venerdì 25 novembre 2011

Witchcraft through the Ages


La figura di Benjamin Christensen mi ha sempre incuriosito, almeno a partire da quando, molti anni fa, ho visto La stregoneria attraverso i secoli al locale cineclub. Un film stranissimo, inquietante e unico: un reperto del cinema muto (è del 1922) che regge ancora oggi senza aver subito gli oltraggi del passare degli anni. Un docudrama si direbbe adesso, ma per la sua particolare natura un film in realtà indefinibile, anticipatore del realismo e del neorealismo per certi aspetti eppure immaginifico e visionario quanto pochi altri.

Withcraft through the Ages - The Story of Haxan, the World’s Strangest Film and the Man Who Made It di Jack Stevenson (FAB Press, 128 pagg., £ 6.99) ripercorre la creazione di questo capolavoro - in originale Haxan e cioè La strega - la sua realizzazione e distribuzione, il suo esito al botteghino, la sua accoglienza critica e le sue innumerevoli resurrezioni, come quella prodotta (e rimaneggiata) da Anthony Balch (Diario proibito di un collegio femminile) con un posticcio commento audio letto niente meno che da William Burroughs, nel ‘68.

Ma il libro ripercorre anche e soprattutto la vicenda artistica e umana (anche se dell’uomo, della sua vita privata, si sa molto poco e i dettagli noti sono spesso sfuggenti) di Benjamin Christensen, artista riconosciuto e assolutamente libero al momento della realizzazione di Haxan - un film nato senza condizionamenti e realizzato esattamente come voleva il suo autore - e poi vittima di compromessi e pregiudizi, a partire dalla sua avventura hollywoodiana, nel corso della quale ha realizzato l’altro film per il quale è ancora oggi ricordato (Sette passi verso Satana, ovvero Seven Footprints to Satan) e che è finita nel più curioso dei modi in un bizzarro anticlimax.

Il libro traccia, anche attraverso documenti e recensioni dell’epoca, il faticoso ritorno al cinema in Danimarca, con la realizzazione di quattro film, l’insuccesso dell’ultimo dei quali conclude l’avventura realizzativa di Christensen, contento di finire tranquillamente e nell’agiatezza la sua vita gestendo un cinema. Parabola unica e non priva di insegnamenti, di un artista che ha osato l’inosabile e ha innovato più di quanto fosse consentito, un po’ come Orson Welles con Quarto potere, un altro film rivoluzionario realizzato esattamente secondo gli intendimenti dell’autore, ma a caro prezzo. Un prezzo che sarebbe stato pagato dopo e per sempre.

giovedì 24 novembre 2011

I Fantastici 4 e i loro film


Avevo già parlato qui delle mega celebrazioni in corso nel sito Lo Spazio Bianco e relative ai Fantastici Quattro. Se avete seguito il programma giornaliero avrete visto quante belle cose sono uscite, sia dal punto di vista grafico sia da quello "scritto". Se non avete invece seguito potete usufruire degli indubbi vantaggi di internet e recuperare in un botto solo la cornucopia di tutti questi giorni.

In ogni caso, segnalo che oggi è uscito (ma non rientrerà molto presto per cui avete comodamente tutto il tempo per leggervelo) il mio modesto contributo che, come forse avevo già preannunciato, si occupa di cinema e si intitola
I "Fantastici" tre film dei Fantastici Quattro, dove l'uso delle virgolette mi fa venire in mente Prima pagina di Billy Wilder (e chi l'ha visto puà capire perché, sempre che non sia passato un bel po' di tempo da quando l'ha visto e non si sia conseguentemente dimenticato tutto nel frattempo). Per leggere il mio contributo, basta che andiate qui.

Qui sopra un'immagine dal primo film dei Fantastici Quattro: è solo una mia impressione o Mr. Fantastic assomiglia molto a Fiorello?

sabato 19 novembre 2011

Flani (12): Blacula


Era da un po' che non postavo qualche vecchio flano e quindi lo faccio adesso, visto che ci sono. Il flano di questa volta riguarda un vecchio esempio di blaxploitation (quella particolare variante dell'exploitation caratterizzata dal fatto di essere interpretata da cast di colore e diretta prevalentemente a un pubblico di colore), realizzato proprio nel momento di massima espansione del fenomeno. Un fenomeno assai interessante che ha visto la partecipazione di registi di assoluto livello come Jack Hill e Larry Cohen e ha creato alcuni divi di notevole spessore come Pam Grier, Fred Williamson, Richard Roundtree e altri ancora che non nomino perché sicuramente li conoscete tutti.

