ragguardevole non solo nella composizione delle scene e nei movimenti di macchina, ma anche nella fluidità delle transizioni e nella precisione del montaggio (dello stesso Bido in collaborazione con il coproduttore Gianni Del Popolo), mostrando come Bido abbia mantenuto e anzi affinato ulteriormente le qualità che lo avevano segnalato come regista di vaglia per tutta la sua carriera. Gli effetti speciali di un guru della materia come il veterano Sergio Stivaletti sono utilizzati con gusto e parsimonia, con notevole efficacia.

In conclusione, un film da vedere, anche per salutare il ritorno al cinema di un autore importante.




giovedì 4 aprile 2024

Omen - L'origine del presagio


Oggi è uscito al cinema Omen - L'origine del presagio, un nuovo horror diretto da Arkasha Stevenson che si inserisce nelaa serie iniziata con l'ormai classico Il presagio, di cui costituisce di fatto un prequel. 

Chi è interessato può leggere la recensione che ho scritto per MYmovies cliccando qui e venendo con ciò catapultato in quel sito.

Qui sopra un'immagine della protagonista, Nell Tiger Free.

venerdì 15 marzo 2024

Imaginary


Dopo quello di Benny Loves You, un altro orsacchiotto di peluche torna a popolare un film horror, nello specifico Imaginary, targato Blumhouse e uscito ieri al cinema. Chi è interessato può leggere qui, su MYmovies, la recensione che ho scritto per l'occasione.

giovedì 22 febbraio 2024

Night Swim


Oggi esce al cinema un nuovo horror, Night Swim, che come talvolta accade origina da un omonimo cortometraggio.

Chi vuole può leggere la mia recensione andando sul sito di MYmovies.

martedì 6 febbraio 2024

Paperino, Paperoga e la notte dei cavalli a dondolo


Sul n. 3559 di Topolino, in edicola da domani, è pubblicata una mia nuova storia che si intitola, nientemeno, Paperino, Paperoga e la notte dei cavalli a dondolo. La storia consta di 16 pagine ed è quindi classificabile come mediometraggio, sussumendo un termine cinematografico: è cioè corta, ma non troppo. Paperino e Paperoga vi operano in sinergia, come mi piace che sia ultimamente. Paperoga resta così "lui", ma non combina necessariamente disastri epocali, pur comportandosi sempre in modo molto particolare e assumendo, con il suo pervicace dinamismo, con naturalezza un ruolo guida. L'argomento cinematografico, come sa chi è uso leggere le mie storie, mi è particolarmente caro e anche questa volta l'ho usato con piacere. I disegni, molto espressivi, sono dell'ottimo Lucio Leoni, mentre la colorazione, molto appropriata, è di Ilaria Castagna.

Come sempre, spero che possa essere divertente.

mercoledì 17 gennaio 2024

Dreams of Flesh

 


Il dottor Lovo (Ivan Brusa) è a capo di un’azienda di ricerca sanitaria, la Neovita, e di un’omonima clinica nella quale compie innovativi esperimenti curativi, all’interno di un progetto segreto che unisce medicina e tecnologia con risultati sorprendenti. La cura sperimentale consiste nella stimolazione delle cellule cerebrali in modo che i pazienti possano affrontare il loro trauma e, possibilmente, sconfiggerlo o superarlo. I casi che vediamo esplicitati riguardano: una donna traumatizzata dal non poter avere figli dopo averne perso uno, mentre era incinta all’ottavo mese, a causa di un incidente; un uomo che per un trauma psicologico ha un deficit erettile cronico; due gemelli siamesi che devono valutare se affrontare la pericolosa operazione di separazione, vivendo una simulazione virtuale della vita da separati. Ma il dottore - che vive un momento di crisi coniugale con la moglie che gli rimprovera di pensare solo al lavoro - compie parallelamente anche su di sé un esperimento molto pericoloso, i cui effetti collaterali non tardano a manifestarsi.
Tra Cronenberg e Stuart Gordon, Davide Pesca prosegue il suo personale percorso nell’ambito di un horror filosofico-psichedelico molto ancorato alle metamorfosi della carne, alle trasformazioni indotte da una ricerca scientifica che non si pone limiti etici e cerca di andare sino in fondo al buio della coscienza. Il film è strutturato in modo sostanzialmente episodico: le tre situazioni dei pazienti più l’esperimento che il dottore compie su di sé. Con questo tipo di struttura, nonostante Pesca (anche sceneggiatore e autore degli effetti speciali di make-up) cerchi di differenziare le circostanze, non mancano ridondanze e ripetizioni, almeno a livello concettuale. Mentre i dialoghi sono frequenti - e talora un po’ banali - nella sezione che riguarda la vita coniugale del protagonista, gli episodi che raccontano le fantascientifiche cure nella clinica sono caratterizzati da una narrazione eminentemente affidata alle immagini, con il regista che dà sfogo al suo immaginario ricco di gore allucinatorio, realizzato attraverso effetti speciali piuttosto semplici, ma di una certa efficacia, realizzati con evidente passione. Finale apprezzabilmente concitato e delirante. Ivan Brusa si conferma attore duttile e affidabile, nel ruolo del mad doctor. Suggestive le musiche, firmate Oky.

