lunedì 16 gennaio 2012

Bob Dylan: Blind Willie McTell per Martin Scorsese



Nel corso dei decenni, le partecipazioni televisive di Bob Dylan sono sempre state in bilico tra il memorabile e il fallimentare, con larga prevalenza della prima tipologia sulla seconda, ma con altrettanto larga controversia sull’annessione delle singole fattispecie a ciascuna categoria, in larga parte in dipendenza della sensibilità, chiamiamola così, dello spettatore. Ne ho scritto diffusamente ne Il cinema di Bob Dylan e ne scrivo volentieri ancora.

Oggi infatti le cose sono abbastanza (ma non del tutto) cambiate e le apparizioni televisive, rare come al solito ma non rarissime, di Dylan sono caratterizzate da riuscite pressoché universali, anche se non sempre la riuscita è colta da tutti. Infatti, ogni volta Dylan si presenta come una sorta di Ufo calato da un altra dimensione rispetto a ciò che si vede - di musicale, in particolare, ma non solo - sul piccolo schermo e ogni volta riafferma, con la sola presenza, la sua carismatica diversità. Ed essendo diverso può provocare ammirazione oppure sconcerto.

Questo è puntualmente avvenuto qualche giorno fa nella serata in onore di Martin Scorsese (Martin Scorsese Critics’ Choice tribute), nella quale Dylan è intervenuto eseguendo Blind Willie McTell, uno dei suoi capolavori. Tanto grande da essere stato lasciato fuori dall’album Infidels (1983) per il quale era stato registrato e da essere pubblicato solo anni dopo in The Bootleg Series (1991), peraltro in una versione acustica (pur ottima) inferiore a quella elettrica, stratosferica e ancora inedita.

Bob Dylan si è esibito con la sua solita band - diversamente da quanto fatto in altre recenti circostanze televisive (alla Casa Bianca - ne ho parlato qui - e nel documentario The People Speak su History Channel, con una toccante versione di Do Re Mi di Woody Guthrie) - e senza cappello, rispettando in questo caso la sua consuetudine televisiva. Ha interpretato Blind Willie McTell in una versione più light e ritmata, meno straziante e blues, ma comunque potente ed evocativa - con tre assoli di armonica suggestivi e magistrali - ben allineata alla forza di un testo che ripercorre momenti topici della storia americana per trarne una verità incontrovertibile. Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell. Sofferenza e dolore generano la capacità di comprendere la realtà e di trasfigurarla in arte, magari senza saperlo o senza elucubrarci sopra. Come Blind Willie McTell. Ma se quella è la verità evidente, altre sono più elusive, in un gioco di rimandi e stimoli che è tipico delle grandi canzoni di Dylan. Confidente e disinvolto come negli ultimi tempi in concerto, meno tetragono e più aperto, Dylan sembra aver raggiunto invece la piena consapevolezza di sé e delle sue capacità. La voce roca e spezzata del Dylan attuale è perfetta per una canzone che parla di soprusi e di violenza, ma è stato davvero curioso vedere il contrasto tra le parole della canzone (e il loro significato) e il contesto rutilante di divi dello spettacolo che, eleganti, ascoltavano e parlottavano tra loro. Di Caprio - maestro di cerimonia - ha chiesto poi la standing ovation, che è avvenuta di riflesso, ma non saprei dire quanto spontaneamente. L’Ufo era atterrato e come Michael Rennie aveva portato notizie sulla realtà che il mondo dorato non sempre riesce a cogliere nella sua vera essenza limitandosi spesso a proporne dei - come dicono i giornalisti sportivi televisivi - riflessi filmati. Martin Scorsese però sembrava realmente colpito e ammirato. Del resto, dall’Ultimo valzer a No Direction Home, ha avuto modo di capire cosa può aspettarsi da Dylan.

I Love You Like a Twist


Il panorama del cinema indipendente, spesso caratterizzato da low e no-budget e molto entusiasmo, propone più di qualche volta incursioni nel campo dell’horror, probabilmente non a caso uno dei generi più frequentati dai giovani registi. Talvolta, seguendo la spinta alla contaminazione dei generi che accompagna la sperimentazione e la voglia di affastellare tutte o quasi le proprie ispirazioni, l’horror non è il genere di assoluto riferimento, ma è un ingrediente forte di un cocktail che contiene anche altro. Di Lorenzo Lepori avevo visto Il vangelo secondo Taddeo, un horror esuberante e scombinato che inseriva elementi da pulp tarantiniano in un contesto orrorifico a suo modo tradizionale (come, del resto, si sa, aveva fatto lo stesso Tarantino sceneggiatore di Dal tramonto all’alba).

I Love You Like a Twist, il nuovo film di Lepori, segue in parte la stessa strada ma segna un deciso passo in avanti rispetto a Taddeo, facendo piazza (quasi) pulita delle imprecisioni e degli errori di inesperienza del film precedente. Anche in questo caso, gli elementi narrativi sono una sorta di noir da periferia degradata e un horror ancor più tradizionale. Solo che stavolta, la prevalenza è nella crime story e l’horror fa da contorno.