Blacula sarebbe la contrazione di Black Dracula (lo dico per quelli che non si dilettano di enigmistica) ed è un film simpatico con alcune particolarità: il suicidio del vampiro, per esempio, e la storia d'amore che prelude a quella del Dracula coppoliano (uno dei film più sopravvalutati o sottovalutati della storia del cinema, a seconda di quali valutazioni andiamo a prendere in considerazione). William Marshall è un ottimo attore con voce imponente e modi solenni. Il contesto è un po' meno solenne, ma il film diverte comunque. Basta accontentarsi ed essere nella giusta disposizione d'animo (non chiedetemi quale, però).

Il flano, per non sbagliarsi, va alla grande con l'enfasi. Mi ricordo che quando il film è uscito credevo, con quel titolo, che fosse una parodia. Poi quando sono andato a vederlo mi ha fatto piacere constatare che non lo era (che fosse quella la disposizione d'animo giusta?), ma di certo non si è avverata la solenne profezia del flano e il film non è stato annoverato tra i classici del terrore. Non ancora, almeno. E dato che la profezia non ha una data di scadenza non è da escludere che il film possa essere considerato un classico nel futuro, chissà tra qualche secolo magari quando l'essere derivativo sarà ritenuto un pregio assoluto. Di sicuro, però, Blacula non è diventato il padrone del mondo, né nella realtà né nel film (e nemmeno nel seguito Scream, Blacula, Scream, inedito in Italia). Assetato, però, lo era certamente e su questo il flano non si sbaglia.

Bei tempi, quando si vedevano flani del genere e uscivano al cinema cose di questo tipo. C'era se non altro più varietà. Comunque, se vi capita dategli un'occhiata: nel Dizionario dei film horror gli ho dato due stellette e mezza, non male.

Leo & Lou


Per una serie di ragioni, non leggo molti fumetti ultimamente, ma ho letto questo volume e ne sono rimasto favorevolmente impressionato, perciò mi sembra opportuno segnalarvelo. Il titolo è Leo & Lou (come i più avvertiti avranno anticipato dal titolo del post) e l’autrice è Agata Matteucci: 82 pagine in bianco e nero, grande formato, brossurato, Edizioni Il Foglio.

I due del titolo sono fidanzati e la particolarità del fumetto, articolato in pagine singole con gag finale, è quella di vederli sempre in camera da letto, prevalentemente a letto, mentre parlano di questo e di quello. La tradizione è quindi quella del fumetto comico-intellettuale che una volta trovava spazio nelle riviste di fumetti che adesso sostanzialmente non ci sono più. L’autrice, nell’interessante postfazione, rivela le proprie ispirazioni, che vanno da Watterson a Schulz a, in particolare, Claire Bretecher. Segue quindi la tradizione alla quale ho accennato prima, ma lo fa con sufficiente garbo e inventiva da smarcarsene proponendo un piccolo universo del tutto personale. Il segno grafico è semplice, ma accattivante e ben eseguito: ci sono qua e là reminiscenze manga e la cosa non stona nel contesto. I testi sono spesso brillanti, con battute conclusive che riescono quasi sempre a dare un senso compiuto e spiazzante alla fase preparatoria. Anche se il tono è di frequente disilluso, le vicende sono pervase da un’umanità che le positivizza e le allontana, per esempio, dal pessimismo funzionale ed efficace, ma programmatico, della Bretecher. La lettura è piacevole e seguire la dialettica tra questi due personaggi - in parte schematici ma ben tratteggiati nel contrasto - fa desiderare, una volta concluso il libro, che possano tornare in un’altra serie di avventure immobili.

venerdì 18 novembre 2011

Rosco, Sonny e il fantasma della prigione


Sul n° 47 de Il Giornalino, quello attualmente in edicola, c'è una nuova avventura di Rosco e Sonny (la centottantunesima che ho scritto) intitolata Il fantasma della prigione.

Le prigioni abitate da fantasmi più o meno vendicativi sono un luogo narrativo, un topos come potrebbero forse dire i colti, non molto frequentato, ma non sconosciuto. Per citare solo un film, ricordo Prison di Renny Harlin, regista poi approdato a super produzioni come 58 minuti per morire, ma spesso frequentatore dell'ambiente horror (da Nightmare 4 a The Covenant, per non parlare dell'Esorcista - La genesi, quello ufficiale).