lunedì 15 gennaio 2024

Dolceamaro


Dolceamaro
è il cortometraggio di esordio della giovane e promettente regista Sara Strafile. Il film si concentra su una situazione che funge da pretesto per sviluppare un dialogo, un confronto, alla ricerca di una possibile soluzione a un malessere esistenziale. Una giovane donna è stata improvvisamente abbandonata dal suo fidanzato e cerca di capirne la ragione, oppressa da uno strisciante senso di colpa. Ne parla con la barista, che poco può fare più di esprimere una bonaria solidarietà. Ne parla però soprattutto con un’altra persona, seduta a un tavolino, cercando di approfondire le cose e le ragioni della fine del rapporto, sino a una conclusione forse non del tutto inaspettata, ma sicuramente efficace e significativa.
Mantenuto saggiamente nei limiti di una concisione che non toglie nulla allo sviluppo del racconto, ma gli evita ridondanze e ripetizioni, il film scorre con buon ritmo e mostra buone qualità di regia sia nella gestione della vicenda sia nella direzione degli attori. L’ambientazione nel bar permette di mantenere la giusta intimità al confronto di idee, sino all’apertura all’esterno dove la storia acquista respiro e un’atmosfera quasi metafisica. Da segnalare le musiche di Luca Auriemma, molto appropriate e capaci di creare un’atmosfera sospesa e suggestiva. Il montaggio, sobrio ed efficiente, è di Stefano Simone, regista che chi segue questo blog ben conosce. Tra gli interpreti si possono segnalare i protagonisti Maria Riccardi e Giovanni Casalino, anche autore della sceneggiatura assieme a Roberto Lanzone.


Gotico padano


Prossimamente esce Gotico padano di Roberto Leggio e Gabriele Grotto, un viaggio nel mito de La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati, sulle tracce del leggendario Buono Legnani, il pittore delle agonie.

Chi è interessato a sapere che cosa ne penso può andare qui, su MYmovies, e leggere la recensione che ho scritto.

mercoledì 10 gennaio 2024

The Piper


Prossimamente al cinema esce un nuovo horror, The Piper, diretto dall'islandese Erlingur Thoroddsen. Il film fonde orrore e musica prendendo spunto dalla fiaba del pifferaio di Hmelin. 

Chi è interessato può leggere su MyMovies la mia recensione.

martedì 9 gennaio 2024

Pippo e l'incomprensibile insonnia

 


Nel n. 3555 di Topolino in edicola da domani c'è una mia nuova microstoria di 6 paginette, Pippo e l'incomprensibile insonnia. Protagonista è l'impagabile trio composto da Pippo, Topolino e Orazio. Al centro di tutto naturalmente c'è Pippo con il suo comportamento asssolutamente singolare che si riverbera in modo inesorabile sugli altri due. Spero che la storia possa risultare divertente e non annoiare (magari la durata ridotta può aiutare a questo riguardo). Ai disegni il sempre bravo Ottavio Panaro, mentre i colori, ottimamente calibrati sono di Ilaria Castagna.