Dino Strano (Pio Bisanti) fa il killer, dopo essere evaso dal carcere dov’era rinchiuso. Dopo un’esecuzione di massa in un bar, si porta via nel baule dell’auto una ragazza (Valentina Poddighe) che, nel corso della sparatoria, l’aveva ferito con un colpo di pistola. Senza spiegazioni, consegna la macchina al suo amico Charlie (Stefano Boni) incaricandolo di portarla a un appuntamento dove qualcuno che sa cosa c’è nel baule se lo prenderà in consegna. Charlie - che non sa cosa contiene il bagagliaio - esegue, ma per sicurezza porta con sé due amici sbulinati: uno violento e l’altro strafatto. Il violento è seccato perché la sua ragazza non si fa viva da tre giorni: i tre amici ne approfittano per disquisire sulla natura poco fedele e comprensiva delle donne. Nel frattempo, Dino va a farsi curare da una sorta di cinese. Ma naturalmente ha anche altro in mente. Fatta la consegna, Charlie e i suoi scoprono che il “pacco” è una ragazza e che chi lo riceve è una setta satanica dalle intenzioni programmaticamente poco raccomandabili.

Recentemente ho letto un’intervista a Herschell Gordon Lewis (su Videoscope #73, Winter 2010) nella quale il creatore dello splatter dava tre consigli agli aspiranti registi: 1) tenere l’ego fuori dalla porta; 2) non girare con la macchina a mano; 3) non dare a parenti e amici ruoli da protagonista solo perché sono parenti e amici. Sui consigli 1 e 3 non posso garantire, ma di certo Lepori ha dato in gran parte retta al secondo consiglio - pur senza magari averlo ricevuto - perché le inquadrature e i movimenti di macchina sono spesso sobri e rilassati, soprattutto rispetto al delirium tremens di Taddeo, senza che ne abbia a soffrire la tensione narrativa. Anzi. La scelta del bianco e nero è vincente dal punto di vista figurativo perché dà alla storia il sordido realismo e l’austerità di cui aveva bisogno, smussando le limitazioni scenografiche che il colore avrebbe evidenziato. L’umorismo e l’ironia sono spesso ben giocati e ci sono alcuni momenti da teatro dell’assurdo che si sposano senza fatica con la caratterizzazione fumettistica dei personaggi. I dialoghi sono generalmente simpaticamente tosti e pulp: “Un orgasmo di frattaglie” vagheggia speranzoso uno dei satanisti; “Ti ha reso una schifezza” commenta amaramente l’amico violento vedendo lo strafatto ridotto a scheletro. I momenti di splatter sono molto più ridotti - sempre rispetto a Taddeo, la mia pietra di paragone - e anche questo è un bene, per molti motivi, non ultimo dei quali il fatto che la storia non ne necessitava. C’è un maggiore citazionismo cinefilo, ma anche questo è autoironico: per esempio, all’inizio uno dei gangster trucidato parla con dialoghi formati da titoli di vecchi film. Nei titoli di coda, poi, c’è una lunga elencazione che a vario titolo presenta nomi indicativi delle preferenze e dei riferimenti del regista. Tra i molti: Larry Buchanan (mitico autore di Zontar: The Thing from Venus) e i Blue Oyster Cult, per i quali scrisse alcuni testi Michael Moorcock, il creatore di Jerry Cornelius. Poi altri nomi assortiti dell’exploitation (e non) da Di Leo a John Agar, da Roger Corman al Dizionario Stracult di Marco Giusti. Il film, inoltre, è dedicato alla memoria di Kevin McCarthy, Leslie Nielsen, Bobby Farrel, Juan Piquer Simon e Tura Satana. I titoli di coda sono quindi un momento di affermazione delle proprie radici e debiti culturali.

Non mancano i difetti, com’è forse inevitabile. Certi episodi apertamente parodistici - come quello del cinese - non funzionano del tutto, perché l’iperbole si scontra con l’inadeguatezza e non ne risulta vincitrice, anche se, pure lì, non mancano momenti divertenti. La mescolanza tra noir urbano e horror si compie nella parte finale in modo abbastanza naturale, ma, per quanto lo sbocco non sia forzato, la parte horror risente di qualche goffaggine nella messa in scena che la parte thriller riesce quasi sempre a evitare. Il mostro - figurativamente più suggestivo che efficace, ma non male - è un richiamo agli horror sparagnini del primo Corman e a quelli che li hanno imitati, da The Monster of Piedras Blancas a tanti altri. Il suo ingresso in scena porta il film in un’altra dimensione, ma non in quella migliore. Mostro e satanismo sono la faccia più sbrigativa del film, ancorché non priva di interesse.

Il vero colpo di scena del film è la comparsa nel finale di Gianni Dei, icona di decenni dell’exploitation italiana. Il confronto finale è da melodramma, anzi da feuilleton, ma dà al film una chiusa adeguatamente tragica e un senso compiuto. Sempre nell’ottica di un’ironia che è il tratto caratteristico del film e gli evita la caduta nel trucido.