Nella storia di Rosco e Sonny spira tutt'altra aria, ma l'intrico è, come si dice, intricato e potrebbe consentire un quarto d'ora di divertimento.

I disegni sono come sempre dell'ottimo Rodolfo Torti e qui sopra ne vedete un esempio.

giovedì 10 novembre 2011

Bob Dylan e Mark Knopfler a Padova: una recensione.


Di nuovo a Padova a distanza di poco più di un anno (del precedente concerto ho parlato qui). E con Mark Knopfler. Da non credere per la comodità (per me, naturalmente). Diversamente dall’anno scorso, stavolta i posti a sedere nel Palafabris - caratterizzato ahimè da un’acustica ben poco commendevole - non sono davanti al palco, ma in fondo e ai lati, nelle tribune e gradinate del palazzetto. Il campo da gioco, invece, è riservato ai posti in piedi. Evidentemente, si è preso atto dell’impossibilità di impedire l’accesso al fronte palco ai soliti noti.

Comunque. Il Palafabris era assai gremito. Non ce l’ho fatta a contare tutti i presenti perché ho subito finito le dita delle mani, ma il colpo d’occhio era imponente. Con perfetta puntualità, notevole professionalità e grande cordialità, Mark Knopfler si è presentato sul palco circa alle nove con una nutrita band di sette elementi (più Knopfler) con chitarre e altri strumenti a corda in bella evidenza. Come anticipato dagli altri concerti del tour, il set è stato composto prevalentemente da pezzi del repertorio “solo” di Knopfler, perlopiù ignoti al pubblico che ha però dimostrato educatamente di gradire. Il tono era da folk-rock alla britannica, soft e sufficientemente delicato, con ampi spazi per virtuosismi strumentali non solo di Knopfler. I momenti topici, nei quali il pubblico si è sicuramente scaldato di più (al di là del fatto che la temperatura media del palazzetto era torrida) sono stati quelli dell’esecuzione di due vecchi e gloriosi cavalli di battaglia dei Dire Straits: la fantastica e sempre struggente Brother in Arms e la coinvolgente So Far Away, eseguite come di consueto quale premio finale alla disponibilità della folla.

Qualche minuto per la risistemazione del palco ed è stata la volta di Bob Dylan, accompagnato dalla sua solita band di cinque elementi (l’immarcescibile Tony Garnier al basso, George Recile alla batteria, Stu Kimball alla chitarra ritmica, Charlie Sexton alla chitarra più o meno solista e Donnie Herron a tutto il resto). Nei primi quattro brani, com’è divenuta consuetudine di questo tour, si è unito a loro Mark Knopfler, come guest star alla chitarra.

Il confronto tra la band di Dylan e quella di Knopfler sulle prime può sembrare impietoso: più elegante, raffinata, tecnicamente ineccepibile e maggiormente “colorata” nei toni e nelle sfumature del ricamo musicale quella dell’ex Dire Straits. Però è probabile che il sound attuale del gruppo di Dylan sia rispondente a una scelta precisa. Sexton, per fare un esempio, è chitarrista abile e virtuoso: se adesso brilla poco e ha poco spazio per assoli trascinanti non è perché non li sappia fare. Dylan, forse anche per lo stato della sua voce (rotta, strappata, gracchiante: anche se, curiosamente, non sempre), punta a un rock-blues tosto, duro, aspro, molto percussivo e ritmato, a volte troppo quadrato forse, ma anche capace di suadenti nuance. Non c’è più spazio per l’arpeggio elettrico alla Grateful Dead di una volta o al gioco chitarristico acustico che era tipico dei concerti degli anni ‘90. Il sound attuale è evidentemente quello che Dylan vuole e la band lo realizza con adesione. Possono esserci rimpianti per ciò che non c’è più, ma, per quanto mi riguarda, preferisco godermi quello che c’è, che non è affatto poco.

La scaletta è stata il consueto alternarsi tra pezzi scatenati e pezzi più riflessivi.

Leopard-Skin Pill-Box Hat ha aperto il concerto con la giusta enfasi sul ritmo, arricchito dai florilegi chitarristici di Mark Knopfler a dare respiro musicale. È un vecchio cavallo di battaglia un po’ abusato, ma sempre capace di scaldare l’ambiente.

It Ain’t Me, Babe è tra i vecchi pezzi uno di quelli che più soffre per l’arrangiamento duro cui è stato sottoposto. Nonostante gli interventi di Knopfler, si è persa l’atmosfera suggestiva di un vero e proprio manifesto dell’indipendenza sentimentale. Eppure, all’epoca del tour del ‘66 e della Rolling Thunder Revue, It Ain’t Me, Babe era stato elettrificato e roccheggiato in modo assai convincente. Bello l’assolo di armonica, comunque.