Stranezze caratteriali e curiosità comportamentali si amalgamano in un insieme il cui collante è la musica - prevalentemente rock, ma non solo - che accompagna quasi incessantemente le immagini non sempre riuscendo a evitare di sovrapporsi in modo preponderante al parlato.

Buono il montaggio, abbastanza stringente, e apprezzabile nel complesso la recitazione che - a parte il veterano Dei - ha punte di buon esito soprattutto nel protagonista Pio Bisanti. Ma tutti gli attori principali si dimostrano adatti al ruolo e piuttosto disinvolti, da Stefano Boni a Roberto Cardelli al trasognato Andrea Di Vita. Anche la regia mostra una crescita e una maggiore maturità rispetto al film precedente, con una buona attenzione compositiva.

La sceneggiatura è di Valentina Vannelli, apprezzabile nei dialoghi e nella scansione dei fatti. Forse una maggiore definizione - a livello del soggetto - della parte horror avrebbe potuto darle più originalità e migliorare la sua fusione con il resto della storia. Curiosamente, per essere un film sceneggiato da una donna, quello del film è un universo totalmente maschile e in parte misogino (anche se probabilmente ciò discende dalla caratterizzazione e dalla tipologia dei personaggi), in cui le donne sono una presenza del tutto marginale e, più o meno, solo come vittime. A parte la “strega”, la satanista - che peraltro è un personaggio del tutto di maniera - mancano figure femminili forti.

Nel complesso, il film è simpatico, si vede volentieri e costituisce un buon auspicio per i prossimi.

venerdì 13 gennaio 2012

Segnocinema 173


È uscito il nuovo numero, quello di gennaio-febbraio, del bimestrale Segnocinema, una rivista che consiglio sempre di leggere al di là (o nonostante) il fatto che mi onori di essere tra i suoi collaboratori. Lo speciale che contraddistingue questo numero - ogni numero di Segnocinema, a parte rubriche, recensioni e servizi diversi, è caratterizzato da un approfondito speciale di argomento cinematografico - si intitola Qui finisce l’avventura (a cura di Roy Menarini) ed è una interessante riflessione su uno dei generi cinematografici (e non solo) un tempo più frequentati e ora sottoposto a mimesi varie per sopravvivere in un’epoca di avventurieri più che di avventurosi.

Di particolare interesse anche l’articolo di Paolo Cherchi Usai su Il lungo addio del 35 millimetri. Se ci pensate tra i cambiamenti epocali questo è uno dei più significativi, per tanti versi, eppure sta avvenendo (è avvenuto) senza che quasi ce ne si sia accorti. O quantomeno senza che se ne sia accorto lo spettatore medio, quella figura mitica che in quanto “media” è forse in sé quasi inesistente, ma comunque pietra di paragone per qualunque cosa. In ogni caso, consiglio vivamente la lettura dell’articolo che affronta in modo stimolante e puntuale l’argomento dell’avvento del digitale anche sul grande schermo.

Ci sono anche un paio di miei microcontributi in questo numero: uno nella rubrica Q & A e l’altro nello speciale sull’avventura.

giovedì 12 gennaio 2012

Flani (13): Cyborg anno 2087 metà uomo metà macchina... programmato per uccidere


Per la consueta rassegna di vecchi flani, questa volta un film del 1966 che uscì in Italia con quasi dieci anni di ritardo e scomparve nel nulla senza lasciare traccia, ma che, sotto sotto, ha una sua valenza perché se vi capita di guardarlo vi sarà subito evidente quanto la sua trama sia simile a quella di Terminator, con la differenza che lo precede di una ventina d’anni. Anche qui abbiamo un cyborg proveniente dal futuro con il compito di uccidere un terrestre in modo da modificare il futuro. Il cyborg non è muscoloso come Schwarzie, ma ha il look severo e alieno di Michael Rennie, protagonista di uno degli extraterrestri più iconici e famosi della fantascienza classica, quello di Ultimatum alla Terra (sì, proprio quello di “Klaatu barada nikto” o giù di lì, vado a memoria).

La regia è di Francis D. Lyon, specialista in telefilm, ma l’apporto più significativo è quello dello sceneggiatore Arthur C. Pierce, sceneggiatore anche di L’invasione - Marte attacca Terra che ha la peculiarità d’essere sempre del 1966 e di essere uscito in Italia con grande ritardo ma assieme a Cyborg anno 2087. Insomma, hanno fatto pacchetto con la differenza che L’invasione - Marte attacca Terra è so-bad-it’s-very-very-bad, mentre Cyborg sfiora la categoria del so-bad-it’s-good, per la peculiarità della trama e dello svolgimento. Dimenticavo, anche Marte attacca Terra è di Lyon e, non sorprendentemente, anche la casa di produzione è la medesima. Che tempi. I numeri di telefono erano ancora senza prefisso per chi chiamava dalla città e l’aria condizionata era un asset decisivo in piena estate.

Curioso il titolo italiano che di fronte alla stringatezza di quello originale (Cyborg 2087) aggiunge parole su parole nel dubbio che magari qualche spettatore potesse non capire di cosa si trattava. Mancava poco che nel titolo ci fosse tutta la trama.