Things Have Changed è invece una canzone che migliora con gli anni, sempre più attuale, sempre più simbolo di anni di disillusione. Superba la resa di Dylan che “recita” simpaticamente i versi senza detrarne significato, ma anzi aggiungendo amara e ironica consapevolezza. Notevole il lavoro di Knopfler alla chitarra e strepitosa l’armonica di Dylan, stridente e agghiacciante (non quanto quella di Mama You Been On My Mind ai Festival di Phoenix, ma ci siamo vicini).

Mississippi: versione dira e spigolosa di una delle migliori canzoni del repertorio recente di Dylan. Knopfler, alla sua ultima partecipazione, la arricchisce con la sua inconfondibile chitarra e la potenza della canzone emerge fumante e tagliente.

Honest With Me, con Dylan alla chitarra, è il classico pezzo funzionale a intervallare canzoni più pregnanti. Devo dire che è un brano che non mi ha mai detto granché e continua a non dirmelo, ma è un bluesaccio elettrico che mantiene quello che promette.

Tangled Up in Blue: un altro classico, ultimamente rivitalizzato da un ennesimo nuovo arrangiamento che se non altro ne rinvigorisce l’indubbio fascino (è una delle più belle canzoni di Blood on the Tracks). Notevole il lavoro all’armonica di Dylan.

The Levee’s Gonna Break, in tempi di inondazioni ha la sua attualità (High Water sarebbe stata ancora più pregnante, oltre che più bella) e svolge una funzione simile a quella di Honest With Me, ma con maggiore qualità.

Desolation Row è tra i super classici, una canzone che per definizione non può deludere. L’arrangiamento è quello ormai consueto da decenni, con appena qualche spigolosità in più. La parata di mostri resta sempre amaramente vera.

Highway 61 Revisited: questa non manca mai, immutabile e immarcescibile.

Man in the Long Black Coat: una delle canzoni più profonde, belle di Dylan, da un album di eccezionale spessore (Oh Mercy), in un nuovo arrangiamento, soft e ritmato,arricchito da un’armonica straziante. Forse il punto più alto della serata, inquieto e inquietante.

Thunder on the Mountain: divertissement eseguito con brio e con gusto.

Ballad of a Thin Man: un’altra canzone che non delude mai e che, semplicemente, Dylan non riesce a eseguire male. Un’altra ottima versione, senza i giochi di luce che eravamo abituasti a vedere, ma con una sostanza concreta e spiazzante che non ha perso un grammo della sua forza nonostante i 46 anni d’età.

All Along the Watchtower: ha occupato per anni il terzo slot della scaletta e tuttora è una delle canzoni più eseguite in concerto. Anche questa è una canzone che riesce sempre bene, ma stavolta è stata un po’ in tono minore, senza lo sviluppo devastante e trascinante cui siamo stati abituati. Non male, comunque.

Like A Rolling Stone è stata la degna conclusione con la sua rabbia classica nella descrizione di una caduta precipitosa dal benessere che non è solo il destino di un singolo ma, di questi tempi, sembra poter essere quello di intere nazioni che forse scopriranno come ci si sente a non avere più una direzione verso casa. Devastante e scatenata.

Non c’è spazio per i bis, consuetudine rarissima in questo tour da doppio programma. Non ci si può però lamentare: dalle nove sin quasi a mezzanotte di musica serrata e senza pause. Niente male.

Il bello delle migliori canzoni di Bob Dylan è di rifiutarsi di essere datate, di acquistare sempre nuovi significati in aderenza con i tempi che cambiano, senza che esse abbiano bisogno di cambiare.

Dylan è apparso vivace, di buon umore, ha dispensato sorrisi e ha accennato a passi di danza: la sua voce è rotta, ma resta espressiva. Sembra piacergli quello che fa. E piace anche a me (quello che fa lui).

martedì 1 novembre 2011

Recensione di Franco Pezzini al Dizionario dei film horror nuova edizione


Segnalo con piacere questa recensione di Franco Pezzini - che ringrazio per l'attenzione - al Dizionario dei film horror nuova edizione. La recensione è stata pubblicata sul blog dell'Indice dei libri del mese - gloriosa e indispensabile rivista sulle uscite librarie e non solo - e la trovate facendo un clic su questo link.